contro il mito della crescita



dal manifesto.it

numero  9  settembre 2000
CONTRO IL MITO DELLA CRESCITA
Carla Ravaioli

"Ciò che noi combattiamo non è il liberismo o il capitalismo selvaggio, ma
il capitalismo senza aggettivi: questo è il nostro nemico, sviluppo e
crescita senza senso e senza finalità comunitarie, un modo di produrre
consumare e vivere che significa un modo di non produrre e non vivere per
gran parte del mondo e che genera infelicità anche nel mondo avanzato" (la
rivista del manifesto, n. 6, maggio 2000).
A differenza di quanti, rispondendo alla proposta Pintor, insistono
soprattutto sulle forze da arruolare e sul modo di organizzarle per la
costituzione di una nuova formazione politica, io credo che la riflessione
debba piuttosto muovere da questo passaggio. Dove, nel prevedere un
possibile programma, con elegante e d'altronde dichiarata nonchalance (lui
dice "schematismo" e "vaghezza") Pintor mette a fuoco alcuni nodi centrali.
Dunque il nostro vero nemico è il "capitalismo senza aggettivi", fatto di
"sviluppo e crescita senza senso e senza finalità comunitarie". Questa è la
verità, che appare in tutta la sua lampante chiarezza oggi, quando
l'ossessivo inseguimento di una forsennata produzione non importa di che
cosa, non importa per chi e per quale bisogno, non importa con quali
conseguenze, di una crescita appunto priva di qualsiasi fine che non sia
l'aumento del Pil, denuncia una drammatica separazione tra economia e
società. Ma è una verità non solo di oggi, è una verità di sempre. È "la
verità" del capitalismo senza aggettivi; di un sistema di produzione,
scambio e consumo fondato sull'accumulazione, e dunque sull'aumento continuo
del prodotto ("la moltiplicazione esponenziale delle merci", di marxiana
memoria) che, tuttavia, per un periodo relativamente lungo, è parso trovare
convergenza tra il proprio agire e l'utile sociale.
Perché questo è accaduto, e questo ha irretito le sinistre politiche in una
finora insuperata contraddizione. Il passaggio alla società industriale ha
rappresentato per la maggioranza delle popolazioni occidentali, pur tra
squilibri, sofferenze, sfruttamenti feroci, un fatto oggettivamente
positivo; che ne ha considerevolmente migliorato gli standard di vita,
alimentari, abitativi, igienico-sanitari, educativi, di accesso a consumi
non di prima necessità, e così via. Ciò che forse, inevitabilmente, ha
indotto nei movimenti operai e nei loro partiti l'assunzione di una linea in
qualche modo schizoide: da un lato, al grido di "morte al capitale", si
coltivava la promessa della rivoluzione; dall'altro, la difesa del posto di
lavoro, la lotta alla disoccupazione, la battaglia per un miglior salario
comportavano la salute della fabbrica, cioè la messa in opera di strategie
che, per risultare utili agli operai, inevitabilmente dovevano assecondare
gli interessi imprenditoriali, risultare funzionali alla prosperità
dell'azienda, alla fortuna del datore di lavoro e dell'intera economia
capitalistica. Nascevano così e si consolidavano nelle sinistre - mentre
ancora si sognava l'ora X della presa del potere - il mito
dell'industrialismo, il culto dell'economia acquisitiva, la fede nel Pil
misuratore di benessere, l'identificazione tra crescita e progresso sociale:
fino a quella sostanziale e sempre più indiscussa accettazione dell'ordine
socioeconomico dato, oggi comune a quanto rimane del passato operaio.

Dunque la crescita produttiva, nella forma dell'accumulazione capitalistica,
per oltre un secolo è risultata vantaggiosa non solo per i padroni ma anche
per i lavoratori. Questo era "capitalismo senza aggettivi". Quello stesso
"capitalismo senza aggettivi" che nel suo polimorfo evolversi oggi si
propone come "neoliberismo", "capitalismo selvaggio", "globalizzazione", ma
che è ancora e sempre fatto di "sviluppo e crescita senza senso e senza
finalità comunitarie", cioè di accumulazione. La quale, anche quando i suoi
meccanismi creavano occupazione e crescente benessere nei paesi
industrializzati, agiva secondo obiettivi di mera autoreferenzialità, non
solo del tutto priva di finalità sociali, ma ignara delle stesse non
intenzionali ricadute positive che fino a un dato momento si registravano
nel sociale.
