[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
genova tornare al porto
- Subject: genova tornare al porto
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 9 Jul 2004 06:50:12 +0200
dal secolo xix Domenica 27 Giugno 2004 dal secolo xix Domenica 27 Giugno 2004 L'ANALISI TORNARE AL PORTO I l progetto di Renzo Piano, che esprime una importante visione per il futuro della città di Genova, un sogno, ma un sogno molto concreto e preciso, non interessa solo i genovesi. Come è di tutti i progetti complessi esso richiederà molte analisi, valutazioni non semplici, approfondimenti, progetti particolari, contributi di molti specialisti, aggiustamenti, adattamenti. Ma esso può sin d'ora essere discusso e valutato nella sua essenza, nel suo significato, nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi di fondo. Negli anni '70 l'aspetto che mi colpì fu che nella classe dirigente genovese il porto era totalmente assente. Sembrava rimosso... La svolta comincia nel periodo 1984-86, quando Genova decide di ripensarsi intorno al suo porto, di liberare il suo porto dall'"assetto di morte". Esiste oggi una Genova che possa prendere sul serio un progetto sfidante come quello di Piano? MARCO VITALE* L'unico genovese eminente che diceva pubblicamente che il futuro di Genova era il porto era l'arcivescovo Siri, quel Siri che proprio il 25 agosto 1978 era stato in lizza per l'elezione a Papa, come candidato dei conservatori, in contrapposizione al patriarca di Venezia, Albino Luciani. Ricordo ancora nitidamente una sua lucidissima intervista sul Secolo XIX dal grande titolo: "Il futuro di Genova è nel porto". Ma la forza sindacale, la "corruzione morale ed intellettuale" alimentata dal denaro pubblico, e la viltà, bloccavano il porto che regrediva continuamente di fronte ai "nuovi" porti, e, con il porto, affondava l'intera città. I rubinetti dell 'operaismo assistito, con la sua nequizia e la sua retorica, si chiusero. Si chiusero i rubinetti dell'Iri che smise di staccare ogni anno un assegno di 1.300 miliardi di lire solo per l'Italsider. Si chiuse il rubinetto del governo per il porto o meglio i fondi che il governo era ancora disposto a mettere a disposizione del porto vennero condizionati ad un effettivo risanamento (grande merito storico del governo Craxi). E poi venne il 31 maggio 1984 quando il presidente-manager del Cap, il "furestu" (fiorentino formatosi in Lombardia) Roberto D'Alessandro, voluto da Craxi, presentò all'assemblea generale un piano di risanamento, riorganizzazione e rilancio del porto di Genova detto il Libro Blu, messo a punto con l'aiuto di una società di consulenza milanese. L'importanza storica di questo documento mi fu subito chiara, perché rimetteva il porto al centro del futuro della città; perché i contenuti tecnici erano ineccepibili; per lo spessore culturale e il coraggio che lo animava; per il linguaggio efficace e coinvolgente; per il metodo sfidante. Tutte le componenti della città (e con loro, secondo la lungimirante legge istitutiva n. 50 del 1903, le Province, i Comuni e le Camere di commercio di Milano e Torino; era dunque ben chiaro al legislatore del 1903 che la questione del porto di Genova non era solo una questione dei genovesi!) erano chiamate ad una precisa ed esplicita presa di posizione ed assunzione di responsabilità. Fu una svolta culturale storica per la città. Io ne capii subito il significato e salutai l'evento con un articolo sul Sole 24 Ore del 22 giugno 1984, dal titolo: "Un assetto di vita per non affondare"; formai un gruppo di studio in Bocconi che, per oltre due anni, seguì l'evoluzione della vicenda facendone un caso di studio ed insegnamento per il corso che allora tenevo in quell'Università, nell'ambito del quale vennero a testimoniare sia D'Alessandro che un vice-console della Compagnia unica; la stampa nazionale iniziò a seguire la vicenda con grande attenzione, affiancandosi alla stampa locale e giocando, insieme, un ruolo determinante (memorabili gli articoli di Giorgio Bocca su Repubblica) . Ma soprattutto iniziò nella città un duro ma aperto, civile e pubblico confronto, che il Libro Blu ebbe la forza di tenere ancorato ai fatti e di rendere trasparente, che si chiuse il 27 gennaio 1987, quando la Compagnia unica dei lavoratori portuali accettò definitivamente, sia pure con riserva, il nuovo corso per evitare il commissariamento del porto. Fu un grande travaglio, un difficile parto, una svolta culturale, politica e civile di grande difficoltà e significato. È emozionante rileggere ora la documentazione del periodo 1984- 86 che è raccolta in un volume. Tutto ricomincia da lì, da quando Genova decide di ripensarsi intorno al suo porto, di liberare il suo porto dall'"assetto di morte" e scegliere un "assetto di vita". È da lì che ricomincia una graduale ma sicura crescita del porto, sia nella componente merci che persone, e di tutte le attività indotte (una ricerca Ilres, finanziata dalla Camera di Commercio, dimostrò che erano 41.000 le famiglie il cui reddito era legato all'attività del porto), e quindi della città. Lo sviluppo dell'Acquario con la riscoperta, anche in concomitanza delle Colombiadi 1992, di una vocazione turistica della città; la bellissima ed efficacissima riqualificazione del Porto antico; l'importante ricupero del centro storico; la ricostruzione e riapertura del Carlo Felice; l'inserimento del tratto Genova-Milano nei programmi per l'alta velocità dovuto all'ostinazione ed all'impegno profuso dalla Regione Liguria contro l'ostilità dei vertici delle Ferrovie della quale porto personale testimonianza; l'apparire di nuovi simboli come il Bigo di Piano; il G8 del 2001 che, a prescindere dal modo folle con cui è stato gestito sotto il profilo della sicurezza, rimette Genova al centro dell'attenzione del mondo; il 2004 con Genova Capitale europea della cultura e che lascerà come arricchimento permanente varie cose, ma soprattutto l'importante Museo del Mare di prossima apertura. Tutto questo e molte altre cose segnano un chiaro tragitto di rinascita della città della Lanterna, che prende le mosse dalla svolta culturale del 1984-1986. (1 / continua) È dalla svolta culturale del 1984-86 che parte il tragitto di apertura e arricchimento: passa per Colombiane, G8 e 2004 LA RINASCITA Breve storia di una città che aveva voltato le spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 1 Piano e l'utopia possibile rimettere Genova sul mare Il progetto di Renzo Piano esprime una importante visione: è un sogno concreto, che non interessa solo i genovesi Invano dicevo agli amici genovesi che il futuro è nel porto. Mi guardavano con benevolenza come si guarda un matto Il progetto di Renzo Piano per Genova, sul quale il Secolo XIX ha aperto da tempo un dibattito, suscita interesse anche al di fuori della Liguria per i riflessi che avrebbe sull'economia di tutto il Nord Italia. Marco Vitale è un economista lombardo: si autodefinisce "furestu", straniero, ma in realtà ha lavorato a Genova dal '78 all'86, gli anni della crisi. Forte di quella esperienza ha dedicato al progetto una approfondita analisi, che pubblichiamo in due puntate. Nell'articolo di oggi ripercorre le scelte infelici del passato, che hanno ridimensionato il ruolo del porto, come fosse un corpo estraneo alla città. Ma sottolinea anche le intuizioni che hanno anticipato la rivoluzione di Piano. Nella seconda parte entrerà più in dettaglio nel progetto. Il progetto di Renzo Piano, che esprime una importante visione per il futuro della città di Genova, un sogno, ma un sogno molto concreto e preciso, non interessa solo i genovesi. Come è di tutti i progetti complessi esso richiederà molte analisi, valutazioni