welfare e competitività



24 Marzo 2003

Relazione di LAURA PENNACCHI: COMPETITIVITÀ E WELFARE

COMPETITIVITÀ E WELFARE
Relazione al convegno "Dalle disuguaglianze alla cittadinanza"
24-25 gennaio - Roma

1. Vorrei trattare il tema delle relazioni possibili tra "competitività" e
"giustizia sociale" alla luce dell'impostazione originale e coraggiosa
adottata dal convegno odierno, visibile già nel suo titolo e ancor più nell'
introduzione di Livia Turco.
L'originalità e il coraggio emergono da questi due elementi:
a) povertà e disuguaglianza vengono correlate, così come vengono correlate
eguaglianza, inclusione, cittadinanza;
b) la correlazione, mentre reimpone all'attenzione il tema "povertà" - su
cui registriamo le disastrose politiche o assenza di politiche del governo,
ma anche una persistente reticenza culturale della sinistra - ripropone una
questione "eguaglianza".
Questa originalità è preziosa, non va rapidamente dispersa, occorre trarne,
dunque, alcune implicazioni, esplicitarle, verificare se su di esse c'è un
reale accordo senza fingere un accordo frettoloso, perché siamo di fronte a
questioni cruciali delle democrazie moderne.
Misuriamo questa preziosità proprio a partire dalle relazioni ipotizzabili
tra "competitività" e "giustizia sociale". Ciò è importante perché proprio
su questo terreno nel recente passato c'è stata qualche subalternità anche a
sinistra alla visone neo-liberista. Su questo terreno il ventennio
neo-liberista ha riproposto il dominio dell'ipotesi del trade-off, cioè di
una relazione di incompatibilità tra sviluppo economico (e quindi nuova
occupazione) e istituzioni della cittadinanza sociale (sostanzialmente
coincidenti con il welfare state). Tale relazione di incompatibilità
arresterebbe lo sviluppo economico, a causa dell'entità della pressione
fiscale e dei carichi contributivi necessari a finanziare la spesa sociale,
del regime vincolistico di legislazione sul lavoro, della sovrabbondanza di
regolamentazione, dell'invadenza del settore pubblico, del peso delle
organizzazioni sindacali e della concertazione, tutti aspetti propri delle
istituzioni della "giustizia sociale".
2. Respingere l'ipotesi del trade-off implica cercare una visione che non si
limiti a conciliare le esigenze della "competitività" e quelle della
"giustizia sociale", il che implicherebbe che la priorità rimarrebbe pur
sempre assegnata a leggi economiche concepite come naturalisticamente
necessitate, rispetto alle quali si tratterebbe solo di compensare ex post
le disparità che esse possono generare. Serve, invece, una visione che
esplori le sinergie tra la sfera economica e quella sociale, e in
particolare si chieda se perseguire alcune istanze di giustizia non sia un
modo anche di perseguire la competitività e, viceversa, se utilizzare una
certa nozione di competitività, piuttosto che altre, non consenta di essere
più coerenti con le istanza di giustizia. Si tratterebbe, evidentemente, di
una nozione di competitività non angusta e ristretta come quella che torna a
usare il presidente di Confindustria D'Amato, quando attribuisce "l'
insoddisfacente competitività italiana all'assetto del mercato del lavoro e
delle pensioni".
3. In sostanza, la tesi alternativa, volta alla ricerca delle sinergie, è la
seguente: se le cose vanno male per la giustizia, possono andare molto male
anche per la competitività. L'esempio più eclatante è quello dell'esplosione
delle disuguaglianze (di cui è parte l'incremento della povertà) nella
distribuzione del reddito.
Le disuguaglianze stanno oggi crescendo non solo nel basso ma lungo la parte
intermedia della scala distributiva, al punto da minacciare quello che Paul
Krugman ha definito un rischio di "scomparsa della classe media". Krugman,
analizzando gli Stati Uniti, osserva uno slittamento tectonic nella
distribuzione del reddito che ha portato a un allargamento del gap e ad un
astonishing concentrazione del reddito e della ricchezza nelle mani dei più
ricchi: dal 1979 alla fine degli anni '90 il reddito, (deflazionato, dopo le
tasse) dell'1% al top della distribuzione è cresciuto del 157%, quello delle
famiglie che stanno nel mezzo solo del 10%, cioè lo 0,5% annuo. Per di più,
questo relativo impoverimento si accompagna ad un più alto numero di ore
lavorate, specie delle donne, il che vuol dire ulteriore svalorizzazione del
salario orario reale, e ad un forte indebitamento delle famiglie, il che
implica un degrado nelle condizioni di vita quotidiana. L'impoverimento dei
ceti medi è confermato dai dati sulle assicurazioni sanitarie: su 1.400.000
persone che, avendo perso il lavoro, l'hanno persa nell'ultimo anno, 400.000
avevano redditi superiori a 75.000 dollari annui.