Il consumismo, questa accelerazione coatta nell'uso di beni sempre meno
necessari, che nulla ha a che fare con una giusta diffusione di consumi tra
tutti i ceti, che non è in alcun modo finalizzato al benessere delle masse,
e non serve altro obiettivo che la continua alimentazione della spirale
produttivistica, avrebbe dovuto svelare la sua verità di strumento del
capitale; il suo essere non l'aspetto negativo, eccedente, dello sviluppo
capitalistico, ma la più vistosa manifestazione della sua stessa essenza, la
concreta rappresentazione del fatto che (come diceva Claudio Napoleoni) "la
funzione specifica del valore d'uso consiste nel fornire un supporto al
valore di scambio".
Nessuna lettura del genere ha avuto luogo tra le sinistre. E tranquillamente
si è lasciato prosperare, anzi si è con ogni mezzo sollecitato, favorito e
auspicato "un modo di produrre, consumare e vivere che significa un modo di
non produrre non consumare non vivere per gran parte del mondo e che genera
infelicità anche nel mondo avanzato". Ed è un altro punto cruciale che, con
invidiabile "schematicità", Pintor mette a fuoco. Perché anche quando
oggettivamente le condizioni sociali dei paesi industrializzati andavano
migliorando, questo veniva pesantemente pagato dal Terzo mondo, da un lato,
e dall'altro dal progressivo squilibrio dei sistemi ecologici del pianeta
dall'altro. Due fenomeni di cui il primo è stato a lungo occultato e
inghiottito dal colonialismo, poi mistificato in operazioni sedicenti di
"aiuto", il secondo è stato fino a ieri o del tutto ignorato, o osservato
separatamente dalle sue cause, che sono essenzialmente economiche, e
separatamente da esse ritenuto emendabile. Due problemi cui non è più
possibile mettere la sordina, quando la distanza tra ricchi e poveri del
mondo va paurosamente allargandosi, mentre la crisi ambientale accumula
catastrofi e prospetta terrificanti presagi, sommandosi a quella diffusa
infelicità che, anche nei nostri ricchi paesi, l'acquisizione ossessiva di
cose non riesce a compensare.
Partendo da queste considerazioni - e approfondendole ben più di quanto mi
sia qui possibile - forse è meno arduo mettere a fuoco realtà e domande del
"popolo degli astenuti", di quell'arco di forze che è "espressione
dell'impossibilità di esprimersi nell'attuale quadro politico"
(Santomassimo, la rivista del manifesto, n. 7, giugno 2000), e che non può
certo ritenersi "mobilitabile con un' aggregazione solo organizzativa"
(Chiarante, ibidem). Un arco di forze entro cui certo figurano quanti non si
riconoscono più in una sinistra che non fa niente "di sinistra", che affida
la prosperità del paese al taglio delle pensioni e allo svuotamento dello
stato sociale, ma non ne rappresentano la maggioranza né quantitativa né
qualitativa. Perché i più, nell'impossibilità di esprimersi mediante gli
strumenti della politica costituita, si esprimono - come è stato
sottolineato - in molti altri modi, che vanno dal volontariato alle attività
sociali più diverse, dall'universo delle Ong alle sempre più numerose
manifestazioni che, da Seattle in poi, assediano gli istituti mondiali del
potere.
Se tentiamo di decifrare le istanze di tutti costoro, non è difficile
ricondurle - tutte, benché estremamente diversificate - a quel "capitalismo
senza aggettivi" di cui parla Pintor e al quale mi sono riferita finora.
Certo i linguaggi di questi soggetti non sono immediatamente traducibili nei
termini della comunicazione ordinaria, e men che meno del gergo politico. Né
si può chiedere loro la lucida consequenzialità di argomentazioni logiche,
fatti come sono soprattutto di gesti, colori, alfabeti allusivi, parole
corporee, vocaboli simbolici, silenzi: strumenti idonei a dire ciò che si
sente più di ciò che si pensa. Ma se cerchiamo di cogliere i punti nodali
della loro protesta, leggiamo chiaramente: guerra, disuguaglianza,
distruzione della natura, mercificazione della vita, disparità tra i sessi.
Leggiamo cioè i portati ineliminabili del "capitalismo senza aggettivi",
sistema socioeconomico basato sull'accumulazione, sulla coazione a crescere.
Sono dunque problemi "di sinistra", problemi molto simili a quelli che alla
sinistra hanno dato vita e ragione, o addirittura gli stessi che ritornano,
magari con facce diverse e da regioni lontane. Oppure sono problemi nuovi,
sconosciuti all'agenda storica delle sinistre, ma che le sinistre non
dovrebbero aver difficoltà a riconoscere come propri: per fare un esempio,
3500 italiani che secondo l'Organizzazione mondiale della sanità muoiono
ogni anno a causa dell'inquinamento atmosferico, parrebbero cosa di cui le
sinistre siano tenute a farsi carico. Ma nulla o pochissimo del genere
accade. Così che il "popolo degli astenuti" rimane forse la vera sinistra
oggi riconoscibile. La sola area sociale che dice "cose di sinistra". Le
dice confusamente, non di rado contraddittoriamente, o magari tacendo,
semplicemente defilandosi dalla politica e rifiutando il voto? Non c'è da
stupircene se le sinistre istituzionali non le dicono in alcun modo. Le
dicono in modo estremo? Non si vede in che altro modo potrebbero in un mondo
che dice solo "crescita".
Perché è questo che questa sinistra extrapolitica ha capito e, sia pure
confusamente e magari contraddittoriamente, dice. Ha capito che finché la
crescita del prodotto sarà l'obiettivo primo del nostro agire economico,
anzi dell'intera nostra esistenza, è inutile sperare pace: le armi sono
merci, e alla pari di tutte le altre merci vengono progettate, fabbricate,
commercializzate, e in questo processo creano valore aggiunto, reddito,
puntualmente contabilizzato nel computo del Pil, il mitico indicatore del
benessere e del progresso sociale; e pertanto le guerre, grandi e piccole,
sono necessarie per far quadrare i conti del mondo. È inutile sperare
uguaglianza, o anche solo meno disuguaglianza, in ambito internazionale come
all'interno dei singoli paesi: se è vero (per limitarci a un esempio,
fornitoci da una fonte insospettabile quale l'Onu) che la spesa sostenuta in
Occidente per cure dimagranti basterebbe a salvare tutti gli affamati della
Terra, e che questo non solo tollera ma esige e dispone l'attuale
organizzazione economica. La quale è strutturalmente attrezzata per
promuovere (tra pubblicità, mass media, ecc.) Un ulteriore aumento della
spesa per cure dimagranti, ma non prevede in alcun modo di attivarsi per
eliminare la fame; compito affidato ad organi extraeconomici come la Fao e
l'Unicef, o solo finanziari, come la Banca mondiale e il Fmi, elemosinieri
istituzionali d'altronde attentissimi a non turbare le regole del sistema,
anzi tenuti a curarne strenuamente gli interessi e a imporne dovunque modi e
modelli.
È inutile sognare un ambiente risanato o anche solo un po' meno inquinato e
dissestato, perché (come è apparso chiarissimo dopo le varie conferenze
internazionali dedicate alla materia) l'economia mondiale non può cessare di
aumentare quanto possibile la propria attività produttiva, e quindi la
quantità di rifiuti, solidi liquidi gassosi, sistematicamente rovesciati sul
mondo. È inutile illudersi che ogni scoperta scientifica venga debitamente
testata e controllata nella sua possibile nocività prima di trovare
applicazione tecnica e sfruttamento industriale, perché questo andrebbe a
ledere l'immediato aumento della produttività e dei profitti che
l'imperativo della crescita, sotto la sferza della competitività planetaria,
impone. È inutile attendere una reale parità tra uomini e donne finché
l'organizzazione industriale planetaria, impiantata sull'iniquità della
millenaria tradizione patriarcale, non potrà rinunciare a quell'attività di
produzione e manutenzione della forza lavoro a costo zero cui le donne
dovunque sono costrette a beneficio della prosperità economica.
Tale è il "capitalismo senza aggettivi", che fino ad alcuni decenni fa in
qualche misura consentiva il convergere degli interessi del padronato con
quelli dei lavoratori. Quello stesso che oggi invece, continuando
esattamente come ieri a inseguire la crescita produttiva quale suo obiettivo
primario e irrinunciabile, crea disoccupazione, insicurezza, mostruose
povertà accanto a oltraggiose ricchezze, danni irreversibili per la vita di
tutti, travolgendo come semplici impacci i diritti del lavoro, le ragioni
dell'ambiente, i dubbi sulle attività transgeniche, le istanze sociali di
ogni tipo. Quello che, sia pure in modo confuso e magari contraddittorio, i
"figli di Seattle" - cioè una cospicua quota del "popolo degli astenuti"-
hanno individuato come il "nemico". Rivelando una consapevolezza che
potrebbe forse mettere in crisi l'economia capitalistica più di quanto
possano oggi farlo le tradizionali rivendicazioni operaie, e che, qualora
venisse fatta propria dal lavoro dipendente, potrebbe prospettare nuovi
orizzonti all'attuale ordine socioeconomico.
Questo a me parrebbe il primo compito di quella nuova formazione di sinistra
su cui si sta discutendo. Raccogliere ciò che questa sinistra extrapolitica
sente e dice in mille modi, cercare di leggerne fino in fondo i contenuti e
il senso, affrontarli organicamente e sistematicamente, provare a ricavarne
una strategia finalmente all'altezza dei problemi del mondo. E magari,
chissà, potrebbe anche essere, più di qualsiasi impegno organizzativo, il
modo per riportare alle urne il "popolo degli astenuti".