genova tornare al porto



dal secolo xix
Domenica 27 Giugno 2004
dal secolo xix
Domenica 27 Giugno 2004


 L'ANALISI TORNARE AL PORTO

I l progetto di Renzo Piano, che esprime una importante visione per il
futuro della città di Genova, un sogno, ma un sogno molto concreto e
preciso, non interessa solo i genovesi. Come è di tutti i progetti complessi
esso richiederà molte analisi, valutazioni non semplici, approfondimenti,
progetti particolari, contributi di molti specialisti, aggiustamenti,
adattamenti. Ma esso può sin d'ora essere discusso e valutato nella sua
essenza, nel suo significato, nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi di
fondo.
Negli anni '70 l'aspetto che mi colpì fu che nella classe dirigente genovese
il porto era totalmente assente. Sembrava rimosso... La svolta comincia nel
periodo 1984-86, quando Genova decide di ripensarsi intorno al suo porto, di
liberare il suo porto dall'"assetto di morte".
Esiste oggi una Genova che possa prendere sul serio un progetto sfidante
come quello di Piano?
MARCO VITALE*

L'unico genovese eminente che
diceva pubblicamente che il futuro
di Genova era il porto era l'arcivescovo
Siri, quel Siri che proprio
il 25 agosto 1978 era stato in lizza
per l'elezione a Papa, come candidato
dei conservatori, in contrapposizione
al patriarca di Venezia,
Albino Luciani. Ricordo ancora
nitidamente una sua
lucidissima intervista sul Secolo
XIX dal grande titolo: "Il futuro di
Genova è nel porto". Ma la forza
sindacale, la "corruzione morale
ed intellettuale"
alimentata
dal denaro
pubblico, e la
viltà, bloccavano
il porto che
regrediva continuamente
di
fronte ai "nuovi"
porti, e, con
il porto, affondava
l'intera
città.
I rubinetti dell
'operaismo
assistito, con
la sua nequizia
e la sua retorica, si chiusero. Si
chiusero i rubinetti dell'Iri che smise
di staccare ogni anno un assegno
di 1.300 miliardi di lire solo
per l'Italsider. Si chiuse il rubinetto
del governo per il porto o meglio
i fondi che il governo era ancora
disposto a mettere a disposizione
del porto vennero condizionati ad
un effettivo risanamento (grande
merito storico del governo Craxi).
E poi venne il 31 maggio 1984
quando il presidente-manager del
Cap, il "furestu" (fiorentino formatosi
in Lombardia) Roberto D'Alessandro,
voluto da Craxi, presentò
all'assemblea generale un
piano di risanamento, riorganizzazione
e rilancio del porto di Genova
detto il Libro Blu, messo a
punto con l'aiuto di una società
di consulenza milanese.
L'importanza storica di questo
documento mi fu subito chiara,
perché rimetteva il porto al centro
del futuro della città; perché i contenuti
tecnici erano ineccepibili;
per lo spessore culturale e il coraggio
che lo animava; per il linguaggio
efficace e coinvolgente;
per il metodo sfidante. Tutte le
componenti della città (e con loro,
secondo la lungimirante legge
istitutiva n. 50 del 1903, le Province,
i Comuni e le Camere di commercio
di Milano e Torino; era
dunque ben chiaro al legislatore
del 1903 che la questione del porto
di Genova non era solo una
questione dei genovesi!) erano
chiamate ad una precisa ed esplicita
presa di posizione ed assunzione
di responsabilità.
Fu una svolta culturale storica
per la città. Io ne capii subito il
significato e salutai l'evento con
un articolo sul Sole 24 Ore del
22 giugno 1984, dal titolo: "Un assetto
di vita per non affondare";
formai un gruppo di studio in Bocconi
che, per oltre due anni, seguì
l'evoluzione della vicenda facendone
un caso di studio ed insegnamento
per il corso che allora
tenevo in quell'Università, nell'ambito
del quale vennero a testimoniare
sia D'Alessandro che un
vice-console della Compagnia
unica; la stampa nazionale iniziò
a seguire la vicenda con grande
attenzione, affiancandosi alla
stampa locale e giocando, insieme,
un ruolo determinante (memorabili
gli articoli di Giorgio Bocca
su Repubblica) .
Ma soprattutto iniziò nella città
un duro ma aperto, civile e pubblico
confronto,
che il Libro Blu
ebbe la forza
di tenere ancorato
ai fatti e di
rendere trasparente,
che
si chiuse il 27
gennaio 1987,
quando la
Compagnia
unica dei lavoratori
portuali
accettò definitivamente,
sia
pure con riserva,
il nuovo
corso per evitare il commissariamento
del porto. Fu un grande
travaglio, un difficile parto, una
svolta culturale, politica e civile di
grande difficoltà e significato. È
emozionante rileggere ora la documentazione
del periodo 1984-
86 che è raccolta in un volume. Tutto ricomincia da lì,
da quando Genova
decide di ripensarsi
intorno al suo porto,
di liberare il suo porto
dall'"assetto di morte" e scegliere
un "assetto di vita". È da
lì che ricomincia una graduale
ma sicura crescita del porto, sia
nella componente merci che persone,
e di tutte le attività indotte
(una ricerca Ilres, finanziata dalla
Camera di Commercio, dimostrò
che erano 41.000 le famiglie il
cui reddito era legato all'attività
del porto), e quindi della città. Lo
sviluppo dell'Acquario con la riscoperta,
anche in concomitanza
delle Colombiadi 1992, di una
vocazione turistica della città; la
bellissima ed efficacissima riqualificazione
del Porto antico; l'importante
ricupero del centro storico;
la ricostruzione e riapertura
del Carlo Felice; l'inserimento del
tratto Genova-Milano nei programmi
per l'alta velocità dovuto
all'ostinazione ed all'impegno
profuso dalla Regione Liguria
contro l'ostilità dei vertici delle
Ferrovie della quale porto personale
testimonianza; l'apparire di
nuovi simboli come il Bigo di Piano;
il G8 del 2001 che, a prescindere
dal modo folle con cui è stato
gestito sotto il profilo della sicurezza,
rimette Genova al
centro dell'attenzione del mondo;
il 2004 con Genova Capitale
europea della cultura e che lascerà
come arricchimento permanente
varie cose, ma soprattutto
l'importante Museo del
Mare di prossima apertura. Tutto
questo e molte altre cose segnano
un chiaro tragitto di rinascita
della città della Lanterna, che
prende le mosse dalla svolta culturale
del 1984-1986.
(1 / continua)
È dalla svolta culturale
del 1984-86 che parte
il tragitto di apertura
e arricchimento: passa
per Colombiane,
G8 e 2004



LA RINASCITA

Breve storia di una città che aveva voltato le
spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 1
Piano e l'utopia possibile
rimettere Genova sul mare
Il progetto di Renzo
Piano esprime una
importante visione: è
un sogno concreto,
che non interessa solo
i genovesi
Invano dicevo agli
amici genovesi che il
futuro è nel porto. Mi
guardavano con
benevolenza come si
guarda un matto

Il progetto di Renzo Piano per Genova, sul quale il
Secolo XIX ha aperto da tempo un dibattito, suscita interesse
anche al di fuori della Liguria per i riflessi che
avrebbe sull'economia di tutto il Nord Italia. Marco
Vitale è un economista lombardo: si autodefinisce "furestu",
straniero, ma in realtà ha lavorato a Genova
dal '78 all'86, gli anni della crisi. Forte di quella esperienza
ha dedicato al progetto una approfondita analisi,
che pubblichiamo in due puntate. Nell'articolo di
oggi ripercorre le scelte infelici del passato, che hanno
ridimensionato il ruolo del porto, come fosse un corpo
estraneo alla città. Ma sottolinea anche le intuizioni
che hanno anticipato la rivoluzione di Piano. Nella seconda
parte entrerà più in dettaglio nel progetto.