non semplici, approfondimenti, progetti particolari, contributi di molti specialisti, aggiustamenti, adattamenti. Ma esso può sin d'ora essere discusso e valutato nella sua essenza, nel suo significato, nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi di fondo. Io credo che possa essere utile in questa valutazione proiettarlo in una prospettiva storica arricchita da qualche ricordo recente, per cercare di capire a quale città Renzo Piano intende rivolgersi o spera di rivolgersi. Esiste una Genova che possa prendere sul serio un progetto così sfidante? Questa è la prima domanda da porsi. Facciamoci guidare nel tentare una risposta, innanzi tutto, da un grande storico, che non solo ha capito ma ha amato Genova: Fernand Braudel. Con poche parole il grande storico sintetizza tutto quello che conta: «Genova, con le due riviere di Ponente e di Levante, costituisce uno spazio estremamente ridotto. Secondo una relazione francese (del 1692), i genovesi dispongono di circa trenta leghe lungo la costa, partendo da Monaco e arrivando fino al territorio di Massa, e di sette o otto leghe di pianura dalla parte del Milanese. Il resto è un sipario di montagne sterili». Braudel sottolinea che la città è in situazione difficile sia dalla parte della montagna che dalla parte del mare: «La posizione geografica, apparentemente protettiva, rende indifesa la città: l'assalitore proveniente dal Nord sbocca, infatti, al di sopra di essa... Genova è altrettanto vulnerabile dalla parte del mare. Il suo porto si affaccia sul mare aperto, che non appartiene a nessuno e dunque è di tutti... Al servizio di Genova non c'è un "mare nostrum" come l'Adriatico per Venezia, né c'è una laguna per proteggerne l'accesso... La debolezza di Genova è, lo ripetiamo, congenita; la città e i suoi sobborghi non possono vivere senza fare ricorso al mondo esterno.. E questo non è che uno dei paradossi di questa strana città, tanto svantaggiata e tuttavia, prima e dopo il "suo" secolo, tesa a puntare ai vertici della vita internazionale degli affari. Una città che, a mio giudizio, è sempre stata a misura del suo tempo, la città capitalista per eccellenza». Genova ha, per la maggior parte del trascorso millennio, giocato tanti ruoli diversi ma quasi sempre ai vertici dell'economia mondo. A partire dai lunghi secoli nei quali le sue navi dominano nel Mediterraneo ed aprono le prime rotte del Nord (a partire dal 1295 Genova ha stabilito il primo collegamento marittimo diretto e regolare fra il Mediterraneo e il Mare del Nord) e i suoi mercanti hanno insediamenti ovunque, vera e propria multinazionale cittadina ante litteram; da quando i suoi fratelli Vivaldi si lanciano coraggiosamente al di là di Gibilterra (1291) cercando la via che Vasco de Gama troverà due secoli dopo. E poi nel secolo dei genovesi ("El siglo de los Gen o v e s e s " ) quando i suoi mercanti banchieri diventano "gli arbitri dei pagamenti e delle operazioni finanziarie europee". E quando, dopo i secoli oscuri della lunga depressione italiana, il Paese inizia una nuova rinascita, Genova è pronta all'appuntamento e nel corso dell'800 ritorna ad essere uno dei motori più attivi della Penisola. All'epoca dell'invenzione della navigazione marittima a vapore essa creerà un'industria e una forte marina moderna; nel corso del Risorgimento sarà un soggetto chiave tanto da far dire a uno storico italiano (Carmelo Trasselli), forse un po' esagerando: «Genova ha fatto l'unità d'Italia e l'ha fatta a proprio vantaggio» (anche la costituzione della Banca d'Italia sarà in buona parte opera sua); e quando tra la fine dell'800 ed i primi dieci anni del '900 decolla il processo di industrializzazione del Paese, Genova è tempestiva all'appuntamento e diventa una delle tre punte del triangolo magico nel quale si costruisce l'industrializzazione del Paese. I risultati di Genova ed il suo ruolo importante nella storia del Paese, dell'Europa e dell'economia mondo è fuori discussione. E questo è stato possibile grazie ad un continuo processo di riconversione, di mutamenti, di adattamenti opportunistici. I risultati sono sempre stati legati a un continuo processo di riconversione e di adattamenti. Anche a prezzo di acrobazie I CAMBIAMENTI «Questo risultato - dice Braudel - è stato conseguito a prezzo di acrobazie. D'altra parte a Genova tutto è acrobazia... È l'eterno problema di Genova che vive e deve vivere in agguato, condannata a rischiare e al tempo stesso a essere particolarmente prudente. Ne derivano successi favolosi o fallimenti catastrofici... Genova ha cambiato rotta più volte, sempre accettando la necessaria metamorfosi... Mostro di intelligenza, e talvolta di durezza, Genova è condannata ad impadronirsi del mondo o a non esistere». Genova, dunque "condannata" a uscire dai suoi spazi fisici, psicologici, culturali per essere parte dell'economia mondo e della cultura mondo; Genova condannata a navigare in mare aperto; Genova condannata a fare acrobazie. Quando, stanca come capita ogni tanto di esserlo a persone città paesi, si ritrae in se stessa, cerca di tagliare i legami col mondo, vuole riposare, vuole godersi quel mare e quella natura mirabile da pensionata, vuole liberarsi da quei "furesti" che l'assillano («Se passu intu mei paise u vegu cin dei furesti che nu cunusciu, tantu che mi me paresciu u ciu furestu de tuti») allora, alimentando l'illusione di stare ferma, di serbare quello che ha accumulato, si accorge che regredisce spaventosamente, che affonda, che diventa qualche cosa in conflitto con la sua storia, qualcosa che diventa incomprensibile a tutti quelli che sanno quanta intelligenza, quanta cultura, quanta capacità è depositata sotto i suoi tetti e che rischia di perdere tutto. Mi è capitato di vivere intensamente Genova, per ragion professionali, in uno dei suoi periodi più grigi e depressi, dal 1978 al 1986. E poi di continuare a seguirne l'evoluzione, più da lontano ma sempre con attenzione, dal 1986 ad oggi. La situazione della città negli anni '70 verrà sintetizzata da un esperto giornalista, intervistato da un gruppo di ricerca della Bocconi nel 1986, con queste condivise parole: «Genova è una città che da 10 anni va allo sfascio; da un punto di vista urbanistico, da un punto di vista culturale, da un punto di vista economico. Da un punto di vista imprenditoriale la logica che ha governato l'attività portuale è risultata mortale». Io ero allora impegnato nel risanamento di un grande gruppo genovese con attività diversificate ma con l'attività principale nel settore armatoriale, persone e merci. Quello che mi colpì nei primi anni di quel periodo (1978-1986) furono due aspetti principali. Il primo aspetto fu la totale mancanza di solidarietà e di aiuto da parte di Genova in un processo di risanamento di un gruppo che, per la sua rilevanza, non poteva non interessare tutta la città. Noi, lombardi, eravamo consapevoli che, pur trattandosi di un'operazione privata, stavamo facendo qualcosa di rilevanza pubblica e trovammo aiuto e comprensione in altre persone e enti lombardi o di altre regioni. L'unico genovese, anzi ligure, che, consapevole dell'importanza generale della vicenda, ci diede un grande aiuto, sia finanziariamente che soprattutto di idee, esperienza, tenacia, coraggio, contatti, fu Angelo Ravano. Frequentando allora quel geniale e generoso imprenditore ligure imparai da lui tutto quel poco che so di portualità. Fu lui a spiegarmi che i notabili genovesi non avevano mai capito nulla della rivoluzione dei container tanto da essere stato costretto ad emigrare nei mari del Nord; che i sindacati portuali genovesi avevano deciso di soffocare il porto di Genova e che sino a che avessero comandato loro, anche