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contro il mito della crescita
- Subject: contro il mito della crescita
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 8 Sep 2004 06:51:03 +0200
dal manifesto.it numero 9 settembre 2000 CONTRO IL MITO DELLA CRESCITA Carla Ravaioli "Ciò che noi combattiamo non è il liberismo o il capitalismo selvaggio, ma il capitalismo senza aggettivi: questo è il nostro nemico, sviluppo e crescita senza senso e senza finalità comunitarie, un modo di produrre consumare e vivere che significa un modo di non produrre e non vivere per gran parte del mondo e che genera infelicità anche nel mondo avanzato" (la rivista del manifesto, n. 6, maggio 2000). A differenza di quanti, rispondendo alla proposta Pintor, insistono soprattutto sulle forze da arruolare e sul modo di organizzarle per la costituzione di una nuova formazione politica, io credo che la riflessione debba piuttosto muovere da questo passaggio. Dove, nel prevedere un possibile programma, con elegante e d'altronde dichiarata nonchalance (lui dice "schematismo" e "vaghezza") Pintor mette a fuoco alcuni nodi centrali. Dunque il nostro vero nemico è il "capitalismo senza aggettivi", fatto di "sviluppo e crescita senza senso e senza finalità comunitarie". Questa è la verità, che appare in tutta la sua lampante chiarezza oggi, quando l'ossessivo inseguimento di una forsennata produzione non importa di che cosa, non importa per chi e per quale bisogno, non importa con quali conseguenze, di una crescita appunto priva di qualsiasi fine che non sia l'aumento del Pil, denuncia una drammatica separazione tra economia e società. Ma è una verità non solo di oggi, è una verità di sempre. È "la verità" del capitalismo senza aggettivi; di un sistema di produzione, scambio e consumo fondato sull'accumulazione, e dunque sull'aumento continuo del prodotto ("la moltiplicazione esponenziale delle merci", di marxiana memoria) che, tuttavia, per un periodo relativamente lungo, è parso trovare convergenza tra il proprio agire e l'utile sociale. Perché questo è accaduto, e questo ha irretito le sinistre politiche in una finora insuperata contraddizione. Il passaggio alla società industriale ha rappresentato per la maggioranza delle popolazioni occidentali, pur tra squilibri, sofferenze, sfruttamenti feroci, un fatto oggettivamente positivo; che ne ha considerevolmente migliorato gli standard di vita, alimentari, abitativi, igienico-sanitari, educativi, di accesso a consumi non di prima necessità, e così via. Ciò che forse, inevitabilmente, ha indotto nei movimenti operai e nei loro partiti l'assunzione di una linea in qualche modo schizoide: da un lato, al grido di "morte al capitale", si coltivava la promessa della rivoluzione; dall'altro, la difesa del posto di lavoro, la lotta alla disoccupazione, la battaglia per un miglior salario comportavano la salute della fabbrica, cioè la messa in opera di strategie che, per risultare utili agli operai, inevitabilmente dovevano assecondare gli interessi imprenditoriali, risultare funzionali alla prosperità dell'azienda, alla fortuna del datore di lavoro e dell'intera economia capitalistica. Nascevano così e si consolidavano nelle sinistre - mentre ancora si sognava l'ora X della presa del potere - il mito dell'industrialismo, il culto dell'economia acquisitiva, la fede nel Pil misuratore di benessere, l'identificazione tra crescita e progresso sociale: fino a quella sostanziale e sempre più indiscussa accettazione dell'ordine socioeconomico dato, oggi comune a quanto rimane del passato operaio. Dunque la crescita produttiva, nella forma dell'accumulazione capitalistica, per oltre un secolo è risultata vantaggiosa non solo per i padroni ma anche per i lavoratori. Questo era "capitalismo senza aggettivi". Quello stesso "capitalismo senza aggettivi" che nel suo polimorfo evolversi oggi si propone come "neoliberismo", "capitalismo selvaggio", "globalizzazione", ma che è ancora e sempre fatto di "sviluppo e crescita senza senso e senza finalità comunitarie", cioè di accumulazione. La quale, anche quando i suoi meccanismi creavano occupazione e crescente benessere nei paesi industrializzati, agiva secondo obiettivi di mera autoreferenzialità, non solo del tutto priva di finalità sociali, ma ignara delle stesse non intenzionali ricadute positive che fino a un dato momento si registravano nel sociale. Il consumismo, questa accelerazione coatta nell'uso di beni sempre meno necessari, che nulla ha a che fare con una giusta diffusione di consumi tra tutti i ceti, che non è in alcun modo finalizzato al benessere