Il progetto di Renzo Piano,
che esprime una importante
visione per il futuro
della città di Genova, un
sogno, ma un sogno molto
concreto e preciso, non interessa
solo i genovesi. Come è di tutti i
progetti complessi esso richiederà
molte analisi, valutazioni non
semplici, approfondimenti, progetti
particolari, contributi di molti
specialisti, aggiustamenti,
adattamenti.
Ma esso può
sin d'ora essere
discusso e
valutato nella
sua essenza,
nel suo significato,
nei suoi
contenuti e nei
suoi obiettivi di
fondo.
Io credo che
possa essere
utile in questa
valutazione
proiettarlo in una prospettiva storica
arricchita da qualche ricordo
recente, per cercare di capire a
quale città Renzo Piano intende
rivolgersi o spera di rivolgersi.
Esiste una Genova che possa
prendere sul serio un progetto
così sfidante? Questa è la prima
domanda da porsi.
Facciamoci guidare nel tentare
una risposta, innanzi tutto, da un
grande storico, che non solo ha
capito ma ha amato Genova: Fernand
Braudel. Con poche parole
il grande storico sintetizza tutto
quello che conta: «Genova, con
le due riviere di Ponente e di Levante,
costituisce uno spazio
estremamente ridotto. Secondo
una relazione francese (del
1692), i genovesi dispongono di
circa trenta leghe lungo la costa,
partendo da Monaco e arrivando
fino al territorio di Massa, e di sette
o otto leghe di pianura dalla
parte del Milanese. Il resto è un
sipario di montagne sterili». Braudel
sottolinea che la città è in situazione
difficile sia dalla parte
della montagna che dalla parte
del mare: «La posizione geografica,
apparentemente protettiva,
rende indifesa la città: l'assalitore
proveniente dal Nord sbocca, infatti,
al di sopra di essa... Genova
è altrettanto vulnerabile dalla parte
del mare. Il suo porto si affaccia
sul mare aperto, che non appartiene
a nessuno e dunque è
di tutti... Al servizio di Genova non
c'è un "mare nostrum" come l'Adriatico
per Venezia, né c'è una
laguna per proteggerne l'accesso...
La debolezza di Genova è,
lo ripetiamo, congenita; la città e
i suoi sobborghi non possono vivere
senza fare ricorso al mondo
esterno.. E questo non è che uno
dei paradossi di questa strana città,
tanto svantaggiata e tuttavia,
prima e dopo il "suo" secolo, tesa
a puntare ai vertici della vita internazionale
degli affari. Una città
che, a mio giudizio, è sempre stata
a misura del suo tempo, la città
capitalista per eccellenza».
Genova ha, per la maggior parte
del trascorso millennio, giocato
tanti ruoli diversi ma quasi sempre
ai vertici dell'economia mondo.
A partire dai lunghi secoli nei
quali le sue navi dominano nel
Mediterraneo ed aprono le prime
rotte del Nord (a partire dal 1295
Genova ha stabilito il primo collegamento
marittimo diretto e regolare
fra il Mediterraneo e il Mare
del Nord) e i suoi mercanti hanno
insediamenti ovunque, vera e
propria multinazionale cittadina
ante litteram; da quando i suoi
fratelli Vivaldi
si lanciano coraggiosamente
al di là di Gibilterra
(1291)
cercando la via
che Vasco de
Gama troverà
due secoli
dopo. E poi nel
secolo dei genovesi
("El siglo
de los Gen
o v e s e s " )
quando i suoi
mercanti banchieri
diventano
"gli arbitri dei pagamenti e delle
operazioni finanziarie europee".
E quando, dopo i secoli
oscuri della lunga depressione
italiana, il Paese inizia una nuova
rinascita, Genova è pronta all'appuntamento
e nel corso dell'800
ritorna ad essere uno dei motori
più attivi della Penisola. All'epoca
dell'invenzione della navigazione
marittima a vapore essa creerà
un'industria e una forte marina
moderna; nel corso del Risorgimento
sarà un soggetto chiave
tanto da far dire a uno storico italiano
(Carmelo Trasselli), forse un
po' esagerando: «Genova ha fatto
l'unità d'Italia e l'ha fatta a proprio
vantaggio» (anche la costituzione
della Banca d'Italia sarà in
buona parte opera sua); e quando
tra la fine dell'800 ed i primi
dieci anni del '900 decolla il processo
di industrializzazione del
Paese, Genova è tempestiva all'appuntamento
e diventa una
delle tre punte del triangolo magico
nel quale si costruisce l'industrializzazione
del Paese.
I risultati di Genova ed il suo
ruolo importante nella storia del
Paese, dell'Europa e dell'economia
mondo è fuori discussione. E
questo è stato possibile grazie ad
un continuo processo di riconversione,
di mutamenti, di adattamenti
opportunistici.

I risultati sono sempre
stati legati a un
continuo processo di
riconversione e di
adattamenti. Anche a
prezzo di acrobazie
I CAMBIAMENTI

«Questo risultato - dice Braudel
- è stato conseguito a prezzo di
acrobazie. D'altra parte a Genova
tutto è acrobazia... È l'eterno problema
di Genova che vive e deve
vivere in agguato, condannata a
rischiare e al tempo stesso a essere
particolarmente prudente.
Ne derivano successi favolosi o
fallimenti catastrofici... Genova
ha cambiato rotta più volte, sempre
accettando la necessaria metamorfosi...
Mostro di intelligenza,
e talvolta di durezza, Genova è
condannata ad impadronirsi del
mondo o a non esistere».
Genova, dunque "condannata"
a uscire dai suoi spazi fisici, psicologici,
culturali per essere parte
dell'economia mondo e della cultura
mondo; Genova condannata
a navigare in mare aperto; Genova
condannata a fare acrobazie.
Quando, stanca come capita ogni
tanto di esserlo a persone città
paesi, si ritrae in se stessa, cerca
di tagliare i legami col mondo,
vuole riposare, vuole godersi quel
mare e quella natura mirabile da
pensionata, vuole liberarsi da
quei "furesti" che l'assillano («Se
passu intu mei paise u vegu cin
dei furesti che nu cunusciu, tantu
che mi me paresciu u ciu furestu
de tuti») allora, alimentando l'illusione
di stare ferma, di serbare
quello che ha accumulato, si accorge
che regredisce spaventosamente,
che affonda, che diventa
qualche cosa in conflitto con
la sua storia, qualcosa che diventa
incomprensibile a tutti quelli
che sanno quanta intelligenza,
quanta cultura, quanta capacità è
depositata sotto i suoi tetti e che
rischia di perdere tutto.
Mi è capitato di vivere intensamente
Genova, per ragion professionali,
in uno dei suoi periodi
più grigi e depressi, dal 1978 al
1986. E poi di continuare a seguirne
l'evoluzione, più da lontano
ma sempre con attenzione,
dal 1986 ad oggi.
La situazione della città negli
anni '70 verrà sintetizzata da un
esperto giornalista, intervistato da
un gruppo di ricerca della Bocconi
nel 1986, con queste condivise
parole: «Genova è una città che
da 10 anni va allo sfascio; da un
punto di vista urbanistico, da un
punto di vista culturale, da un
punto di vista economico. Da un
punto di vista imprenditoriale la
logica che ha governato l'attività
portuale è risultata mortale».
Io ero allora impegnato nel risanamento
di un grande gruppo genovese
con attività diversificate
ma con l'attività principale nel settore
armatoriale, persone e merci.
Quello che mi colpì nei primi
anni di quel periodo (1978-1986)
furono due aspetti principali. Il primo
aspetto fu la totale mancanza
di solidarietà e di aiuto da parte
di Genova in un processo di risanamento
di un gruppo che, per
la sua rilevanza, non poteva non
interessare tutta la città. Noi, lombardi,
eravamo consapevoli che,
pur trattandosi di un'operazione
privata, stavamo facendo qualcosa
di rilevanza pubblica e trovammo
aiuto e comprensione in altre
persone e enti lombardi o di altre
regioni.
L'unico genovese, anzi ligure,
che, consapevole dell'importanza
generale della vicenda, ci diede
un grande aiuto, sia finanziariamente
che soprattutto di idee,
esperienza, tenacia, coraggio,
contatti, fu Angelo Ravano. Frequentando
allora quel geniale e
generoso imprenditore ligure imparai
da lui tutto quel poco che
so di portualità. Fu lui a spiegarmi
che i notabili genovesi non avevano
mai capito nulla della rivoluzione
dei container tanto da essere
stato costretto ad emigrare
nei mari del Nord; che i sindacati
portuali genovesi avevano deciso
di soffocare il porto di Genova e
che sino a che avessero comandato
loro, anche grazie alla viltà
degli imprenditori genovesi, non
c'era niente da fare; che lui aveva
fatto l'investimento in un terminal
container a La Spezia perché lì
si poteva organizzare il lavoro in
modo moderno ed efficiente; che
il porto emporio era finito e stava
per essere sostituito dal porto
transito inserito in una catena logistica
di un servizio door to door
nella quale il porto non è più il
centro ma è solo uno degli anelli
di un complesso ingranaggio; che
i terminal container e gli attracchi
specializzati devono essere
sganciati dai centri storici, e contare
su vie d'accesso privilegiate.
Fu lui a insegnarmi, con l'esempio,
che al pessimismo e talora
al sarcasmo della ragione bisogna
sempre contrapporre se non
l'ottimismo della volontà il semplice
dovere del fare. L'altro aspetto che
mi colpì fu che
nella classe dirigente
genovese il
porto era totalmente
assente. Sembrava rimosso.
Di tutto si parlava meno
che del porto (fu nel corso di quel
periodo che, mi sembra, Prodi,
presidente dell'Iri, lanciò lo slogan
della "Silicon Valley" genovese,
per mascherare il disastro
delle partecipazioni statali). Invano
mi scaldavo con gli amici genovesi
dicendo: il futuro di Genova
è nel porto, è nel mare. Mi
guardavano con benevolenza
come si guarda un matto.