grazie alla viltà degli imprenditori genovesi, non c'era niente da fare; che lui aveva fatto l'investimento in un terminal container a La Spezia perché lì si poteva organizzare il lavoro in modo moderno ed efficiente; che il porto emporio era finito e stava per essere sostituito dal porto transito inserito in una catena logistica di un servizio door to door nella quale il porto non è più il centro ma è solo uno degli anelli di un complesso ingranaggio; che i terminal container e gli attracchi specializzati devono essere sganciati dai centri storici, e contare su vie d'accesso privilegiate. Fu lui a insegnarmi, con l'esempio, che al pessimismo e talora al sarcasmo della ragione bisogna sempre contrapporre se non l'ottimismo della volontà il semplice dovere del fare. L'altro aspetto che mi colpì fu che nella classe dirigente genovese il porto era totalmente assente. Sembrava rimosso. Di tutto si parlava meno che del porto (fu nel corso di quel periodo che, mi sembra, Prodi, presidente dell'Iri, lanciò lo slogan della "Silicon Valley" genovese, per mascherare il disastro delle partecipazioni statali). Invano mi scaldavo con gli amici genovesi dicendo: il futuro di Genova è nel porto, è nel mare. Mi guardavano con benevolenza come si guarda un matto. Sono opere giuste o sbagliate? Sono opere la cui durata si misura in anni, decenni o secoli? Sono opere che toccano e toccheranno migliaia, centinaia di migliaia o milioni di persone? Sono opere che aumentano o diminuiscono la produttività del sistema? Sono queste le domande centrali da porsi, invece di incominciare a dire che non ci sono i soldi. I soldi non ci sono mai nel cassetto di qualunque comunità bene amministrata. Infatti non si devono trovare i soldi ma la copertura finanziaria nell'arco di tempo appropriato. Ma quando le risposte alle domande di cui sopra sono positive, allora la copertura finanziaria la si trova sempre, prevalentemente nel progetto stesso e nei suoi effetti, con un mix appropriato di fondi pubblici, di copertura di mercato, di partecipazione all'investimento di fornitori, ponendo in relazione i futuri ricavi con i rimborsi e con l'ausilio di tutti gli strumenti finanziari rapportati al mercato finanziario internazionale che è immenso; comprando insomma, il tempo, il che è l'essenza della finanza. Nel 1815 la Francia aveva i conti pubblici in ordine mentre l'Inghilterra aveva un debito pubblico superiore al Pil. Ma l'Inghilterra aveva battuto Napoleone e si accingeva dar vita al suo grande secolo. Naturalmente anche sotto questo profilo il progetto Piano va valutato con molta cura. Ma il lungo arco di tempo previsto per la sua realizzazione, il fatto che alcune componenti importanti sono sicuramente autofinanziabili con i proventi futuri, che alcune altre parti sono finanziabili direttamente da privati interessati, che il suo costo globale (sembra elevato se considerato in se stesso) tale non è se lo paragoniamo ad altre grandi opere, o ad alcuni grandi sperperi che si stanno commettendo oggi in Italia nell'ambito di investimenti come l'Alta Velocità ed in alcune spese correnti, o ai grandi buchi serenamente assorbiti dal sistema bancario nazionale e internazionale. Tutto ciò permette di concludere che la quadratura economica e finanziaria del progetto appare ragionevolmente possibile. Piuttosto la domanda più inquietante e difficile l'ha posta Vincenzo Tagliasco dell'Università di Genova su "Il Secolo XIX" del 27 maggio: "Piano ha prospettato una Genova meravigliosa, protesa sul mare. Tuttavia sorge spontanea la domanda: per quali abitanti, per quali categorie di persone o cittadini viene progettata Genova nuova?". E' una domanda che si ricollega a quella che facevo io all'inizio: a quale città si rivolge Piano? Esiste una Genova che possa prendere sul serio un progetto così sfidante? Se si guardano le statistiche demografiche si è portati a dare una risposta negativa: i residenti in tutta la Liguria erano 1.676.281 nel censimento '91 e sono scesi a 1.570.004 nel 2001; a fine 2002 il comune di Genova aveva solo 604.732 residenti e la provincia solo 873.604. In Liguria gli oltre sessantacinquenni sono il 25% della popolazione residente contro il 18,2% della pur vecchia Italia e l'età media è di 46,6 anni contro il 41,6 dell'Italia. E mentre il Paese con un tasso di fecondità dell'1,24% si colloca all'ultimo posto in Europa (media 1,47), la Liguria (1,05) si colloca sotto la pessima media italiana. E' chiaro che non è a questa Genova che si rivolge il progetto Piano, ma a una città che brucia sotto la cenere, affiorante peraltro con sempre più chiara evidenza, che vuole un forte rilancio, che sente di poterlo esprimere anche alla luce della capacità di "urban regeneration" realizzata con successo da Genova negli ultimi dieciquindici anni, anche grazie ad una buona capacità di lavoro comune delle varie istituzioni. E poi il progetto non si rivolge solo a Genova ma, almeno, a tutto il Nord Italia. Proporre un progetto così alla Genova degli anni '70 sarebbe stato demenziale. Ma non alla Genova di oggi, dopo il buon lavoro fatto negli ultimi quindici anni. Ecco perché è essenziale calare questo progetto in tutto quello che di buono è stato fatto negli ultimi anni, nelle tante "acrobazie" della storia genovese e nelle grandi possibilità del futuro. Il progetto si rivolge ad una Genova che non c'è ancora in modo compiuto, ma per il quale esistono solide tracce e fondamenta. Una città che, ricuperato un rapporto ed una proiezione positiva con il suo mare ed il suo porto, sta scoprendo di trovarsi all'incrocio di forti tendenze vincenti per il prossimo futuro: traffici marittimi, turismo, cultura, scienza e informazione, industrie qualificate E' a questa città in formazione, chiamata ad una nuova "acrobazia", che si rivolge il progetto-sfida di Piano. Certo molte altre cose andranno fatte, certo tanti nuovi collegamenti andranno allacciati, certo la collaborazione con Milano e Torino andrà rafforzata in un rinnovato triangolo. Allora i giovani resteranno e si sposeranno a Genova ed altri giovani di qualità verranno dal mondo ed anche gli indici demografici pian piano si invertiranno. Nei grandi progetti non bisogna mai pretendere che tutto sia a posto prima di partire. Basta essere ragionevolmente certi che la rotta è giusta e crederci, come Cristoforo Colombo. Come ha scritto Saint-Exùpery ("Vol de nuit") in un passo che ho sempre amato anche perché tante volte ne ho verificato la profonda verità: "Dans la vie, il n'y a pas des solutions. Il faut les créer et les solutions suivent". Breve storia di una città che aveva voltato le spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 2 Piano chiede a Genova un'altra "acrobazia" storica Il progetto di Renzo Piano è geniale ma non astratto. E' semplice, limpido, realistico, coerente con la storia e gli sviluppi più recenti La sfida non si rivolge alla metropoli attuale, ma a quella non ancora compiuta che sta scoprendo d'essere crocevia di forti tendenze vincenti Nella prima metà del '92 il comitato scientifico della associazione dei laureati Sda-Bocconi, propose come tema di studio per l'anno la rifondazione della vita urbana in alcune città italiane. Su mia proposta, quale presidente del comitato, tra le città oggetto di studio fu inserita Genova (accanto a Milano, Palermo, Bari). Ne uscì una serie di incontri e di analisi di grande interesse, poi raccolti nel volume "Quale progetto per la città", a cura di Luigi V. Majocchi e Marco Vitale (edito da Il Sole 24 Ore Libri 1983). Con l'aiuto di un imprenditore genovese e dell'onorevole Giacomo Gualco, già presidente della Giunta della Regione Liguria, ricostruimmo i tratti