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morire di ricovero
- Subject: morire di ricovero
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 3 Sep 2004 06:55:13 +0200
da lavoceinfo.it 06-05-2004 Morire di ricovero Giuseppe A. Micheli La Regione Lombardia ha di recente reso pubblico il tasso grezzo di mortalità della popolazione sopra i sessantacinque anni nelle residenze sanitarie assistite (Rsa) lombarde: è pari al 25,64 per cento dei residenti. Tassi simili risultano in ricerche svolte in alcune Asl venete. Ma dietro a questo valore ufficiale si annida un'anomalia che conosciamo bene, ma che tardiamo a riconoscere come problema socialmente rilevante. La mortalità nelle strutture Proviamo ad applicare le tavole italiane di sopravvivenza alla popolazione anziana istituzionalizzata nelle Rsa lombarde, con una struttura per età assimilata a quella della domanda potenziale stimata (peraltro in linea con i dati aggregati 2001 forniti in Regione Lombardia). Per prudenza non prendiamo nemmeno le più recenti, soggette a un ulteriore abbattimento delle barriere di mortalità in età avanzata, ma quelle del 1992. Il numero complessivo dei decessi così stimato corrisponderebbe a un tasso grezzo di mortalità del 13,8 per cento: la metà di quello realmente osservato. Tenuto conto che il dato lombardo trova riscontro in altre realtà del Nord-Est, la sovramortalità delle strutture di ricovero sembra una costante, su cui fino a oggi nulla si è trovato da eccepire. A grandi linee si può ritenere ragionevole che la funzione di sopravvivenza per popolazioni istituzionalizzate sia peggiore rispetto a quella dell' intera popolazione lombarda. Ciò per due motivi. a) Un effetto selezione: la popolazione ricoverata è tale proprio perché ha mostrato livelli di perdita di autonomia funzionale superiori allo standard per età. b) Un effetto, non sappiamo quanto grande, prodotto dal processo di istituzionalizzazione. Per pareggiare i quozienti grezzi di mortalità occorre alzare approssimativamente dell'85 per cento i quozienti di mortalità specifici per età e di conseguenza le curve dei decessi (tratto continuo nella figura). Così facendo, il numero complessivo dei decessi stimato è assimilabile a quello osservato. Effetto selezione ed effetto istituzionalizzazione, insieme producono un incremento "fisiologico" dell'85 per cento nella mortalità sopra i sessantacinque anni. Il perché di un equilibrio L'equilibrio, sia pur precario, che abbiamo rilevato tra domanda potenziale e offerta di ricovero in una regione-laboratorio come la Lombardia, è consentito dall'agire di alcune condizioni "fisiologiche" destinate a svanire presto: la temporanea compressione della curva degli anziani, dovuta alla prima guerra mondiale e alla pandemia influenzale del 1918, che ha fin qui contenuto la domanda di assistenza, e una crescita finora relativamente lenta della popolazione anziana, destinata a esaurirsi già nel corso di questo decennio. Ma soprattutto agisce una condizione, questa sì modificabile e da modificare in quanto eticamente inaccettabile: il mantenimento di un equilibrio tra domanda e offerta di residenze assistite è permesso dalla sovramortalità istituzionale. Non esistono, a mia conoscenza, studi empirici che scompongano il surplus di mortalità delle istituzioni tra effetto selezione ed effetto istituzione, tanto scarsa è stata sempre l'attenzione a problemi di "care" in un intorno della morte ormai data per inevitabile. Supponiamo allora che di quella sovramortalità una buona metà si possa fare risalire all'accentuazione del decadimento fisico e psichico in conseguenza del ricovero: basterebbe tenere sotto controllo questa metà e le "uscite" dal circuito delle residenze crollerebbero a valori già oggi inferiori al livello attuale della domanda, valori quindi inadeguati a fronteggiare la domanda demograficamente montante. Al centro delle politiche per gli anziani non può stare solo l'attivazione di un sufficiente ammontare di unità funzionali attrezzate di assistenza, ma anche un (radicale) ripensamento dei luoghi dell'ultima e definitiva autoesclusione. Per saperne di più Regione Lombardia (2001), Le residenze sanitario assistenziali in Lombardia, Unità organizzativa accreditamento e qualità, Direzione famiglia e solidarietà sociale. Anziani, un problema delle figlie Giuseppe A. Micheli Viviamo la questione anziana in dolorosa dissonanza tra il desiderio incomprimibile di livelli elementari di cura e la percezione che tali bisogni siano resi inaccessibili dall'inerzia demografica. Cerchiamo allora di ridurre la dissonanza affidandoci a confortanti evidenze empiriche (l'ottantenne oggi è arzillo come il settantenne d'antan) e ragionevoli argomentazioni (è alla famiglia che spetta e va delegata la funzione di cura). Ma qualcosa non quadra. L'età della disabilità È evidenza empirica accettata che l'età in cui la disabilità diventa invalidità cronica si sta spostando in avanti. Alcune indagini svolte alla fine degli anni Novanta hanno permesso di stimare che la quota di popolazione nel Nord-Ovest di Italia con autonomia funzionale compromessa è inferiore al 2 per cento a ottanta anni e non arriva al 10 per cento a novanta anni. Ma attenzione: dopo gli ottanta anni la curva di disabilità continua a crescere esponenzialmente, e per l'accresciuta longevità si affollano di più proprio le età estreme con più alti tassi di disabilità. Così gli ultra-ottantenni del 2030 avranno, sì, la stessa buona salute degli attuali ultra-settantacinquenni, ma saranno di più. Se anche lo spostamento dell'età di buona salute di massa fosse più veloce dello spostamento della longevità, la dimensione delle coorti dei nuovi grandi anziani renderebbe di per sé più problematica la gestione collettiva del fenomeno. La disabilità invalidante non colpisce uniformemente gli anziani. Tra quelli a reddito medio-basso la percentuale di non autonomia è cinque-sei volte superiore tra ottanta e ottantacinque anni (quattro volte dopo i novanta). La questione anziana mantiene il suo statuto di questione sociale e impone di tornare a investire in un sistema di supporto domiciliare pubblico. L' elettorato è oggi più sensibile al tema, e si può forse trovare un consenso ampio su un contributo obbligatorio per finanziare la costituzione di un fondo unico per la non autosufficienza. Legami forti e deboli È nel nucleo familiare che l'accudimento trova la sua collocazione naturale. Ma la disabilità invalidante innesca una deriva verso l'assistenza strutturata proprio là dove manca un nucleo familiare che fornisca il lavoro di cura. Né è caricando interamente il compito sui familiari (anche con adeguati trasferimenti monetari) che si consente loro di far fronte alla situazione. A parità di età e perdita di autonomia, solo il 20 per cento di chi è accudito da un convivente manifesta segni di perdita di reattività, anticamera della dipendenza totale. Tale quota sale al 47 per cento tra chi è solo, al 75 per cento tra chi è solo e non ha altri legami forti. Senza un gioco concertato di reciproco supporto tra famiglia, legami forti (parenti, amici) e legami "deboli" ma altrettanto strategici (vicinato, volontariato, servizio civile o pubblico di supporto) che radichino l'anziano nel suo spazio di vita, il rischio di naufragio è alto. È tra gli uomini che quella perdita di reattività, che cresce ragionevolmente con l'età, si riscontra in misura non trascurabile (3-4 per cento) anche sotto i settanta anni, al momento dell'uscita dalla vita attiva (donde una marcata sovrapresenza di "giovani anziani" maschi nelle convivenze per anziani). Ma sono generalmente le figlie cinquantenni a essere gravate della cura degli anziani strappati al circuito di ricovero. La domanda di care triplicherà nei prossimi quattro decenni, ma il declino delle nascite ridurrà le potenziali caregivers già dal 2020, così che il carico gravante su ogni donna si quadruplicherà, trasformando in un cappio il rapporto madre-figlia, cuore del modello mediterraneo di famiglia. Né recinti pubblici, né privati o comunitari potranno chiudere questa falla, senza ridefinire la divisione di genere dei ruoli. E cambiamenti di tal fatta non si realizzano al semplice tocco di una bacchetta, ma per lenta sedimentazione di piccoli slittamenti nelle pratiche sociali. Occorre rimboccarsi le maniche: la sostenibilità economica futura delle politiche sociali passa per un rilancio delle politiche di equità. Per saperne di più Fries J. (1980), Aging, Natural Death and the Compression of Morbidity, New England Journal of Medicine, 303, 130-135. Guaita A. (2000), "La salute", in Irer, Anziani: stato di salute e reti sociali, Guerini, Milano. Micheli G.A. (a cura di) (2004), I continuanti. Interventi a mosaico in una società che invecchia, Franco Angeli, Milano.
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