Sono opere giuste o sbagliate?
Sono opere la cui durata si misura
in anni, decenni o secoli? Sono opere
che toccano e toccheranno migliaia,
centinaia di migliaia o milioni di
persone? Sono opere che aumentano
o diminuiscono la produttività del
sistema? Sono queste le domande
centrali da porsi, invece di incominciare
a dire che non ci sono i soldi.
I soldi non ci sono mai nel cassetto
di qualunque comunità bene amministrata.
Infatti non si devono trovare
i soldi ma la copertura finanziaria
nell'arco di tempo appropriato.
Ma quando le risposte alle domande
di cui sopra sono positive, allora la
copertura finanziaria la si trova sempre,
prevalentemente nel progetto
stesso e nei suoi effetti, con un mix
appropriato di fondi pubblici, di copertura
di mercato, di partecipazione
all'investimento di fornitori, ponendo
in relazione i futuri ricavi con i rimborsi
e con l'ausilio di tutti gli strumenti
finanziari rapportati al mercato finanziario
internazionale che è immenso;
comprando insomma, il tempo, il che
è l'essenza della finanza. Nel 1815
la Francia aveva i conti pubblici in
ordine mentre l'Inghilterra aveva un
debito pubblico superiore al Pil. Ma
l'Inghilterra aveva battuto Napoleone
e si accingeva dar vita al suo grande
secolo.
Naturalmente anche sotto questo
profilo il progetto Piano va valutato
con molta cura. Ma il lungo arco di
tempo previsto
per la sua realizzazione,
il fatto
che alcune componenti
importanti
sono sicuramente
autofinanziabili
con i
proventi futuri,
che alcune altre
parti sono finanziabili
direttamente
da privati
interessati, che
il suo costo globale
(sembra
elevato se considerato in se stesso)
tale non è se lo paragoniamo ad altre
grandi opere, o ad alcuni grandi
sperperi che si stanno commettendo
oggi in Italia nell'ambito di investimenti
come l'Alta Velocità ed in alcune
spese correnti, o ai grandi buchi
serenamente assorbiti dal sistema
bancario nazionale e internazionale.
Tutto ciò permette di concludere che
la quadratura economica e finanziaria
del progetto appare ragionevolmente
possibile.
Piuttosto la domanda più inquietante
e difficile l'ha posta Vincenzo Tagliasco
dell'Università di Genova su "Il
Secolo XIX" del 27 maggio: "Piano
ha prospettato una Genova meravigliosa,
protesa sul mare. Tuttavia
sorge spontanea la domanda: per
quali abitanti, per quali categorie di
persone o cittadini viene progettata
Genova nuova?".
E' una domanda che si ricollega a
quella che facevo io all'inizio: a quale
città si rivolge Piano? Esiste una Genova
che possa prendere sul serio
un progetto così sfidante? Se si
guardano le statistiche demografiche
si è portati a dare una risposta
negativa: i residenti in tutta la Liguria
erano 1.676.281 nel censimento '91
e sono scesi a 1.570.004 nel 2001;
a fine 2002 il comune di Genova
aveva solo 604.732 residenti e la
provincia solo 873.604. In Liguria gli oltre sessantacinquenni
sono il 25% della
popolazione residente contro
il 18,2% della pur vecchia
Italia e l'età media è
di 46,6 anni contro il 41,6
dell'Italia. E mentre il Paese con
un tasso di fecondità dell'1,24% si
colloca all'ultimo posto in Europa
(media 1,47), la Liguria (1,05) si
colloca sotto la pessima media italiana.
E' chiaro che non è a questa Genova
che si rivolge il progetto Piano,
ma a una città che brucia sotto
la cenere, affiorante peraltro con
sempre più chiara evidenza, che
vuole un forte rilancio, che sente
di poterlo esprimere anche alla
luce della capacità di "urban regeneration"
realizzata
con successo
da Genova
negli
ultimi dieciquindici
anni,
anche grazie
ad una buona
capacità di lavoro
comune
delle varie istituzioni.
E poi il
progetto non si
rivolge solo a
Genova ma, almeno,
a tutto il
Nord Italia.
Proporre un progetto così alla
Genova degli anni '70 sarebbe stato
demenziale. Ma non alla Genova
di oggi, dopo il buon lavoro fatto
negli ultimi quindici anni. Ecco perché
è essenziale calare questo
progetto in tutto quello che di buono
è stato fatto negli ultimi anni,
nelle tante "acrobazie" della storia
genovese e nelle grandi possibilità
del futuro.
Il progetto si rivolge ad una Genova
che non c'è ancora in modo
compiuto, ma per il quale esistono
solide tracce e fondamenta. Una
città che, ricuperato un rapporto ed
una proiezione positiva con il suo
mare ed il suo porto, sta scoprendo
di trovarsi all'incrocio di forti tendenze
vincenti per il prossimo futuro:
traffici marittimi, turismo, cultura,
scienza e informazione, industrie
qualificate E' a questa città in formazione,
chiamata ad una nuova
"acrobazia", che si rivolge il
progetto-sfida di Piano.
Certo molte altre cose andranno
fatte, certo tanti nuovi collegamenti
andranno allacciati, certo la collaborazione
con Milano e Torino andrà
rafforzata in un rinnovato triangolo.
Allora i giovani resteranno e
si sposeranno a Genova ed altri
giovani di qualità verranno dal
mondo ed anche gli indici demografici
pian piano si invertiranno.
Nei grandi progetti non bisogna
mai pretendere che tutto sia a posto
prima di partire. Basta essere
ragionevolmente certi che la rotta
è giusta e crederci, come Cristoforo
Colombo. Come ha scritto
Saint-Exùpery ("Vol de nuit") in un
passo che ho sempre amato anche
perché tante volte ne ho verificato
la profonda verità: "Dans la
vie, il n'y a pas des solutions. Il faut
les créer et les solutions suivent".