caratteristici del grande sforzo in atto per traghettare Genova da una fase di recessione-stagnazione ad un nuova fase di recupero e di nuovo sviluppo. Vale la pena di ricordarne i punti chiave, attualizzandoli. Tra i punti di crisi emersero soprattutto questi aspetti. Ciclo demografico: problema ancora oggi aperto. Chiusure e calo dell'industria pesante tradizionale (siderurgia, cantieristica, meccanica pesante): il trend è in continua progressione, ma con attenuazione della Iridipendenza che era allora dominante con l'effetto di indirizzare "le principali energie in termini di rivendicazione nei confronti dell'Iri, piuttosto che di ricerca di nuove alternative". (Il tasso di disoccupazione era allora del 10-12%, un'anomalia tra le città del Nord). Lentezza con cui si realizzava il ricupero delle attività portuali, con sopravvivenza di posizioni di rendita nonostante la svolta del 1984-86 e le provvide iniziative di un parlamentare lombardo, l'onorevole Pedini, a favore della portualità quando resse bene il rispettivo dicastero: la situazione è da allora molto migliorata, anche alla luce del ricupero generale della portualità italiana, ma per realizzare un nuovo salto è necessario ora investire in strutture fortemente innovative. Il degrado del centro storico: qui il miglioramento realizzato dal 1992 ad oggi è stato molto importante. Il problema del traffico e delle strutture infrastrutturali urbane ed extraurbane per liberare la città: qui è tutto o quasi ancora da fare. Il mancato avvio di un progetto di reindustrializzazione con nuove attività industriali leggere: questo tema molto importante fu formulato dall'onorevole Gualco, in questi termini: "Tra le strategie che Genova sta mettendo in atto per rilanciare la propria economia ha sicuramente un posto importante la reindustrializzazione. La chiave di questo progetto è il recupero e il risanamento delle aree del Ponente genovese. L'obiettivo è quello di utilizzare una parte delle aree lasciate libere dalle aziende "mature" per introdurre nuove forme di industrializzazione avanzata e pulita, una industrializzazione compatibile e integrabile con attività terziarie direzionali o ad alto contenuto tecnico e scientifico". E' in questa prospettiva che ho valutato il progetto Waterfront presentato da Renzo Piano. Ho letto che esso è stato definito da qualcuno "un progetto geniale". E geniale lo è. Ma questa qualificazione mi sembra pericolosa. Perché può evocare qualcosa di geniale ma di astratto, di staccato dalla realtà, uno di quei colpi di genio che i grandi architetti amano esprimere, affascinati dalla bellezza delle loro idee e delle loro fantasie. A me invece, il progetto Piano è parso entusiasmante proprio perché è semplice, limpido, realistico, coerente sia con la storia che con gli sviluppi recenti di Genova, che ho cercato di riassumere. Non è un colpo di genio; è frutto di una lettura onesta, colta ed intelligente del territorio e della città e della sua storia e di una introspezione della sua forza interna che potrebbe esplodere. Le idee chiave del progetto che mi sembrano più interessanti sono: puntiamo sul porto, puntiamo sul mare. Se questo è sempre stato vero per Genova, è ancora più vero oggi che, grazie soprattutto a Gioia Tauro (tanto stoltamente combattuta dai genovesi; ancora una volta sia lode ad Angelo Ravano) il trasporto marittimo nel Mediterraneo è stato oggetto di un grande rilancio, che è solo all'inizio. Oggi l'Italia è al secondo posto in Europa per quantità di merce trasportata per via marittima dopo il Regno Unito e prima dei Paesi Bassi, ed al primo posto per trasporto passeggeri via mare. Ma bisogna investire in modo importante nel porto con strutture moderne e funzionali. Se è vero che Genova è sempre stata soffocata dalla limitatezza del territorio, e che questo è sempre stato uno dei suoi maggiori problemi, allora liberiamo parte del territorio, portando sul mare quello che si può portare sul mare. L'INVERSIONE In passato i genovesi hanno cercato di sfuggire alla limitatezza del territorio cercando di creare insediamenti oltre l'Appennino. Non sono mai stati un successo. Oggi i progressi della tecnologia e delle tecniche costruttive rendono possibile soluzioni che, in passato, erano impensabili. Perciò l'idea di portare sul mare l'aeroporto ed altre attività è più di un colpo di genio. E' una cosa giusta ed oggi possibile. E dunque auspicabile. Genova ed il suo porto sono soffocati dal problema del traffico e dei trasporti urbani ed extra urbani, e se il porto deve ulteriormente svilupparsi questo grande collo di bottiglia va affrontato e rimosso. Ma questo fondamentale passaggio non è possibile senza un ridisegno forte dell'intero frontemare che risistemi le sedimentazioni storiche, secondo un piano razionale, funzionale ed attuale. Del resto, se non vado errato, questo era uno dei compiti dell'Agenzia del Piano costituita nel '96 per sviluppare un approccio metodologico integrato dei temi urbani, portuali, trasportistici. La liberazione di aree ed il ridisegno funzionale del fronte mare sono anche propedeutici allo sviluppo di attività industriali nuove e, comunque, legate al porto, completando il disegno di sviluppo basato su attività marittime e portuali, turismo, servizi specializzati, cultura scienza e formazione, anche con una linea di reindustrializzazione. Se questi sono i pilastri del progetto, è difficile pensare a serie obiezioni al suo disegno di fondo, E, in effetti, finora non ho letto obiezioni forti. La più verosimile è che si tratta di investimenti troppo rilevanti, ancorché diluiti su 18 anni, per cui ho sentito ed ancora sentiremo il consueto: non ci sono i soldi! Ma questo l'abbiamo sentito dire per la sanità, per la scuola, per la benzina della polizia stradale, per le fotocopie del palazzo di giustizia. Nel 1869 William Seward, segretario di Stato di Lincoln, comprò l'Alaska dalla Russia pagandola 7,5 milioni di dollari. Fu violentemente e largamente contestato dai tanti che trovavano il prezzo troppo caro ed accusavano Seward di rovinare le finanze pubbliche, tanto che si diffuse il modo di dire: "un affare alla Seward" per significare un pessimo affare. Seward fu tanto umiliato ed addolorato che, dopo poco, morì di crepacuore. Qualcosa di simile era successo quando, nel 1803, il presidente Jefferson comprò da Napoleone la Luisiana: un milione di miglia quadrate, una ricca distesa di pianure che nei decenni successivi diventeranno uno dei principali granai del mondo, il controllo di tutto il sistema fluviale della parte centrale del continente e l'importantissimo porto fluviale di New Orleans: il tutto per 15 milioni di dollari. Ma Jefferson non osò affrontare i benpensanti del Congresso e chiudendo l'operazione senza il consenso dello stesso "tese la Costituzione fino a spezzarla". Questi episodi sono uno dei migliori esempi (ma ce ne sono tanti altri) dell'assunto che il normale buonsenso economico e finanziario è non solo errato ma deleterio quando si tratta di valutare il significato economico di grandi investimenti pubblici. Siamo, in generale, portati a valutare queste operazioni con gli stessi parametri che applichiamo ai piccoli affari privati, proiettando su un arco di tempo irrealisticamente corto (20-30 anni) opere la cui durata ed i cui benefici dureranno secoli, applicandone gli effetti a poche persone mentre, in effetti, interesseranno nel tempo milioni e milioni di persone; facendo calcoli di ritorni finanziari impossibili ed improbabili mentre quello che interessa sono i ritorni economici di lungo periodo, il modo e la misura con cui queste opere e questi investimenti influenzeranno la produttività e quindi la redditività