delle masse, e non serve altro obiettivo che la continua alimentazione della spirale produttivistica, avrebbe dovuto svelare la sua verità di strumento del capitale; il suo essere non l'aspetto negativo, eccedente, dello sviluppo capitalistico, ma la più vistosa manifestazione della sua stessa essenza, la concreta rappresentazione del fatto che (come diceva Claudio Napoleoni) "la funzione specifica del valore d'uso consiste nel fornire un supporto al valore di scambio". Nessuna lettura del genere ha avuto luogo tra le sinistre. E tranquillamente si è lasciato prosperare, anzi si è con ogni mezzo sollecitato, favorito e auspicato "un modo di produrre, consumare e vivere che significa un modo di non produrre non consumare non vivere per gran parte del mondo e che genera infelicità anche nel mondo avanzato". Ed è un altro punto cruciale che, con invidiabile "schematicità", Pintor mette a fuoco. Perché anche quando oggettivamente le condizioni sociali dei paesi industrializzati andavano migliorando, questo veniva pesantemente pagato dal Terzo mondo, da un lato, e dall'altro dal progressivo squilibrio dei sistemi ecologici del pianeta dall'altro. Due fenomeni di cui il primo è stato a lungo occultato e inghiottito dal colonialismo, poi mistificato in operazioni sedicenti di "aiuto", il secondo è stato fino a ieri o del tutto ignorato, o osservato separatamente dalle sue cause, che sono essenzialmente economiche, e separatamente da esse ritenuto emendabile. Due problemi cui non è più possibile mettere la sordina, quando la distanza tra ricchi e poveri del mondo va paurosamente allargandosi, mentre la crisi ambientale accumula catastrofi e prospetta terrificanti presagi, sommandosi a quella diffusa infelicità che, anche nei nostri ricchi paesi, l'acquisizione ossessiva di cose non riesce a compensare. Partendo da queste considerazioni - e approfondendole ben più di quanto mi sia qui possibile - forse è meno arduo mettere a fuoco realtà e domande del "popolo degli astenuti", di quell'arco di forze che è "espressione dell'impossibilità di esprimersi nell'attuale quadro politico" (Santomassimo, la rivista del manifesto, n. 7, giugno 2000), e che non può certo ritenersi "mobilitabile con un' aggregazione solo organizzativa" (Chiarante, ibidem). Un arco di forze entro cui certo figurano quanti non si riconoscono più in una sinistra che non fa niente "di sinistra", che affida la prosperità del paese al taglio delle pensioni e allo svuotamento dello stato sociale, ma non ne rappresentano la maggioranza né quantitativa né qualitativa. Perché i più, nell'impossibilità di esprimersi mediante gli strumenti della politica costituita, si esprimono - come è stato sottolineato - in molti altri modi, che vanno dal volontariato alle attività sociali più diverse, dall'universo delle Ong alle sempre più numerose manifestazioni che, da Seattle in poi, assediano gli istituti mondiali del potere. Se tentiamo di decifrare le istanze di tutti costoro, non è difficile ricondurle - tutte, benché estremamente diversificate - a quel "capitalismo senza aggettivi" di cui parla Pintor e al quale mi sono riferita finora. Certo i linguaggi di questi soggetti non sono immediatamente traducibili nei termini della comunicazione ordinaria, e men che meno del gergo politico. Né si può chiedere loro la lucida consequenzialità di argomentazioni logiche, fatti come sono soprattutto di gesti, colori, alfabeti allusivi, parole corporee, vocaboli simbolici, silenzi: strumenti idonei a dire ciò che si sente più di ciò che si pensa. Ma se cerchiamo di cogliere i punti nodali della loro protesta, leggiamo chiaramente: guerra, disuguaglianza, distruzione della natura, mercificazione della vita, disparità tra i sessi. Leggiamo cioè i portati ineliminabili del "capitalismo senza aggettivi", sistema socioeconomico basato sull'accumulazione, sulla coazione a crescere. Sono dunque problemi "di sinistra", problemi molto simili a quelli che alla sinistra hanno dato vita e ragione, o addirittura gli stessi che ritornano, magari con facce diverse e da regioni lontane. Oppure sono problemi nuovi, sconosciuti all'agenda storica delle sinistre, ma che le sinistre non dovrebbero aver difficoltà a riconoscere come propri: per fare un esempio, 3500 italiani che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità muoiono ogni anno a causa dell'inquinamento atmosferico, parrebbero cosa di cui le sinistre siano tenute a farsi carico. Ma nulla o pochissimo del genere accade. Così che il "popolo degli astenuti" rimane forse la vera sinistra oggi riconoscibile. La sola area sociale che dice "cose di sinistra". Le dice confusamente, non di rado contraddittoriamente, o magari tacendo, semplicemente defilandosi dalla politica e rifiutando il voto? Non c'è da stupircene se le sinistre istituzionali non le dicono in alcun modo. Le dicono in modo estremo? Non si vede in che altro modo potrebbero in un mondo che dice solo "crescita". Perché è questo che questa sinistra extrapolitica ha capito e, sia pure confusamente e magari contraddittoriamente, dice. Ha capito che finché la crescita del prodotto sarà l'obiettivo primo del nostro agire economico, anzi dell'intera nostra esistenza, è inutile sperare pace: le armi sono merci, e alla pari di tutte le altre merci vengono progettate, fabbricate, commercializzate, e in questo processo creano valore aggiunto, reddito, puntualmente contabilizzato nel computo del Pil, il mitico indicatore del benessere e del progresso sociale; e pertanto le guerre, grandi e piccole, sono necessarie per far quadrare i conti del mondo. È inutile sperare uguaglianza, o anche solo meno disuguaglianza, in ambito internazionale come all'interno dei singoli paesi: se è vero (per limitarci a un esempio, fornitoci da una fonte insospettabile quale l'Onu) che la spesa sostenuta in Occidente per cure dimagranti basterebbe a salvare tutti gli affamati della Terra, e che questo non solo tollera ma esige e dispone l'attuale organizzazione economica. La quale è strutturalmente attrezzata per promuovere (tra pubblicità, mass media, ecc.) Un ulteriore aumento della spesa per cure dimagranti, ma non prevede in alcun modo di attivarsi per eliminare la fame; compito affidato ad organi extraeconomici come la Fao e l'Unicef, o solo finanziari, come la Banca mondiale e il Fmi, elemosinieri istituzionali d'altronde attentissimi a non turbare le regole del sistema, anzi tenuti a curarne strenuamente gli interessi e a imporne dovunque modi e modelli. È inutile sognare un ambiente risanato o anche solo un po' meno inquinato e dissestato, perché (come è apparso chiarissimo dopo le varie conferenze internazionali dedicate alla materia) l'economia mondiale non può cessare di aumentare quanto possibile la propria attività produttiva, e quindi la quantità di rifiuti, solidi liquidi gassosi, sistematicamente rovesciati sul mondo. È inutile illudersi che ogni scoperta scientifica venga debitamente testata e controllata nella sua possibile nocività prima di trovare applicazione tecnica e sfruttamento industriale, perché questo andrebbe a ledere l'immediato aumento della produttività e dei profitti che l'imperativo della crescita, sotto la sferza della competitività planetaria, impone. È inutile attendere una reale parità tra uomini e donne finché l'organizzazione industriale planetaria, impiantata sull'iniquità della millenaria tradizione patriarcale, non potrà rinunciare a quell'attività di produzione e manutenzione della forza lavoro a costo zero cui le donne dovunque sono costrette a beneficio della prosperità economica. Tale è il "capitalismo senza aggettivi", che fino ad alcuni decenni fa in qualche misura consentiva il convergere degli interessi del padronato con quelli dei lavoratori. Quello stesso che oggi invece, continuando esattamente come ieri a inseguire la crescita produttiva quale suo obiettivo primario e irrinunciabile, crea disoccupazione, insicurezza, mostruose povertà accanto a oltraggiose ricchezze, danni irreversibili per la vita di tutti, travolgendo come semplici impacci i diritti del lavoro, le ragioni dell'ambiente, i dubbi sulle attività transgeniche, le istanze sociali di ogni tipo. Quello che, sia pure in modo confuso e magari contraddittorio, i "figli di Seattle" - cioè una cospicua quota del "popolo degli astenuti"- hanno individuato come il "nemico". Rivelando una consapevolezza che potrebbe forse mettere in crisi l'economia capitalistica più di quanto possano oggi farlo le tradizionali rivendicazioni operaie, e che, qualora venisse fatta propria dal lavoro dipendente, potrebbe prospettare nuovi orizzonti all'attuale ordine socioeconomico. Questo a me parrebbe il primo compito di quella nuova formazione di sinistra su cui si sta discutendo. Raccogliere ciò che questa sinistra extrapolitica sente e dice in mille modi, cercare di leggerne fino in fondo i contenuti e il senso, affrontarli organicamente e sistematicamente, provare a ricavarne una strategia finalmente all'altezza dei problemi del mondo. E magari, chissà, potrebbe anche essere, più di qualsiasi impegno organizzativo, il modo per riportare alle urne il "popolo degli astenuti".
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