Breve storia di una città che aveva voltato le
spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 2

Piano chiede a Genova
un'altra "acrobazia" storica
Il progetto di Renzo
Piano è geniale ma
non astratto. E'
semplice, limpido,
realistico, coerente
con la storia e gli
sviluppi più recenti
La sfida non si rivolge
alla metropoli attuale,
ma a quella non
ancora compiuta che
sta scoprendo d'essere
crocevia di forti
tendenze vincenti
Nella prima metà del
'92 il comitato
scientifico della associazione
dei laureati
Sda-Bocconi,
propose come
tema di studio per l'anno la rifondazione
della vita urbana in alcune città
italiane. Su mia proposta, quale presidente
del comitato, tra le città oggetto
di studio fu inserita Genova
(accanto a Milano, Palermo, Bari).
Ne uscì una serie di incontri e di analisi
di grande interesse, poi raccolti
nel volume "Quale progetto per la città",
a cura di Luigi V. Majocchi e Marco
Vitale (edito da Il Sole 24 Ore Libri
1983). Con l'aiuto di un imprenditore
genovese e dell'onorevole Giacomo
Gualco, già presidente della Giunta
della Regione
Liguria, ricostruimmo
i tratti caratteristici
del
grande sforzo in
atto per traghettare
Genova da
una fase di
recessione-stagnazione
ad un
nuova fase di
recupero e di
nuovo sviluppo.
Vale la pena di
ricordarne i punti
chiave, attualizzandoli.
Tra i punti di crisi emersero soprattutto
questi aspetti.
Ciclo demografico: problema ancora
oggi aperto.
Chiusure e calo dell'industria pesante
tradizionale (siderurgia, cantieristica,
meccanica pesante): il
trend è in continua progressione, ma
con attenuazione della Iridipendenza
che era allora dominante
con l'effetto di indirizzare "le principali
energie in termini di rivendicazione
nei confronti dell'Iri, piuttosto che
di ricerca di nuove alternative". (Il
tasso di disoccupazione era allora
del 10-12%, un'anomalia tra le città
del Nord).
Lentezza con cui si realizzava il ricupero
delle attività portuali, con sopravvivenza
di posizioni di rendita
nonostante la svolta del 1984-86 e
le provvide iniziative di un parlamentare
lombardo, l'onorevole Pedini, a
favore della portualità quando resse
bene il rispettivo dicastero: la situazione
è da allora molto migliorata,
anche alla luce del ricupero generale
della portualità italiana, ma per realizzare
un nuovo salto è necessario
ora investire in strutture fortemente
innovative.
Il degrado del centro storico: qui il
miglioramento realizzato dal 1992 ad
oggi è stato molto importante.
Il problema del traffico e delle strutture
infrastrutturali urbane ed extraurbane
per liberare la città: qui è tutto
o quasi ancora da fare.
Il mancato avvio di un progetto di
reindustrializzazione con nuove attività
industriali leggere: questo tema
molto importante fu formulato dall'onorevole
Gualco, in questi termini:
"Tra le strategie che Genova sta
mettendo in atto per rilanciare la propria
economia ha sicuramente un
posto importante la reindustrializzazione.
La chiave di questo
progetto è il recupero e il risanamento
delle aree del Ponente genovese.
L'obiettivo è quello di utilizzare
una parte delle aree lasciate libere
dalle aziende "mature" per introdurre
nuove forme di industrializzazione
avanzata e pulita, una industrializzazione
compatibile e integrabile con
attività terziarie direzionali o ad alto
contenuto tecnico e scientifico".
E' in questa prospettiva che ho valutato
il progetto Waterfront presentato
da Renzo Piano. Ho letto che
esso è stato definito da qualcuno "un
progetto geniale". E geniale lo è. Ma
questa qualificazione mi sembra pericolosa.
Perché può evocare qualcosa
di geniale ma di astratto, di
staccato dalla realtà, uno di quei colpi
di genio che i grandi architetti
amano esprimere, affascinati dalla
bellezza delle loro idee e delle loro
fantasie.
A me invece, il progetto Piano è
parso entusiasmante proprio perché
è semplice, limpido, realistico, coerente
sia con la storia che con gli
sviluppi recenti di Genova, che ho
cercato di riassumere. Non è un colpo
di genio; è frutto di una lettura
onesta, colta ed intelligente del territorio
e della città e della sua storia
e di una introspezione della sua forza
interna che potrebbe esplodere.
Le idee chiave del progetto che mi
sembrano più interessanti sono:
puntiamo sul
porto, puntiamo
sul mare.
Se questo è
sempre stato
vero per Genova,
è ancora più
vero oggi che,
grazie soprattutto
a Gioia Tauro
(tanto stoltamente
combattuta
dai genovesi;
ancora una
volta sia lode ad
Angelo Ravano)
il trasporto marittimo nel Mediterraneo
è stato oggetto di un grande rilancio,
che è solo all'inizio. Oggi l'Italia
è al secondo posto in Europa per
quantità di merce trasportata per via
marittima dopo il Regno Unito e prima
dei Paesi Bassi, ed al primo posto
per trasporto passeggeri via
mare. Ma bisogna investire in modo
importante nel porto con strutture
moderne e funzionali.
Se è vero che Genova è sempre
stata soffocata dalla limitatezza del
territorio, e che questo è sempre stato
uno dei suoi maggiori problemi,
allora liberiamo parte del territorio,
portando sul mare quello che si può
portare sul mare.

L'INVERSIONE


In passato i genovesi hanno cercato
di sfuggire alla limitatezza del territorio
cercando di creare insediamenti
oltre l'Appennino. Non sono mai stati
un successo. Oggi i progressi della
tecnologia e delle tecniche costruttive
rendono possibile soluzioni che,
in passato, erano impensabili. Perciò
l'idea di portare sul mare l'aeroporto
ed altre attività è più di un colpo di
genio. E' una cosa giusta ed oggi
possibile. E dunque auspicabile. Genova ed il suo porto
sono soffocati dal
problema del traffico
e dei trasporti urbani
ed extra urbani,
e se il porto deve
ulteriormente svilupparsi questo
grande collo di bottiglia va affrontato
e rimosso.
Ma questo fondamentale passaggio
non è possibile senza un
ridisegno forte dell'intero frontemare
che risistemi le sedimentazioni
storiche, secondo un piano
razionale, funzionale ed attuale.
Del resto, se non vado errato, questo
era uno dei compiti dell'Agenzia
del Piano costituita nel '96 per
sviluppare un approccio metodologico
integrato dei temi urbani, portuali,
trasportistici. La liberazione di
aree ed il ridisegno funzionale del
fronte mare sono anche propedeutici
allo sviluppo di attività industriali
nuove e, comunque, legate al porto,
completando il disegno di sviluppo
basato su attività marittime
e portuali, turismo, servizi specializzati,
cultura scienza e formazione,
anche con una linea di reindustrializzazione.
Se questi sono i pilastri del progetto,
è difficile pensare a serie
obiezioni al suo disegno di fondo,
E, in effetti, finora non ho letto obiezioni
forti.
La più verosimile è che si tratta
di investimenti troppo rilevanti, ancorché
diluiti su 18 anni, per cui
ho sentito ed ancora sentiremo il
consueto: non ci sono i soldi! Ma
questo l'abbiamo sentito dire per la
sanità, per la scuola, per la benzina
della polizia stradale, per le fotocopie
del palazzo di giustizia.
Nel 1869 William Seward, segretario
di Stato di Lincoln, comprò l'Alaska
dalla Russia pagandola 7,5
milioni di dollari. Fu violentemente
e largamente contestato dai tanti
che trovavano il prezzo troppo caro
ed accusavano Seward di rovinare
le finanze pubbliche, tanto che si
diffuse il modo di dire: "un affare
alla Seward" per significare un
pessimo affare. Seward fu tanto
umiliato ed addolorato che, dopo
poco, morì di crepacuore.
Qualcosa di simile era successo
quando, nel 1803, il presidente Jefferson
comprò da Napoleone la
Luisiana: un milione di miglia quadrate,
una ricca distesa di pianure
che nei decenni successivi diventeranno
uno dei principali granai
del mondo, il controllo di tutto il sistema
fluviale della parte centrale
del continente e l'importantissimo
porto fluviale di New Orleans: il tutto
per 15 milioni di dollari. Ma Jefferson
non osò affrontare i benpensanti
del Congresso e chiudendo
l'operazione senza il consenso dello
stesso "tese la Costituzione fino
a spezzarla".
Questi episodi sono uno dei migliori
esempi (ma ce ne sono tanti
altri) dell'assunto che il normale
buonsenso economico e finanziario
è non solo errato ma deleterio
quando si tratta di valutare il significato
economico di grandi investimenti
pubblici. Siamo, in generale,
portati a valutare queste operazioni
con gli stessi parametri che applichiamo
ai piccoli affari privati,
proiettando su un arco di tempo irrealisticamente
corto (20-30 anni)
opere la cui durata ed i cui benefici
dureranno secoli, applicandone gli
effetti a poche persone mentre, in
effetti, interesseranno nel tempo
milioni e milioni di persone; facendo
calcoli di ritorni finanziari impossibili
ed improbabili mentre quello
che interessa sono i ritorni economici
di lungo periodo, il modo e la
misura con cui queste opere e
questi investimenti influenzeranno
la produttività e quindi la redditività
dell'intero sistema nel quale vengono
calati.