dell'intero sistema nel quale vengono calati. L'ANALISI TORNARE AL PORTO I l progetto di Renzo Piano, che esprime una importante visione per il futuro della città di Genova, un sogno, ma un sogno molto concreto e preciso, non interessa solo i genovesi. Come è di tutti i progetti complessi esso richiederà molte analisi, valutazioni non semplici, approfondimenti, progetti particolari, contributi di molti specialisti, aggiustamenti, adattamenti. Ma esso può sin d'ora essere discusso e valutato nella sua essenza, nel suo significato, nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi di fondo. Negli anni '70 l'aspetto che mi colpì fu che nella classe dirigente genovese il porto era totalmente assente. Sembrava rimosso... La svolta comincia nel periodo 1984-86, quando Genova decide di ripensarsi intorno al suo porto, di liberare il suo porto dall'"assetto di morte". Esiste oggi una Genova che possa prendere sul serio un progetto sfidante come quello di Piano? MARCO VITALE* L'unico genovese eminente che diceva pubblicamente che il futuro di Genova era il porto era l'arcivescovo Siri, quel Siri che proprio il 25 agosto 1978 era stato in lizza per l'elezione a Papa, come candidato dei conservatori, in contrapposizione al patriarca di Venezia, Albino Luciani. Ricordo ancora nitidamente una sua lucidissima intervista sul Secolo XIX dal grande titolo: "Il futuro di Genova è nel porto". Ma la forza sindacale, la "corruzione morale ed intellettuale" alimentata dal denaro pubblico, e la viltà, bloccavano il porto che regrediva continuamente di fronte ai "nuovi" porti, e, con il porto, affondava l'intera città. I rubinetti dell 'operaismo assistito, con la sua nequizia e la sua retorica, si chiusero. Si chiusero i rubinetti dell'Iri che smise di staccare ogni anno un assegno di 1.300 miliardi di lire solo per l'Italsider. Si chiuse il rubinetto del governo per il porto o meglio i fondi che il governo era ancora disposto a mettere a disposizione del porto vennero condizionati ad un effettivo risanamento (grande merito storico del governo Craxi). E poi venne il 31 maggio 1984 quando il presidente-manager del Cap, il "furestu" (fiorentino formatosi in Lombardia) Roberto D'Alessandro, voluto da Craxi, presentò all'assemblea generale un piano di risanamento, riorganizzazione e rilancio del porto di Genova detto il Libro Blu, messo a punto con l'aiuto di una società di consulenza milanese. L'importanza storica di questo documento mi fu subito chiara, perché rimetteva il porto al centro del futuro della città; perché i contenuti tecnici erano ineccepibili; per lo spessore culturale e il coraggio che lo animava; per il linguaggio efficace e coinvolgente; per il metodo sfidante. Tutte le componenti della città (e con loro, secondo la lungimirante legge istitutiva n. 50 del 1903, le Province, i Comuni e le Camere di commercio di Milano e Torino; era dunque ben chiaro al legislatore del 1903 che la questione del porto di Genova non era solo una questione dei genovesi!) erano chiamate ad una precisa ed esplicita presa di posizione ed assunzione di responsabilità. Fu una svolta culturale storica per la città. Io ne capii subito il significato e salutai l'evento con un articolo sul Sole 24 Ore del 22 giugno 1984, dal titolo: "Un assetto di vita per non affondare"; formai un gruppo di studio in Bocconi che, per oltre due anni, seguì l'evoluzione della vicenda facendone un caso di studio ed insegnamento per il corso che allora tenevo in quell'Università, nell'ambito del quale vennero a testimoniare sia D'Alessandro che un vice-console della Compagnia unica; la stampa nazionale iniziò a seguire la vicenda con grande attenzione, affiancandosi alla stampa locale e giocando, insieme, un ruolo determinante (memorabili gli articoli di Giorgio Bocca su Repubblica) . Ma soprattutto iniziò nella città un duro ma aperto, civile e pubblico confronto, che il Libro Blu ebbe la forza di tenere ancorato ai fatti e di rendere trasparente, che si chiuse il 27 gennaio 1987, quando la Compagnia unica dei lavoratori portuali accettò definitivamente, sia pure con riserva, il nuovo corso per evitare il commissariamento del porto. Fu un grande travaglio, un difficile parto, una svolta culturale, politica e civile di grande difficoltà e significato. È emozionante rileggere ora la documentazione del periodo 1984- 86 che è raccolta in un volume. Tutto ricomincia da lì, da quando Genova decide di ripensarsi intorno al suo porto, di liberare il suo porto dall'"assetto di morte" e scegliere un "assetto di vita". È da lì che ricomincia una graduale ma sicura crescita del porto, sia nella componente merci che persone, e di tutte le attività indotte (una ricerca Ilres, finanziata dalla Camera di Commercio, dimostrò che erano 41.000 le famiglie il cui reddito era legato all'attività del porto), e quindi della città. Lo sviluppo dell'Acquario con la riscoperta, anche in concomitanza delle Colombiadi 1992, di una vocazione turistica della città; la bellissima ed efficacissima riqualificazione del Porto antico; l'importante ricupero del centro storico; la ricostruzione e riapertura del Carlo Felice; l'inserimento del tratto Genova-Milano nei programmi per l'alta velocità dovuto all'ostinazione ed all'impegno profuso dalla Regione Liguria contro l'ostilità dei vertici delle Ferrovie della quale porto personale testimonianza; l'apparire di nuovi simboli come il Bigo di Piano; il G8 del 2001 che, a prescindere dal modo folle con cui è stato gestito sotto il profilo della sicurezza, rimette Genova al centro dell'attenzione del mondo; il 2004 con Genova Capitale europea della cultura e che lascerà come arricchimento permanente varie cose, ma soprattutto l'importante Museo del Mare di prossima apertura. Tutto questo e molte altre cose segnano un chiaro tragitto di rinascita della città della Lanterna, che prende le mosse dalla svolta culturale del 1984-1986. (1 / continua) È dalla svolta culturale del 1984-86 che parte il tragitto di apertura e arricchimento: passa per Colombiane, G8 e 2004 LA RINASCITA Breve storia di una città che aveva voltato le spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 1 Piano e l'utopia possibile rimettere Genova sul mare Il progetto di Renzo Piano esprime una importante visione: è un sogno concreto, che non interessa solo i genovesi Invano dicevo agli amici genovesi che il futuro è nel porto. Mi guardavano con benevolenza come si guarda un matto Il progetto di Renzo Piano per Genova, sul quale il Secolo XIX ha aperto da tempo un dibattito, suscita interesse anche al di fuori della Liguria per i riflessi che avrebbe sull'economia di tutto il Nord Italia. Marco Vitale è un economista lombardo: si autodefinisce "furestu", straniero, ma in realtà ha lavorato a Genova dal '78 all'86, gli anni della crisi. Forte di quella esperienza ha dedicato al progetto una approfondita analisi, che pubblichiamo in due puntate. Nell'articolo di oggi ripercorre le scelte infelici del passato, che hanno ridimensionato il ruolo del porto, come fosse un corpo estraneo alla città. Ma sottolinea anche le intuizioni che hanno anticipato la rivoluzione di Piano. Nella seconda parte entrerà più in dettaglio nel progetto. Il progetto di Renzo Piano, che esprime una importante visione per il futuro della città di Genova, un sogno, ma un sogno molto concreto e preciso, non interessa solo i genovesi. Come è di tutti i progetti complessi esso richiederà molte analisi, valutazioni non semplici, approfondimenti, progetti particolari, contributi di molti specialisti, aggiustamenti, adattamenti. Ma esso può sin d'ora essere discusso e valutato nella sua essenza, nel suo significato, nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi di fondo. Io credo che possa essere utile in questa valutazione proiettarlo in una prospettiva storica arricchita da qualche ricordo recente, per cercare di capire a quale città Renzo Piano intende rivolgersi o spera di rivolgersi. Esiste una Genova che possa prendere sul serio un progetto così sfidante? Questa è la prima domanda da porsi. Facciamoci guidare nel tentare una risposta, innanzi tutto, da un grande storico, che non solo ha capito ma ha amato Genova: Fernand Braudel. Con poche parole il grande storico sintetizza tutto quello che conta: «Genova, con le due riviere di Ponente e di Levante, costituisce uno spazio estremamente ridotto. Secondo una relazione francese (del 1692), i genovesi dispongono di circa trenta leghe lungo la costa, partendo da Monaco e arrivando fino al territorio di Massa, e di sette o otto leghe di pianura dalla parte del Milanese. Il resto è un sipario di montagne sterili». Braudel sottolinea che la città è in situazione difficile sia dalla parte della montagna che dalla parte del mare: «La posizione geografica, apparentemente protettiva, rende indifesa la città: l'assalitore proveniente dal Nord sbocca, infatti, al di sopra di essa... Genova è altrettanto vulnerabile dalla parte del mare. Il suo porto si affaccia sul mare aperto, che non appartiene a nessuno e dunque è di tutti... Al servizio di Genova non c'è un "mare nostrum" come l'Adriatico per Venezia, né c'è una laguna per proteggerne l'accesso... La debolezza di Genova è, lo ripetiamo, congenita; la città e i suoi sobborghi non possono vivere senza fare ricorso al mondo esterno.. E questo non è che uno dei paradossi di questa strana città, tanto svantaggiata e tuttavia, prima e dopo il "suo" secolo, tesa a puntare ai vertici della vita internazionale degli affari. Una città che, a mio giudizio, è sempre stata a misura del suo tempo, la città capitalista per eccellenza». Genova ha, per la maggior parte del trascorso millennio, giocato tanti ruoli diversi ma quasi sempre ai vertici dell'economia mondo. A partire dai lunghi secoli nei quali le sue navi dominano nel Mediterraneo ed aprono le prime rotte del Nord (a partire dal 1295 Genova ha stabilito il primo collegamento marittimo diretto e regolare fra il Mediterraneo e il Mare del Nord) e i suoi mercanti hanno insediamenti ovunque, vera e propria multinazionale cittadina ante litteram; da quando i suoi fratelli Vivaldi si lanciano coraggiosamente al di là di Gibilterra (1291) cercando la via che Vasco de Gama troverà due secoli dopo. E poi nel secolo dei genovesi ("El siglo de los Gen o v e s e s " ) quando i suoi mercanti banchieri diventano "gli arbitri dei pagamenti e delle operazioni finanziarie europee". E quando, dopo i secoli oscuri della lunga depressione italiana, il Paese inizia una nuova rinascita, Genova è pronta all'appuntamento e nel corso dell'800 ritorna ad essere uno dei motori più attivi della Penisola. All'epoca dell'invenzione della navigazione marittima a vapore essa creerà un'industria e una forte marina moderna; nel corso del Risorgimento sarà un soggetto chiave tanto da far dire a uno storico italiano (Carmelo Trasselli), forse un po' esagerando: «Genova ha fatto l'unità d'Italia e l'ha fatta a proprio vantaggio» (anche la costituzione della Banca d'Italia sarà in buona parte opera sua); e quando tra la fine dell'800 ed i primi dieci anni del '900 decolla il processo di industrializzazione del Paese, Genova è tempestiva all'appuntamento e diventa una delle tre punte del triangolo magico nel quale si costruisce l'industrializzazione del Paese. I risultati di Genova ed il suo ruolo importante nella storia del Paese, dell'Europa e dell'economia mondo è fuori discussione. E questo è stato possibile grazie ad un continuo processo di riconversione, di mutamenti, di adattamenti opportunistici. I risultati sono sempre stati legati a un continuo processo di riconversione e di adattamenti. Anche a prezzo di acrobazie I CAMBIAMENTI «Questo risultato - dice Braudel - è stato conseguito a prezzo di acrobazie. D'altra parte a Genova tutto è acrobazia... È l'eterno problema di Genova che vive e deve vivere in agguato, condannata a rischiare e al tempo stesso a essere particolarmente prudente. Ne derivano successi favolosi o fallimenti catastrofici... Genova ha cambiato rotta più volte, sempre accettando la necessaria metamorfosi... Mostro di intelligenza, e talvolta di durezza, Genova è condannata ad impadronirsi del mondo o a non esistere». Genova, dunque "condannata" a uscire dai suoi spazi fisici, psicologici, culturali per essere parte dell'economia mondo e della cultura mondo; Genova condannata a navigare in mare aperto; Genova condannata a fare acrobazie. Quando, stanca come capita ogni tanto di esserlo a persone città paesi, si ritrae in se stessa, cerca di tagliare i legami col mondo, vuole riposare, vuole godersi quel mare e quella natura mirabile da pensionata, vuole liberarsi da quei "furesti" che l'assillano («Se passu intu mei paise u vegu cin dei furesti che nu cunusciu, tantu che mi me paresciu u ciu furestu de tuti») allora, alimentando l'illusione di stare ferma, di serbare quello che ha accumulato, si accorge che regredisce spaventosamente, che affonda, che diventa qualche cosa in conflitto con la sua storia, qualcosa che diventa incomprensibile a tutti quelli che sanno quanta intelligenza, quanta cultura, quanta capacità è depositata sotto i suoi tetti e che rischia di perdere tutto. Mi è capitato di vivere intensamente Genova, per ragion professionali, in uno dei suoi periodi più grigi e depressi, dal 1978 al 1986. E poi di continuare a seguirne l'evoluzione, più da lontano ma sempre con attenzione, dal 1986 ad oggi. La situazione della città negli anni '70 verrà sintetizzata da un esperto giornalista, intervistato da un gruppo di ricerca della Bocconi nel 1986, con queste condivise parole: «Genova è una città che da 10 anni va allo sfascio; da un punto di vista urbanistico, da un punto di vista culturale, da un punto di vista economico. Da un punto di vista imprenditoriale la logica che ha governato l'attività portuale è risultata mortale». Io ero allora impegnato nel risanamento di un grande gruppo genovese con attività diversificate ma con l'attività principale nel settore armatoriale, persone e merci. Quello che mi colpì nei primi anni di quel periodo (1978-1986) furono due aspetti principali. Il primo aspetto fu la totale mancanza di solidarietà e di aiuto da parte di Genova in un processo di risanamento di un gruppo che, per la sua rilevanza, non poteva non interessare tutta la città. Noi, lombardi, eravamo consapevoli che, pur trattandosi di un'operazione privata, stavamo facendo qualcosa di rilevanza pubblica e trovammo aiuto e comprensione in altre persone e enti lombardi o di altre regioni. L'unico genovese, anzi ligure, che, consapevole dell'importanza generale della vicenda, ci diede un grande aiuto, sia finanziariamente che soprattutto di idee, esperienza, tenacia, coraggio, contatti, fu Angelo Ravano. Frequentando allora quel geniale e generoso imprenditore ligure imparai da lui tutto quel poco che so di portualità. Fu lui a spiegarmi che i notabili genovesi non avevano mai capito nulla della rivoluzione dei container tanto da essere stato costretto ad emigrare nei mari del Nord; che i sindacati portuali genovesi avevano deciso di soffocare il porto di Genova e che sino a che avessero comandato loro, anche grazie alla viltà degli imprenditori genovesi, non c'era niente da fare; che lui aveva fatto l'investimento in un terminal container a La Spezia perché lì si poteva organizzare il lavoro in modo moderno ed efficiente; che il