Questa ineguaglianza è controproduttiva. Ha costi economici enormi in
relazione a:
- aspettative di vita più basse, mortalità infantile elevata, standard di
vita inferiori (anche a causa di licenziamenti collettivi più comuni: senza
lavoro non c'è assicurazione, e questo significa, per i piani pensionistici
individuali, nessuna pensione).
- Quando la differenza fra la paga dei primi 100 supermanager, che era già
elevata nel 1970 ma era "solo" di 30 volte, balza a 1.000 volte, quando il
gap tra premio al lavoro e premio al capitale cresce esponenzialmente,
quando aumenta il dislivello tra redditi qualificati e redditi
sottoqualificati al di là del razionalmente spiegabile - e per spiegare
bisogna fare ricorso a effervescenza delle borse, stock options assurde,
scandali aziendali, briglie sciolte sui mercati finanziari - non si può
pensare che tutto ciò sia privo di conseguenze sulla produttività, l'
efficienza, la competitività e il benessere generale.
4. Sottolineare la problematica "competitività/giustizia sociale", ci porta
ad alcuni esiti interessanti sul piano di quello svisceramento semantico che
chiede Chiara Saraceno e che io propongo di estendere. Esso, infatti,
riguarda la povertà ma anche l'eguaglianza, ricordando innanzitutto che
eguaglianza in termini di policies significa:
a) politiche della tassazione progressiva, progressività che il duo
Berlusconi/Tremonti sta distruggendo;
b) politiche dei redditi e dei differenziali retributivi;
c) politiche pubbliche di trasferimenti e di servizi.
A. In primo luogo, dobbiamo deplorare che la parola eguaglianza sia così
caduta "in disuso" (Gorrieri). Il filosofo politico liberaldemocratico
Dworkin dice: "Nel regno degli ideali politici l'eguaglianza è la specie in
pericolo. Soltanto qualche decennio fa, un uomo politico che affermasse di
essere progressista, o anche centrista, coltivava il progetto di una società
realmente egualitaria almeno come ideale utopico. Oggi, al contrario, anche
i politici che si autodefiniscono di centrosinistra rifiutano l'eguaglianza
persino in quanto ideale".
Ma non possiamo separarci dalla finalità dell'eguaglianza, continua Dworkin,
magari preoccupandoci solo di assicurare a ciascuno "la ricchezza
sufficiente a soddisfare le necessità minime" e decidendo di ignorare "se
alcuni cittadini dispongono di una ricchezza superiore a quella di altri".
Se trattare tutti con eguale considerazione è un requisito essenziale della
legittimità democratica, la questione di ciò che l'eguale considerazione
richiede è costitutiva della dialettica democratica, per Dworkin addirittura
primaria poiché il suo liberalismo deriva valori e diritti non dalla libertà
ma dall'eguaglianza, il che fa dell'eguaglianza non solo "un valore
compatibile con la libertà" ma prima di tutto "un valore necessariamente
apprezzato da chi apprezza la libertà". Per questo Dworkin propone "non
semplicemente un'attenuazione della diseguaglianza", ma l'eguaglianza come
obiettivo legittimo per le comunità democratiche.
B. In secondo luogo, sottolineare la problematica "competitività e giustizia
sociale"ci porta ad alcuni esiti interessanti, dal punto di vista analitico
e politico: povertà e diseguaglianza sono non coincidenti e insieme
profondamente connesse, perché la povertà è appunto una forma estrema di
diseguaglianza.
Non coincidenti. Atkinson osserva che "quando parlano di povertà le persone
chiaramente hanno in mente la parte più bassa della distribuzione del
reddito", il che può essere interpretato come un'attenzione alle persone con
redditi inferiori, senza che questo implichi necessariamente un interesse a
come variano le diseguaglianze nella parte restante della distribuzione. Le
conseguenze di ciò sulle categorie interpretative e sulle policies sono
rilevanti, perché l'adozione dei criteri dell'eguaglianza, invece, obbliga a
considerare , in termini relativi, quello che avviene lungo tutta la scala
distributiva.
Connesse. E dunque non si può trattare la diseguglianza come se la povertà
non esistesse, né si può trattare la povertà in un modo che espunga dall'
orizzonte analitico e politico la questione delle diseguaglianze. Come fa la
destra quando, adottando la tesi del trade-off, imputa ai benefici e alle
tutele di cui godono i ceti a reddito medio la causa della povertà.
Ritroviamo echi di questa (sbagliata) impostazione nella contrapposizione
insiders/outsiders, padri/figli,la quale è stata alimentata anche a
sinistra.