 L'ANALISI TORNARE AL PORTO

I l progetto di Renzo Piano, che esprime una importante visione per il
futuro della città di Genova, un sogno, ma un sogno molto concreto e
preciso, non interessa solo i genovesi. Come è di tutti i progetti complessi
esso richiederà molte analisi, valutazioni non semplici, approfondimenti,
progetti particolari, contributi di molti specialisti, aggiustamenti,
adattamenti. Ma esso può sin d'ora essere discusso e valutato nella sua
essenza, nel suo significato, nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi di
fondo.
Negli anni '70 l'aspetto che mi colpì fu che nella classe dirigente genovese
il porto era totalmente assente. Sembrava rimosso... La svolta comincia nel
periodo 1984-86, quando Genova decide di ripensarsi intorno al suo porto, di
liberare il suo porto dall'"assetto di morte".
Esiste oggi una Genova che possa prendere sul serio un progetto sfidante
come quello di Piano?
MARCO VITALE*

L'unico genovese eminente che
diceva pubblicamente che il futuro
di Genova era il porto era l'arcivescovo
Siri, quel Siri che proprio
il 25 agosto 1978 era stato in lizza
per l'elezione a Papa, come candidato
dei conservatori, in contrapposizione
al patriarca di Venezia,
Albino Luciani. Ricordo ancora
nitidamente una sua
lucidissima intervista sul Secolo
XIX dal grande titolo: "Il futuro di
Genova è nel porto". Ma la forza
sindacale, la "corruzione morale
ed intellettuale"
alimentata
dal denaro
pubblico, e la
viltà, bloccavano
il porto che
regrediva continuamente
di
fronte ai "nuovi"
porti, e, con
il porto, affondava
l'intera
città.
I rubinetti dell
'operaismo
assistito, con
la sua nequizia
e la sua retorica, si chiusero. Si
chiusero i rubinetti dell'Iri che smise
di staccare ogni anno un assegno
di 1.300 miliardi di lire solo
per l'Italsider. Si chiuse il rubinetto
del governo per il porto o meglio
i fondi che il governo era ancora
disposto a mettere a disposizione
del porto vennero condizionati ad
un effettivo risanamento (grande
merito storico del governo Craxi).
E poi venne il 31 maggio 1984
quando il presidente-manager del
Cap, il "furestu" (fiorentino formatosi
in Lombardia) Roberto D'Alessandro,
voluto da Craxi, presentò
all'assemblea generale un
piano di risanamento, riorganizzazione
e rilancio del porto di Genova
detto il Libro Blu, messo a
punto con l'aiuto di una società
di consulenza milanese.
L'importanza storica di questo
documento mi fu subito chiara,
perché rimetteva il porto al centro
del futuro della città; perché i contenuti
tecnici erano ineccepibili;
per lo spessore culturale e il coraggio
che lo animava; per il linguaggio
efficace e coinvolgente;
per il metodo sfidante. Tutte le
componenti della città (e con loro,
secondo la lungimirante legge
istitutiva n. 50 del 1903, le Province,
i Comuni e le Camere di commercio
di Milano e Torino; era
dunque ben chiaro al legislatore
del 1903 che la questione del porto
di Genova non era solo una
questione dei genovesi!) erano
chiamate ad una precisa ed esplicita
presa di posizione ed assunzione
di responsabilità.
Fu una svolta culturale storica
per la città. Io ne capii subito il
significato e salutai l'evento con
un articolo sul Sole 24 Ore del
22 giugno 1984, dal titolo: "Un assetto
di vita per non affondare";
formai un gruppo di studio in Bocconi
che, per oltre due anni, seguì
l'evoluzione della vicenda facendone
un caso di studio ed insegnamento
per il corso che allora
tenevo in quell'Università, nell'ambito
del quale vennero a testimoniare
sia D'Alessandro che un
vice-console della Compagnia
unica; la stampa nazionale iniziò
a seguire la vicenda con grande
attenzione, affiancandosi alla
stampa locale e giocando, insieme,
un ruolo determinante (memorabili
gli articoli di Giorgio Bocca
su Repubblica) .
Ma soprattutto iniziò nella città
un duro ma aperto, civile e pubblico
confronto,
che il Libro Blu
ebbe la forza
di tenere ancorato
ai fatti e di
rendere trasparente,
che
si chiuse il 27
gennaio 1987,
quando la
Compagnia
unica dei lavoratori
portuali
accettò definitivamente,
sia
pure con riserva,
il nuovo
corso per evitare il commissariamento
del porto. Fu un grande
travaglio, un difficile parto, una
svolta culturale, politica e civile di
grande difficoltà e significato. È
emozionante rileggere ora la documentazione
del periodo 1984-
86 che è raccolta in un volume. Tutto ricomincia da lì,
da quando Genova
decide di ripensarsi
intorno al suo porto,
di liberare il suo porto
dall'"assetto di morte" e scegliere
un "assetto di vita". È da
lì che ricomincia una graduale
ma sicura crescita del porto, sia
nella componente merci che persone,
e di tutte le attività indotte
(una ricerca Ilres, finanziata dalla
Camera di Commercio, dimostrò
che erano 41.000 le famiglie il
cui reddito era legato all'attività
del porto), e quindi della città. Lo
sviluppo dell'Acquario con la riscoperta,
anche in concomitanza
delle Colombiadi 1992, di una
vocazione turistica della città; la
bellissima ed efficacissima riqualificazione
del Porto antico; l'importante
ricupero del centro storico;
la ricostruzione e riapertura
del Carlo Felice; l'inserimento del
tratto Genova-Milano nei programmi
per l'alta velocità dovuto
all'ostinazione ed all'impegno
profuso dalla Regione Liguria
contro l'ostilità dei vertici delle
Ferrovie della quale porto personale
testimonianza; l'apparire di
nuovi simboli come il Bigo di Piano;
il G8 del 2001 che, a prescindere
dal modo folle con cui è stato
gestito sotto il profilo della sicurezza,
rimette Genova al
centro dell'attenzione del mondo;
il 2004 con Genova Capitale
europea della cultura e che lascerà
come arricchimento permanente
varie cose, ma soprattutto
l'importante Museo del
Mare di prossima apertura. Tutto
questo e molte altre cose segnano
un chiaro tragitto di rinascita
della città della Lanterna, che
prende le mosse dalla svolta culturale
del 1984-1986.
(1 / continua)
È dalla svolta culturale
del 1984-86 che parte
il tragitto di apertura
e arricchimento: passa
per Colombiane,
G8 e 2004



LA RINASCITA

Breve storia di una città che aveva voltato le
spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 1
Piano e l'utopia possibile
rimettere Genova sul mare
Il progetto di Renzo
Piano esprime una
importante visione: è
un sogno concreto,
che non interessa solo
i genovesi
Invano dicevo agli
amici genovesi che il
futuro è nel porto. Mi
guardavano con
benevolenza come si
guarda un matto

Il progetto di Renzo Piano per Genova, sul quale il
Secolo XIX ha aperto da tempo un dibattito, suscita interesse
anche al di fuori della Liguria per i riflessi che
avrebbe sull'economia di tutto il Nord Italia. Marco
Vitale è un economista lombardo: si autodefinisce "furestu",
straniero, ma in realtà ha lavorato a Genova
dal '78 all'86, gli anni della crisi. Forte di quella esperienza
ha dedicato al progetto una approfondita analisi,
che pubblichiamo in due puntate. Nell'articolo di
oggi ripercorre le scelte infelici del passato, che hanno
ridimensionato il ruolo del porto, come fosse un corpo
estraneo alla città. Ma sottolinea anche le intuizioni
che hanno anticipato la rivoluzione di Piano. Nella seconda
parte entrerà più in dettaglio nel progetto.

Il progetto di Renzo Piano,
che esprime una importante
visione per il futuro
della città di Genova, un
sogno, ma un sogno molto
concreto e preciso, non interessa
solo i genovesi. Come è di tutti i
progetti complessi esso richiederà
molte analisi, valutazioni non
semplici, approfondimenti, progetti
particolari, contributi di molti
specialisti, aggiustamenti,
adattamenti.
Ma esso può
sin d'ora essere
discusso e
valutato nella
sua essenza,
nel suo significato,
nei suoi
contenuti e nei
suoi obiettivi di
fondo.
Io credo che
possa essere
utile in questa
valutazione
proiettarlo in una prospettiva storica
arricchita da qualche ricordo
recente, per cercare di capire a
quale città Renzo Piano intende
rivolgersi o spera di rivolgersi.
Esiste una Genova che possa
prendere sul serio un progetto
così sfidante? Questa è la prima
domanda da porsi.
Facciamoci guidare nel tentare
una risposta, innanzi tutto, da un
grande storico, che non solo ha
capito ma ha amato Genova: Fernand
Braudel. Con poche parole
il grande storico sintetizza tutto
quello che conta: «Genova, con
le due riviere di Ponente e di Levante,
costituisce uno spazio
estremamente ridotto. Secondo
una relazione francese (del
1692), i genovesi dispongono di
circa trenta leghe lungo la costa,
partendo da Monaco e arrivando
fino al territorio di Massa, e di sette
o otto leghe di pianura dalla
parte del Milanese. Il resto è un
sipario di montagne sterili». Braudel
sottolinea che la città è in situazione
difficile sia dalla parte
della montagna che dalla parte
del mare: «La posizione geografica,
apparentemente protettiva,
rende indifesa la città: l'assalitore
proveniente dal Nord sbocca, infatti,
al di sopra di essa... Genova
è altrettanto vulnerabile dalla parte
del mare. Il suo porto si affaccia
sul mare aperto, che non appartiene
a nessuno e dunque è
di tutti... Al servizio di Genova non
c'è un "mare nostrum" come l'Adriatico
per Venezia, né c'è una
laguna per proteggerne l'accesso...
La debolezza di Genova è,
lo ripetiamo, congenita; la città e
i suoi sobborghi non possono vivere
senza fare ricorso al mondo
esterno.. E questo non è che uno
dei paradossi di questa strana città,
tanto svantaggiata e tuttavia,
prima e dopo il "suo" secolo, tesa
a puntare ai vertici della vita internazionale
degli affari. Una città
che, a mio giudizio, è sempre stata
a misura del suo tempo, la città
capitalista per eccellenza».
Genova ha, per la maggior parte
del trascorso millennio, giocato
tanti ruoli diversi ma quasi sempre
ai vertici dell'economia mondo.
A partire dai lunghi secoli nei
quali le sue navi dominano nel
Mediterraneo ed aprono le prime
rotte del Nord (a partire dal 1295
Genova ha stabilito il primo collegamento
marittimo diretto e regolare
fra il Mediterraneo e il Mare
del Nord) e i suoi mercanti hanno
insediamenti ovunque, vera e
propria multinazionale cittadina
ante litteram; da quando i suoi
fratelli Vivaldi
si lanciano coraggiosamente
al di là di Gibilterra
(1291)
cercando la via
che Vasco de
Gama troverà
due secoli
dopo. E poi nel
secolo dei genovesi
("El siglo
de los Gen
o v e s e s " )
quando i suoi
mercanti banchieri
diventano
"gli arbitri dei pagamenti e delle
operazioni finanziarie europee".
E quando, dopo i secoli
oscuri della lunga depressione
italiana, il Paese inizia una nuova
rinascita, Genova è pronta all'appuntamento
e nel corso dell'800
ritorna ad essere uno dei motori
più attivi della Penisola. All'epoca
dell'invenzione della navigazione
marittima a vapore essa creerà
un'industria e una forte marina
moderna; nel corso del Risorgimento
sarà un soggetto chiave
tanto da far dire a uno storico italiano
(Carmelo Trasselli), forse un
po' esagerando: «Genova ha fatto
l'unità d'Italia e l'ha fatta a proprio
vantaggio» (anche la costituzione
della Banca d'Italia sarà in
buona parte opera sua); e quando
tra la fine dell'800 ed i primi
dieci anni del '900 decolla il processo
di industrializzazione del
Paese, Genova è tempestiva all'appuntamento
e diventa una
delle tre punte del triangolo magico
nel quale si costruisce l'industrializzazione
del Paese.
I risultati di Genova ed il suo
ruolo importante nella storia del
Paese, dell'Europa e dell'economia
mondo è fuori discussione. E
questo è stato possibile grazie ad
un continuo processo di riconversione,
di mutamenti, di adattamenti
opportunistici.

I risultati sono sempre
stati legati a un
continuo processo di
riconversione e di
adattamenti. Anche a
prezzo di acrobazie
I CAMBIAMENTI

«Questo risultato - dice Braudel
- è stato conseguito a prezzo di
acrobazie. D'altra parte a Genova
tutto è acrobazia... È l'eterno problema
di Genova che vive e deve
vivere in agguato, condannata a
rischiare e al tempo stesso a essere
particolarmente prudente.
Ne derivano successi favolosi o
fallimenti catastrofici... Genova
ha cambiato rotta più volte, sempre
accettando la necessaria metamorfosi...
Mostro di intelligenza,
e talvolta di durezza, Genova è
condannata ad impadronirsi del
mondo o a non esistere».
Genova, dunque "condannata"
a uscire dai suoi spazi fisici, psicologici,
culturali per essere parte
dell'economia mondo e della cultura
mondo; Genova condannata
a navigare in mare aperto; Genova
condannata a fare acrobazie.
Quando, stanca come capita ogni
tanto di esserlo a persone città
paesi, si ritrae in se stessa, cerca
di tagliare i legami col mondo,
vuole riposare, vuole godersi quel
mare e quella natura mirabile da
pensionata, vuole liberarsi da
quei "furesti" che l'assillano («Se
passu intu mei paise u vegu cin
dei furesti che nu cunusciu, tantu
che mi me paresciu u ciu furestu
de tuti») allora, alimentando l'illusione
di stare ferma, di serbare
quello che ha accumulato, si accorge
che regredisce spaventosamente,
che affonda, che diventa
qualche cosa in conflitto con
la sua storia, qualcosa che diventa
incomprensibile a tutti quelli
che sanno quanta intelligenza,
quanta cultura, quanta capacità è
depositata sotto i suoi tetti e che
rischia di perdere tutto.
Mi è capitato di vivere intensamente
Genova, per ragion professionali,
in uno dei suoi periodi
più grigi e depressi, dal 1978 al
1986. E poi di continuare a seguirne
l'evoluzione, più da lontano
ma sempre con attenzione,
dal 1986 ad oggi.
La situazione della città negli
anni '70 verrà sintetizzata da un
esperto giornalista, intervistato da
un gruppo di ricerca della Bocconi
nel 1986, con queste condivise
parole: «Genova è una città che
da 10 anni va allo sfascio; da un
punto di vista urbanistico, da un
punto di vista culturale, da un
punto di vista economico. Da un
punto di vista imprenditoriale la
logica che ha governato l'attività
portuale è risultata mortale».
Io ero allora impegnato nel risanamento
di un grande gruppo genovese
con attività diversificate
ma con l'attività principale nel settore
armatoriale, persone e merci.
Quello che mi colpì nei primi
anni di quel periodo (1978-1986)
furono due aspetti principali. Il primo
aspetto fu la totale mancanza
di solidarietà e di aiuto da parte
di Genova in un processo di risanamento
di un gruppo che, per
la sua rilevanza, non poteva non
interessare tutta la città. Noi, lombardi,
eravamo consapevoli che,
pur trattandosi di un'operazione
privata, stavamo facendo qualcosa
di rilevanza pubblica e trovammo
aiuto e comprensione in altre
persone e enti lombardi o di altre
regioni.
L'unico genovese, anzi ligure,
che, consapevole dell'importanza
generale della vicenda, ci diede
un grande aiuto, sia finanziariamente
che soprattutto di idee,
esperienza, tenacia, coraggio,
contatti, fu Angelo Ravano. Frequentando
allora quel geniale e
generoso imprenditore ligure imparai
da lui tutto quel poco che
so di portualità. Fu lui a spiegarmi
che i notabili genovesi non avevano
mai capito nulla della rivoluzione
dei container tanto da essere
stato costretto ad emigrare
nei mari del Nord; che i sindacati
portuali genovesi avevano deciso
di soffocare il porto di Genova e
che sino a che avessero comandato
loro, anche grazie alla viltà
degli imprenditori genovesi, non
c'era niente da fare; che lui aveva
fatto l'investimento in un terminal
container a La Spezia perché lì
si poteva organizzare il lavoro in
modo moderno ed efficiente; che
il porto emporio era finito e stava
per essere sostituito dal porto
transito inserito in una catena logistica
di un servizio door to door
nella quale il porto non è più il
centro ma è solo uno degli anelli
di un complesso ingranaggio; che
i terminal container e gli attracchi
specializzati devono essere
sganciati dai centri storici, e contare
su vie d'accesso privilegiate.
Fu lui a insegnarmi, con l'esempio,
che al pessimismo e talora
al sarcasmo della ragione bisogna
sempre contrapporre se non
l'ottimismo della volontà il semplice
dovere del fare. L'altro aspetto che
mi colpì fu che
nella classe dirigente
genovese il
porto era totalmente
assente. Sembrava rimosso.
Di tutto si parlava meno
che del porto (fu nel corso di quel
periodo che, mi sembra, Prodi,
presidente dell'Iri, lanciò lo slogan
della "Silicon Valley" genovese,
per mascherare il disastro
delle partecipazioni statali). Invano
mi scaldavo con gli amici genovesi
dicendo: il futuro di Genova
è nel porto, è nel mare. Mi
guardavano con benevolenza
come si guarda un matto.

Sono opere giuste o sbagliate?
Sono opere la cui durata si misura
in anni, decenni o secoli? Sono opere
che toccano e toccheranno migliaia,
centinaia di migliaia o milioni di
persone? Sono opere che aumentano
o diminuiscono la produttività del
sistema? Sono queste le domande
centrali da porsi, invece di incominciare
a dire che non ci sono i soldi.
I soldi non ci sono mai nel cassetto
di qualunque comunità bene amministrata.
Infatti non si devono trovare
i soldi ma la copertura finanziaria
nell'arco di tempo appropriato.
Ma quando le risposte alle domande
di cui sopra sono positive, allora la
copertura finanziaria la si trova sempre,
prevalentemente nel progetto
stesso e nei suoi effetti, con un mix
appropriato di fondi pubblici, di copertura
di mercato, di partecipazione
all'investimento di fornitori, ponendo
in relazione i futuri ricavi con i rimborsi
e con l'ausilio di tutti gli strumenti
finanziari rapportati al mercato finanziario
internazionale che è immenso;
comprando insomma, il tempo, il che
è l'essenza della finanza. Nel 1815
la Francia aveva i conti pubblici in
ordine mentre l'Inghilterra aveva un
debito pubblico superiore al Pil. Ma
l'Inghilterra aveva battuto Napoleone
e si accingeva dar vita al suo grande
secolo.
Naturalmente anche sotto questo
profilo il progetto Piano va valutato
con molta cura. Ma il lungo arco di
tempo previsto
per la sua realizzazione,
il fatto
che alcune componenti
importanti
sono sicuramente
autofinanziabili
con i
proventi futuri,
che alcune altre
parti sono finanziabili
direttamente
da privati
interessati, che
il suo costo globale
(sembra
elevato se considerato in se stesso)
tale non è se lo paragoniamo ad altre
grandi opere, o ad alcuni grandi
sperperi che si stanno commettendo
oggi in Italia nell'ambito di investimenti
come l'Alta Velocità ed in alcune
spese correnti, o ai grandi buchi
serenamente assorbiti dal sistema
bancario nazionale e internazionale.
Tutto ciò permette di concludere che
la quadratura economica e finanziaria
del progetto appare ragionevolmente
possibile.
Piuttosto la domanda più inquietante
e difficile l'ha posta Vincenzo Tagliasco
dell'Università di Genova su "Il
Secolo XIX" del 27 maggio: "Piano
ha prospettato una Genova meravigliosa,
protesa sul mare. Tuttavia
sorge spontanea la domanda: per
quali abitanti, per quali categorie di
persone o cittadini viene progettata
Genova nuova?".
E' una domanda che si ricollega a
quella che facevo io all'inizio: a quale
città si rivolge Piano? Esiste una Genova
che possa prendere sul serio
un progetto così sfidante? Se si
guardano le statistiche demografiche
si è portati a dare una risposta
negativa: i residenti in tutta la Liguria
erano 1.676.281 nel censimento '91
e sono scesi a 1.570.004 nel 2001;
a fine 2002 il comune di Genova
aveva solo 604.732 residenti e la
provincia solo 873.604. In Liguria gli oltre sessantacinquenni
sono il 25% della
popolazione residente contro
il 18,2% della pur vecchia
Italia e l'età media è
di 46,6 anni contro il 41,6
dell'Italia. E mentre il Paese con
un tasso di fecondità dell'1,24% si
colloca all'ultimo posto in Europa
(media 1,47), la Liguria (1,05) si
colloca sotto la pessima media italiana.
E' chiaro che non è a questa Genova
che si rivolge il progetto Piano,
ma a una città che brucia sotto
la cenere, affiorante peraltro con
sempre più chiara evidenza, che
vuole un forte rilancio, che sente
di poterlo esprimere anche alla
luce della capacità di "urban regeneration"
realizzata
con successo
da Genova
negli
ultimi dieciquindici
anni,
anche grazie
ad una buona
capacità di lavoro
comune
delle varie istituzioni.
E poi il
progetto non si
rivolge solo a
Genova ma, almeno,
a tutto il
Nord Italia.
Proporre un progetto così alla
Genova degli anni '70 sarebbe stato
demenziale. Ma non alla Genova
di oggi, dopo il buon lavoro fatto
negli ultimi quindici anni. Ecco perché
è essenziale calare questo
progetto in tutto quello che di buono
è stato fatto negli ultimi anni,
nelle tante "acrobazie" della storia
genovese e nelle grandi possibilità
del futuro.
Il progetto si rivolge ad una Genova
che non c'è ancora in modo
compiuto, ma per il quale esistono
solide tracce e fondamenta. Una
città che, ricuperato un rapporto ed
una proiezione positiva con il suo
mare ed il suo porto, sta scoprendo
di trovarsi all'incrocio di forti tendenze
vincenti per il prossimo futuro:
traffici marittimi, turismo, cultura,
scienza e informazione, industrie
qualificate E' a questa città in formazione,
chiamata ad una nuova
"acrobazia", che si rivolge il
progetto-sfida di Piano.
Certo molte altre cose andranno
fatte, certo tanti nuovi collegamenti
andranno allacciati, certo la collaborazione
con Milano e Torino andrà
rafforzata in un rinnovato triangolo.
Allora i giovani resteranno e
si sposeranno a Genova ed altri
giovani di qualità verranno dal
mondo ed anche gli indici demografici
pian piano si invertiranno.
Nei grandi progetti non bisogna
mai pretendere che tutto sia a posto
prima di partire. Basta essere
ragionevolmente certi che la rotta
è giusta e crederci, come Cristoforo
Colombo. Come ha scritto
Saint-Exùpery ("Vol de nuit") in un
passo che ho sempre amato anche
perché tante volte ne ho verificato
la profonda verità: "Dans la
vie, il n'y a pas des solutions. Il faut
les créer et les solutions suivent".

Breve storia di una città che aveva voltato le
spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 2

Piano chiede a Genova
un'altra "acrobazia" storica
Il progetto di Renzo
Piano è geniale ma
non astratto. E'
semplice, limpido,
realistico, coerente
con la storia e gli
sviluppi più recenti
La sfida non si rivolge
alla metropoli attuale,
ma a quella non
ancora compiuta che
sta scoprendo d'essere
crocevia di forti
tendenze vincenti
Nella prima metà del
'92 il comitato
scientifico della associazione
dei laureati
Sda-Bocconi,
propose come
tema di studio per l'anno la rifondazione
della vita urbana in alcune città
italiane. Su mia proposta, quale presidente
del comitato, tra le città oggetto
di studio fu inserita Genova
(accanto a Milano, Palermo, Bari).
Ne uscì una serie di incontri e di analisi
di grande interesse, poi raccolti
nel volume "Quale progetto per la città",
a cura di Luigi V. Majocchi e Marco
Vitale (edito da Il Sole 24 Ore Libri
1983). Con l'aiuto di un imprenditore
genovese e dell'onorevole Giacomo
Gualco, già presidente della Giunta
della Regione
Liguria, ricostruimmo
i tratti caratteristici
del
grande sforzo in
atto per traghettare
Genova da
una fase di
recessione-stagnazione
ad un
nuova fase di
recupero e di
nuovo sviluppo.
Vale la pena di
ricordarne i punti
chiave, attualizzandoli.
Tra i punti di crisi emersero soprattutto
questi aspetti.
Ciclo demografico: problema ancora
oggi aperto.
Chiusure e calo dell'industria pesante
tradizionale (siderurgia, cantieristica,
meccanica pesante): il
trend è in continua progressione, ma
con attenuazione della Iridipendenza
che era allora dominante
con l'effetto di indirizzare "le principali
energie in termini di rivendicazione
nei confronti dell'Iri, piuttosto che
di ricerca di nuove alternative". (Il
tasso di disoccupazione era allora
del 10-12%, un'anomalia tra le città
del Nord).
Lentezza con cui si realizzava il ricupero
delle attività portuali, con sopravvivenza
di posizioni di rendita
nonostante la svolta del 1984-86 e
le provvide iniziative di un parlamentare
lombardo, l'onorevole Pedini, a
favore della portualità quando resse
bene il rispettivo dicastero: la situazione
è da allora molto migliorata,
anche alla luce del ricupero generale
della portualità italiana, ma per realizzare
un nuovo salto è necessario
ora investire in strutture fortemente
innovative.
Il degrado del centro storico: qui il
miglioramento realizzato dal 1992 ad
oggi è stato molto importante.
Il problema del traffico e delle strutture
infrastrutturali urbane ed extraurbane
per liberare la città: qui è tutto
o quasi ancora da fare.
Il mancato avvio di un progetto di
reindustrializzazione con nuove attività
industriali leggere: questo tema
molto importante fu formulato dall'onorevole
Gualco, in questi termini:
"Tra le strategie che Genova sta
mettendo in atto per rilanciare la propria
economia ha sicuramente un
posto importante la reindustrializzazione.
La chiave di questo
progetto è il recupero e il risanamento
delle aree del Ponente genovese.
L'obiettivo è quello di utilizzare
una parte delle aree lasciate libere
dalle aziende "mature" per introdurre
nuove forme di industrializzazione
avanzata e pulita, una industrializzazione
compatibile e integrabile con
attività terziarie direzionali o ad alto
contenuto tecnico e scientifico".
E' in questa prospettiva che ho valutato
il progetto Waterfront presentato
da Renzo Piano. Ho letto che
esso è stato definito da qualcuno "un
progetto geniale". E geniale lo è. Ma
questa qualificazione mi sembra pericolosa.
Perché può evocare qualcosa
di geniale ma di astratto, di
staccato dalla realtà, uno di quei colpi
di genio che i grandi architetti
amano esprimere, affascinati dalla
bellezza delle loro idee e delle loro
fantasie.
A me invece, il progetto Piano è
parso entusiasmante proprio perché
è semplice, limpido, realistico, coerente
sia con la storia che con gli
sviluppi recenti di Genova, che ho
cercato di riassumere. Non è un colpo
di genio; è frutto di una lettura
onesta, colta ed intelligente del territorio
e della città e della sua storia
e di una introspezione della sua forza
interna che potrebbe esplodere.
Le idee chiave del progetto che mi
sembrano più interessanti sono:
puntiamo sul
porto, puntiamo
sul mare.
Se questo è
sempre stato
vero per Genova,
è ancora più
vero oggi che,
grazie soprattutto
a Gioia Tauro
(tanto stoltamente
combattuta
dai genovesi;
ancora una
volta sia lode ad
Angelo Ravano)
il trasporto marittimo nel Mediterraneo
è stato oggetto di un grande rilancio,
che è solo all'inizio. Oggi l'Italia
è al secondo posto in Europa per
quantità di merce trasportata per via
marittima dopo il Regno Unito e prima
dei Paesi Bassi, ed al primo posto
per trasporto passeggeri via
mare. Ma bisogna investire in modo
importante nel porto con strutture
moderne e funzionali.
Se è vero che Genova è sempre
stata soffocata dalla limitatezza del
territorio, e che questo è sempre stato
uno dei suoi maggiori problemi,
allora liberiamo parte del territorio,
portando sul mare quello che si può
portare sul mare.

L'INVERSIONE


In passato i genovesi hanno cercato
di sfuggire alla limitatezza del territorio
cercando di creare insediamenti
oltre l'Appennino. Non sono mai stati
un successo. Oggi i progressi della
tecnologia e delle tecniche costruttive
rendono possibile soluzioni che,
in passato, erano impensabili. Perciò
l'idea di portare sul mare l'aeroporto
ed altre attività è più di un colpo di
genio. E' una cosa giusta ed oggi
possibile. E dunque auspicabile. Genova ed il suo porto
sono soffocati dal
problema del traffico
e dei trasporti urbani
ed extra urbani,
e se il porto deve
ulteriormente svilupparsi questo
grande collo di bottiglia va affrontato
e rimosso.
Ma questo fondamentale passaggio
non è possibile senza un
ridisegno forte dell'intero frontemare
che risistemi le sedimentazioni
storiche, secondo un piano
razionale, funzionale ed attuale.
Del resto, se non vado errato, questo
era uno dei compiti dell'Agenzia
del Piano costituita nel '96 per
sviluppare un approccio metodologico
integrato dei temi urbani, portuali,
trasportistici. La liberazione di
aree ed il ridisegno funzionale del
fronte mare sono anche propedeutici
allo sviluppo di attività industriali
nuove e, comunque, legate al porto,
completando il disegno di sviluppo
basato su attività marittime
e portuali, turismo, servizi specializzati,
cultura scienza e formazione,
anche con una linea di reindustrializzazione.
Se questi sono i pilastri del progetto,
è difficile pensare a serie
obiezioni al suo disegno di fondo,
E, in effetti, finora non ho letto obiezioni
forti.
La più verosimile è che si tratta
di investimenti troppo rilevanti, ancorché
diluiti su 18 anni, per cui
ho sentito ed ancora sentiremo il
consueto: non ci sono i soldi! Ma
questo l'abbiamo sentito dire per la
sanità, per la scuola, per la benzina
della polizia stradale, per le fotocopie
del palazzo di giustizia.
Nel 1869 William Seward, segretario
di Stato di Lincoln, comprò l'Alaska
dalla Russia pagandola 7,5
milioni di dollari. Fu violentemente
e largamente contestato dai tanti
che trovavano il prezzo troppo caro
ed accusavano Seward di rovinare
le finanze pubbliche, tanto che si
diffuse il modo di dire: "un affare
alla Seward" per significare un
pessimo affare. Seward fu tanto
umiliato ed addolorato che, dopo
poco, morì di crepacuore.
Qualcosa di simile era successo
quando, nel 1803, il presidente Jefferson
comprò da Napoleone la
Luisiana: un milione di miglia quadrate,
una ricca distesa di pianure
che nei decenni successivi diventeranno
uno dei principali granai
del mondo, il controllo di tutto il sistema
fluviale della parte centrale
del continente e l'importantissimo
porto fluviale di New Orleans: il tutto
per 15 milioni di dollari. Ma Jefferson
non osò affrontare i benpensanti
del Congresso e chiudendo
l'operazione senza il consenso dello
stesso "tese la Costituzione fino
a spezzarla".
Questi episodi sono uno dei migliori
esempi (ma ce ne sono tanti
altri) dell'assunto che il normale
buonsenso economico e finanziario
è non solo errato ma deleterio
quando si tratta di valutare il significato
economico di grandi investimenti
pubblici. Siamo, in generale,
portati a valutare queste operazioni
con gli stessi parametri che applichiamo
ai piccoli affari privati,
proiettando su un arco di tempo irrealisticamente
corto (20-30 anni)
opere la cui durata ed i cui benefici
dureranno secoli, applicandone gli
effetti a poche persone mentre, in
effetti, interesseranno nel tempo
milioni e milioni di persone; facendo
calcoli di ritorni finanziari impossibili
ed improbabili mentre quello
che interessa sono i ritorni economici
di lungo periodo, il modo e la
misura con cui queste opere e
questi investimenti influenzeranno
la produttività e quindi la redditività
dell'intero sistema nel quale vengono
calati.