porto emporio era finito e stava per essere sostituito dal porto transito inserito in una catena logistica di un servizio door to door nella quale il porto non è più il centro ma è solo uno degli anelli di un complesso ingranaggio; che i terminal container e gli attracchi specializzati devono essere sganciati dai centri storici, e contare su vie d'accesso privilegiate. Fu lui a insegnarmi, con l'esempio, che al pessimismo e talora al sarcasmo della ragione bisogna sempre contrapporre se non l'ottimismo della volontà il semplice dovere del fare. L'altro aspetto che mi colpì fu che nella classe dirigente genovese il porto era totalmente assente. Sembrava rimosso. Di tutto si parlava meno che del porto (fu nel corso di quel periodo che, mi sembra, Prodi, presidente dell'Iri, lanciò lo slogan della "Silicon Valley" genovese, per mascherare il disastro delle partecipazioni statali). Invano mi scaldavo con gli amici genovesi dicendo: il futuro di Genova è nel porto, è nel mare. Mi guardavano con benevolenza come si guarda un matto. Sono opere giuste o sbagliate? Sono opere la cui durata si misura in anni, decenni o secoli? Sono opere che toccano e toccheranno migliaia, centinaia di migliaia o milioni di persone? Sono opere che aumentano o diminuiscono la produttività del sistema? Sono queste le domande centrali da porsi, invece di incominciare a dire che non ci sono i soldi. I soldi non ci sono mai nel cassetto di qualunque comunità bene amministrata. Infatti non si devono trovare i soldi ma la copertura finanziaria nell'arco di tempo appropriato. Ma quando le risposte alle domande di cui sopra sono positive, allora la copertura finanziaria la si trova sempre, prevalentemente nel progetto stesso e nei suoi effetti, con un mix appropriato di fondi pubblici, di copertura di mercato, di partecipazione all'investimento di fornitori, ponendo in relazione i futuri ricavi con i rimborsi e con l'ausilio di tutti gli strumenti finanziari rapportati al mercato finanziario internazionale che è immenso; comprando insomma, il tempo, il che è l'essenza della finanza. Nel 1815 la Francia aveva i conti pubblici in ordine mentre l'Inghilterra aveva un debito pubblico superiore al Pil. Ma l'Inghilterra aveva battuto Napoleone e si accingeva dar vita al suo grande secolo. Naturalmente anche sotto questo profilo il progetto Piano va valutato con molta cura. Ma il lungo arco di tempo previsto per la sua realizzazione, il fatto che alcune componenti importanti sono sicuramente autofinanziabili con i proventi futuri, che alcune altre parti sono finanziabili direttamente da privati interessati, che il suo costo globale (sembra elevato se considerato in se stesso) tale non è se lo paragoniamo ad altre grandi opere, o ad alcuni grandi sperperi che si stanno commettendo oggi in Italia nell'ambito di investimenti come l'Alta Velocità ed in alcune spese correnti, o ai grandi buchi serenamente assorbiti dal sistema bancario nazionale e internazionale. Tutto ciò permette di concludere che la quadratura economica e finanziaria del progetto appare ragionevolmente possibile. Piuttosto la domanda più inquietante e difficile l'ha posta Vincenzo Tagliasco dell'Università di Genova su "Il Secolo XIX" del 27 maggio: "Piano ha prospettato una Genova meravigliosa, protesa sul mare. Tuttavia sorge spontanea la domanda: per quali abitanti, per quali categorie di persone o cittadini viene progettata Genova nuova?". E' una domanda che si ricollega a quella che facevo io all'inizio: a quale città si rivolge Piano? Esiste una Genova che possa prendere sul serio un progetto così sfidante? Se si guardano le statistiche demografiche si è portati a dare una risposta negativa: i residenti in tutta la Liguria erano 1.676.281 nel censimento '91 e sono scesi a 1.570.004 nel 2001; a fine 2002 il comune di Genova aveva solo 604.732 residenti e la provincia solo 873.604. In Liguria gli oltre sessantacinquenni sono il 25% della popolazione residente contro il 18,2% della pur vecchia Italia e l'età media è di 46,6 anni contro il 41,6 dell'Italia. E mentre il Paese con un tasso di fecondità dell'1,24% si colloca all'ultimo posto in Europa (media 1,47), la Liguria (1,05) si colloca sotto la pessima media italiana. E' chiaro che non è a questa Genova che si rivolge il progetto Piano, ma a una città che brucia sotto la cenere, affiorante peraltro con sempre più chiara evidenza, che vuole un forte rilancio, che sente di poterlo esprimere anche alla luce della capacità di "urban regeneration" realizzata con successo da Genova negli ultimi dieciquindici anni, anche grazie ad una buona capacità di lavoro comune delle varie istituzioni. E poi il progetto non si rivolge solo a Genova ma, almeno, a tutto il Nord Italia. Proporre un progetto così alla Genova degli anni '70 sarebbe stato demenziale. Ma non alla Genova di oggi, dopo il buon lavoro fatto negli ultimi quindici anni. Ecco perché è essenziale calare questo progetto in tutto quello che di buono è stato fatto negli ultimi anni, nelle tante "acrobazie" della storia genovese e nelle grandi possibilità del futuro. Il progetto si rivolge ad una Genova che non c'è ancora in modo compiuto, ma per il quale esistono solide tracce e fondamenta. Una città che, ricuperato un rapporto ed una proiezione positiva con il suo mare ed il suo porto, sta scoprendo di trovarsi all'incrocio di forti tendenze vincenti per il prossimo futuro: traffici marittimi, turismo, cultura, scienza e informazione, industrie qualificate E' a questa città in formazione, chiamata ad una nuova "acrobazia", che si rivolge il progetto-sfida di Piano. Certo molte altre cose andranno fatte, certo tanti nuovi collegamenti andranno allacciati, certo la collaborazione con Milano e Torino andrà rafforzata in un rinnovato triangolo. Allora i giovani resteranno e si sposeranno a Genova ed altri giovani di qualità verranno dal mondo ed anche gli indici demografici pian piano si invertiranno. Nei grandi progetti non bisogna mai pretendere che tutto sia a posto prima di partire. Basta essere ragionevolmente certi che la rotta è giusta e crederci, come Cristoforo Colombo. Come ha scritto Saint-Exùpery ("Vol de nuit") in un passo che ho sempre amato anche perché tante volte ne ho verificato la profonda verità: "Dans la vie, il n'y a pas des solutions. Il faut les créer et les solutions suivent". Breve storia di una città che aveva voltato le spalle alle banchine e si trovò in ginocchio / 2 Piano chiede a Genova un'altra "acrobazia" storica Il progetto di Renzo Piano è geniale ma non astratto. E' semplice, limpido, realistico, coerente con la storia e gli sviluppi più recenti La sfida non si rivolge alla metropoli attuale, ma a quella non ancora compiuta che sta scoprendo d'essere crocevia di forti tendenze vincenti Nella prima metà del '92 il comitato scientifico della associazione dei laureati Sda-Bocconi, propose come tema di studio per l'anno la rifondazione della vita urbana in alcune città italiane. Su mia proposta, quale presidente del comitato, tra le città oggetto di studio fu inserita Genova (accanto a Milano, Palermo, Bari). Ne uscì una serie di incontri e di analisi di grande interesse, poi raccolti nel volume "Quale progetto per la città", a cura di Luigi V. Majocchi e Marco Vitale (edito da Il Sole 24 Ore Libri 1983). Con l'aiuto di un imprenditore genovese e dell'onorevole Giacomo Gualco, già presidente della Giunta della Regione Liguria, ricostruimmo i tratti caratteristici del grande sforzo in atto per traghettare Genova da una fase di recessione-stagnazione ad un nuova fase di recupero e di nuovo sviluppo. Vale la pena di ricordarne i punti chiave, attualizzandoli. Tra i punti di crisi emersero