C. In terzo luogo, dobbiamo respingere l'idea che l'inclusione possa
sostituire l'eguaglianza. In realtà, se l'inclusione è l'insieme di
strategie (inclusive, appunto) che danno corpo a una cittadinanza evoluta, l
'eguaglianza è, al tempo stesso, una delle condizioni - come eguale
considerazione di ciascuno - per cui una strategia di inclusione possa avere
luogo, uno dei suoi requisiti processuali e uno degli esiti che ne misura l'
efficacia. L'inclusione, dunque,non sostituisce affatto l'eguaglianza, la
sostituisce solo se restringiamo il concetto di "inclusione" a lotta alla
povertà e alla marginalità.
C. In quarto luogo, dobbiamo respingere l'idea che per l'inclusione conti
solo l'eguaglianza delle opportunità e non anche una qualche eguaglianza dei
risultati. Perché: a) l'eguaglianza dei risultati conta; infatti, l'evidenza
empirica ci dice che l'ineguaglianza accresce la mortalità, la morbilità, le
carenze di abilità e di saperi; b) il risultato di una generazione è il
punto di partenza della successiva. Quindi "eguaglianza dei risultati" ed
"eguaglianza delle opportunità" sono, in realtà, non contrapposte ma
correlate. E d'altro canto la contrapposizione tiene solo se operiamo un'
altra restrizione: adottiamo, cioè, un concetto di opportunità solo formale
e non un concetto di opportunità come capacità, cioè di concrete opportunità
di essere, di fare, di avere, di sapere, di essere informati, di
partecipare, ecc.
Al contrario, abbiamo bisogno di un arricchimento che intrecci insieme
inclusione, eguaglianza, opportunità. E questo ci porta anche ad arricchire
la nostra visione della libertà, riscoprendone la pluralità di dimensioni,
andando oltre la libertà solo come facoltà di scelta sul mercato e
valorizzando una dimensione della libertà come autonomia e integrità della
persona.
4. Siamo così in condizione di vedere meglio le diverse filosofie del
welfare che si fronteggiano:
- c'è un welfare residuale caritatevole;
- c'è un welfare strumentale;
- c'è un welfare dello sviluppo umano, che è quello che noi vogliamo.
Da queste filosofie discendono pratiche politiche molto diverse.
Le scelte del governo di centro-destra sono le seguenti:
a) abbandono della questione povertà;
b) attenuazione dei diritti per far crescere la competitività;
c) abbassamento dei salari e frammentazione contrattuale (ulteriormente
disegualitarie) come presupposto di un incremento dell'occupazione;
d) accantonamento di fatto della riforma degli ammortizzatori sociali;
e) redistribuzione fiscale a vantaggio dei più ricchi (con la delega fiscale
l'80% dei benefici andrà al 20% più ricco della popolazione italiana e di
quell'80% il 50% andrà al 2% più ricco).
Le scelte del centrosinistra sono del tutto alternative:
a) la spesa sociale non può essere ulteriormente ridotta ed anzi (per
rispondere a nuove esigenze) va aumentata.
E' inaccettabile lo scambio:
- meno povertà più diseguaglianza (cioè meno welfare);
- meno pensioni più welfare.
Chi sostiene la necessità di ulteriori riduzioni della spesa pensionistica
non sa o ha dimenticato:
- quanto sia stata contenuta dagli interventi riformatori degli anni '90 la
dinamica attesa della spesa (avrebbe raggiunto il 23%);
- quanto a regime verranno ridotte le prestazioni (scenderanno al 50% dell'
ultimo reddito per i lavoratori dipendenti, al 30% per i lavoratori
autonomi).
b) Le funzioni redistributive hanno un importante ruolo e si intrecciano con
le funzioni allocative. Soprattutto se il welfare ha per obiettivi (come
alle sue origini):
- l'assorbimento del rischio;
- l'elevamento del capitale umano e della formazione.
c) È strategica l'importanza del lavoro e dell'occupazione per lo sviluppo,
la povertà, le diseguaglianze. Sarà decisivo soprattutto il lavoro delle
donne, per il quale occorrono cambiamenti radicali anche dell'organizzazione
sociale e della cultura.
d) Urge un'estensione "mirata" della protezione ai soggetti maggiormente
privi di coperture, in particolare giovani, donne, adulti over 45. Questa
estensione non ha bisogno di benefici indifferenziati e selettivi (come sono
quelli fiscali), richiede:
- mantenimento e generalizzazione del RMI (come strumento di contrasto della
povertà e dunque selettivo, basato sul "test dei mezzi");
- strumenti di sostegno al reddito (e della contribuzione pensionistica) e
ammortizzatori sociali per i lavoratori "atipici";
- politiche di invecchiamento attivo;
- sostegno ai lavoratori a basso reddito e a bassa qualifica.