soprattutto questi aspetti. Ciclo demografico: problema ancora oggi aperto. Chiusure e calo dell'industria pesante tradizionale (siderurgia, cantieristica, meccanica pesante): il trend è in continua progressione, ma con attenuazione della Iridipendenza che era allora dominante con l'effetto di indirizzare "le principali energie in termini di rivendicazione nei confronti dell'Iri, piuttosto che di ricerca di nuove alternative". (Il tasso di disoccupazione era allora del 10-12%, un'anomalia tra le città del Nord). Lentezza con cui si realizzava il ricupero delle attività portuali, con sopravvivenza di posizioni di rendita nonostante la svolta del 1984-86 e le provvide iniziative di un parlamentare lombardo, l'onorevole Pedini, a favore della portualità quando resse bene il rispettivo dicastero: la situazione è da allora molto migliorata, anche alla luce del ricupero generale della portualità italiana, ma per realizzare un nuovo salto è necessario ora investire in strutture fortemente innovative. Il degrado del centro storico: qui il miglioramento realizzato dal 1992 ad oggi è stato molto importante. Il problema del traffico e delle strutture infrastrutturali urbane ed extraurbane per liberare la città: qui è tutto o quasi ancora da fare. Il mancato avvio di un progetto di reindustrializzazione con nuove attività industriali leggere: questo tema molto importante fu formulato dall'onorevole Gualco, in questi termini: "Tra le strategie che Genova sta mettendo in atto per rilanciare la propria economia ha sicuramente un posto importante la reindustrializzazione. La chiave di questo progetto è il recupero e il risanamento delle aree del Ponente genovese. L'obiettivo è quello di utilizzare una parte delle aree lasciate libere dalle aziende "mature" per introdurre nuove forme di industrializzazione avanzata e pulita, una industrializzazione compatibile e integrabile con attività terziarie direzionali o ad alto contenuto tecnico e scientifico". E' in questa prospettiva che ho valutato il progetto Waterfront presentato da Renzo Piano. Ho letto che esso è stato definito da qualcuno "un progetto geniale". E geniale lo è. Ma questa qualificazione mi sembra pericolosa. Perché può evocare qualcosa di geniale ma di astratto, di staccato dalla realtà, uno di quei colpi di genio che i grandi architetti amano esprimere, affascinati dalla bellezza delle loro idee e delle loro fantasie. A me invece, il progetto Piano è parso entusiasmante proprio perché è semplice, limpido, realistico, coerente sia con la storia che con gli sviluppi recenti di Genova, che ho cercato di riassumere. Non è un colpo di genio; è frutto di una lettura onesta, colta ed intelligente del territorio e della città e della sua storia e di una introspezione della sua forza interna che potrebbe esplodere. Le idee chiave del progetto che mi sembrano più interessanti sono: puntiamo sul porto, puntiamo sul mare. Se questo è sempre stato vero per Genova, è ancora più vero oggi che, grazie soprattutto a Gioia Tauro (tanto stoltamente combattuta dai genovesi; ancora una volta sia lode ad Angelo Ravano) il trasporto marittimo nel Mediterraneo è stato oggetto di un grande rilancio, che è solo all'inizio. Oggi l'Italia è al secondo posto in Europa per quantità di merce trasportata per via marittima dopo il Regno Unito e prima dei Paesi Bassi, ed al primo posto per trasporto passeggeri via mare. Ma bisogna investire in modo importante nel porto con strutture moderne e funzionali. Se è vero che Genova è sempre stata soffocata dalla limitatezza del territorio, e che questo è sempre stato uno dei suoi maggiori problemi, allora liberiamo parte del territorio, portando sul mare quello che si può portare sul mare. L'INVERSIONE In passato i genovesi hanno cercato di sfuggire alla limitatezza del territorio cercando di creare insediamenti oltre l'Appennino. Non sono mai stati un successo. Oggi i progressi della tecnologia e delle tecniche costruttive rendono possibile soluzioni che, in passato, erano impensabili. Perciò l'idea di portare sul mare l'aeroporto ed altre attività è più di un colpo di genio. E' una cosa giusta ed oggi possibile. E dunque auspicabile. Genova ed il suo porto sono soffocati dal problema del traffico e dei trasporti urbani ed extra urbani, e se il porto deve ulteriormente svilupparsi questo grande collo di bottiglia va affrontato e rimosso. Ma questo fondamentale passaggio non è possibile senza un ridisegno forte dell'intero frontemare che risistemi le sedimentazioni storiche, secondo un piano razionale, funzionale ed attuale. Del resto, se non vado errato, questo era uno dei compiti dell'Agenzia del Piano costituita nel '96 per sviluppare un approccio metodologico integrato dei temi urbani, portuali, trasportistici. La liberazione di aree ed il ridisegno funzionale del fronte mare sono anche propedeutici allo sviluppo di attività industriali nuove e, comunque, legate al porto, completando il disegno di sviluppo basato su attività marittime e portuali, turismo, servizi specializzati, cultura scienza e formazione, anche con una linea di reindustrializzazione. Se questi sono i pilastri del progetto, è difficile pensare a serie obiezioni al suo disegno di fondo, E, in effetti, finora non ho letto obiezioni forti. La più verosimile è che si tratta di investimenti troppo rilevanti, ancorché diluiti su 18 anni, per cui ho sentito ed ancora sentiremo il consueto: non ci sono i soldi! Ma questo l'abbiamo sentito dire per la sanità, per la scuola, per la benzina della polizia stradale, per le fotocopie del palazzo di giustizia. Nel 1869 William Seward, segretario di Stato di Lincoln, comprò l'Alaska dalla Russia pagandola 7,5 milioni di dollari. Fu violentemente e largamente contestato dai tanti che trovavano il prezzo troppo caro ed accusavano Seward di rovinare le finanze pubbliche, tanto che si diffuse il modo di dire: "un affare alla Seward" per significare un pessimo affare. Seward fu tanto umiliato ed addolorato che, dopo poco, morì di crepacuore. Qualcosa di simile era successo quando, nel 1803, il presidente Jefferson comprò da Napoleone la Luisiana: un milione di miglia quadrate, una ricca distesa di pianure che nei decenni successivi diventeranno uno dei principali granai del mondo, il controllo di tutto il sistema fluviale della parte centrale del continente e l'importantissimo porto fluviale di New Orleans: il tutto per 15 milioni di dollari. Ma Jefferson non osò affrontare i benpensanti del Congresso e chiudendo l'operazione senza il consenso dello stesso "tese la Costituzione fino a spezzarla". Questi episodi sono uno dei migliori esempi (ma ce ne sono tanti altri) dell'assunto che il normale buonsenso economico e finanziario è non solo errato ma deleterio quando si tratta di valutare il significato economico di grandi investimenti pubblici. Siamo, in generale, portati a valutare queste operazioni con gli stessi parametri che applichiamo ai piccoli affari privati, proiettando su un arco di tempo irrealisticamente corto (20-30 anni) opere la cui durata ed i cui benefici dureranno secoli, applicandone gli effetti a poche persone mentre, in effetti, interesseranno nel tempo milioni e milioni di persone; facendo calcoli di ritorni finanziari impossibili ed improbabili mentre quello che interessa sono i ritorni economici di lungo periodo, il modo e la misura con cui queste opere e questi investimenti influenzeranno la produttività e quindi la redditività dell'intero sistema nel quale vengono calati.
- Prev by Date: Maledetta globalizzazione
- Next by Date: insicurezza e crisi sociale
- Previous by thread: Maledetta globalizzazione
- Next by thread: insicurezza e crisi sociale
- Indice: