dinamiche assistenziali in europa



il manifesto - 23 Giugno 2004


La rete smagliata del welfare

«Le dinamiche assistenziali in Europa», un volume curato da Chiara Saraceno
per il Mulino

GIULIO DAL MAGRO
LUIGI SAMPAOLO

Le politiche pubbliche di assistenza economica verso chi si trova in
situazioni di povertà determinano dipendenza e pigrizia tra i beneficiari?
Hanno ragione quanti sostengono (anche a sinistra) che occorre passare a
politiche di welfare to work (assistenza verso il lavoro) che obblighino i
beneficiari a «guadagnarsi» l'assistenza ricevuta? Anche Anthony Giddens,
del resto,uno dei consiglieri-ispiratori di Blair e della sinistra liberal
europea, sostiene che tra le ragioni che imporrebbero la riforma del welfare
c'è la tendenza delle misure troppo generose di assistenza a creare
dipendenza negli assititi... A rispondere a queste domande e a queste
tendenze prova il libro Le dinamiche assistenziali in Europa (edito da il
Mulino, collana Studi e Ricerche, pp. 280, ? 19), curato da Chiara Saraceno
in collaborazione con un gruppo di ricercatori di diversi paesi europei,
mettendo a confronto «sistemi nazionali e locali di contrasto alla povertà»,
scelte politiche e modalità operative di assistenza economica sulla base di
una ricerca che ha coinvolto tredici città (fra cui Milano, Torino e
Cosenza) in sei paesi europei.

E' vero, dice Saraceno, che nelle città dove esistono importanti fenomeni di
economia informale e lavoro nero vi sono rischi di dipendenza assistenziale,
soprattutto dove questa non sia oggetto di stigmatizzazione sociale. E'
altrettanto vero, tuttavia, che la categoria di assistiti cresciuta
maggiormente negli ultimi anni è quella dei «poveri abili», soggetti
particolarmente deboli sul mercato del lavoro che si trovano in una
condizione di disoccupazione indipendentemente dalla propria volontà.

Per questa come per le altre categorie a rischio (anziani, madri sole,
bambini) un sistema di assistenza troppo selettivo nei criteri di accesso ai
benefici e misero nell'entità delle prestazioni comporta la creazione di un
ghetto per casi disperati. Aspettare che l'individuo sia ormai «al limite»
per erogare l'assistenza impedisce infatti di intervenire quando la
situazione non è ancora completamente degradata e le possibilità di
reinserimento sociale e lavorativo risultano maggiori; allo stesso modo,
benefici economici di ammontare ridicolo (300mila lire l'anno nella città di
Cosenza, all'epoca della ricerca) non possono spezzare la spirale di
dipendenza nella quale si trovano gli assistiti.

A conferma di questa tesi viene analizzato il caso svedese, dove a livelli
di prestazioni economiche più generosi sono associate durate di permanenza
nei programmi di assistenza minori rispetto a quelle di paesi con sistemi
più «avari», come il Portogallo.

L'assistenza, fa notare Saraceno, non può e non deve comunque limitarsi alla
distribuzione di fondi, ma prevedere misure di reinserimento sociale e
lavorativo per il beneficiario. Le modalità con cui vengono strutturate tali
misure ne influenzano ovviamente l'efficacia; è chiaro che se le misure
vengono organizzate più per controllare i beneficiari (ad esempio perché non
lavorino in nero) che non per arricchirne effettivamente il bagaglio
professionale e sociale, la loro utilità si riduce enormemente e determina
negli assistiti frequenza passiva (per evitare le sanzioni) piuttosto che
autentica attivazione.

L'Italia è un caso a parte: il 14 per cento degli italiani è povero, il 5
per cento poverissimo e cresce il fenomeno della povertà minorile.
Nell'Unione Europea il nostro paese è l'unico, insieme alla Grecia, a non
avere una misura nazionale che garantisca un reddito minimo ai cittadini,
come richiesto dalla raccomandazione 92/441/Cee.

Il centrosinistra aveva sperimentato, su scala ridotta in alcune aree del
paese, il «Reddito Minimo di Inserimento» (una misura comunque limitata,
tesa a garantire un minimo fino a 270 euro al mese); il passo successivo
prevedeva l'allargamento del beneficio a tutto il territorio nazionale.
Costo stimato del provvedimento: 2-3 miliardi di euro l'anno nella versione
proposta dal centrosinistra, 6 nella versione più avanzata proposta dalla
«Campagna Sbilanciamoci». Il governo di centrodestra, con la finanziaria
2004, ha soppresso questa misura per sostituirla con una dalle
caratteristiche ancora indefinite e dal nome vagamente iettatorio, il
reddito di ultima istanza. In compenso il programma del Polo prevede sgravi
fiscali che potrebbero comportare, solo considerando i redditi oltre i
100mila euro, minori entrate per lo stato per oltre 5 miliardi l'anno.



INTERVISTA

Stati di massima insicurezza

La crisi del welfare state lascia dietro di sé una moltitudine di uomini e
donne che non hanno niente altro da vendere che la loro forza-lavoro. Ma la
cancellazione dei dispositivi di protezione sociale conduce il capitalismo
sul baratro di una irreversibile crisi sociale. Un'intervista con lo
studioso Roberto Castel
BENEDETTO VECCHI

Arrivare alla Bicocca di Milano ha un effetto straniante, perché sembra di
essere catapultati nel videogioco «SimCity». Strade tutte uguali, così come
sono una uguale all'altra le abitazioni che hanno preso il posto delle case
del vecchio quartiere operaio nato attorno alla fabbrica della Pirelli tra
la fine Ottocento e i primi decenni del Novecento. Costruite tutte a nido
d'ape, fluttuano su di un enorme cantiere di un centro commerciale che
dovrebbe fornire un po' dei servizi di cui il quartiere al confine di Sesto
San Giovanni è sprovvisto. E proprio come in SimCity, il polo settentrionale
di sviluppo urbano segue solo una logica: costruire case e poi pensare ai
servizi. Chi osserva tutto con curiosità è Robert Castel, invitato dal
Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale della Bicocca per presentare
l'ultimo suo libro - L'insicurezza sociale, Einaudi, pp. 100, ? 12 - e
discuterlo con Ota de Leonardis, Giovanna Procacci e Costanzo Ranci. Castel
è un signore placido, con due occhi che scrutano la realtà alla ricerca di
increspature sulla superficie liscia delle rappresentazioni sociali
dominanti. Parla piano, centellinando le parole, perché è uno studioso che
ama lavorare con le contraddizioni dei fenomeni sociali e i paradossi cui
danno vita. E da una contraddizione parte l'intervista.

In questo suo ultimo libro, lei sostiene che nelle società moderne è da
sempre vigente una contraddizione: più si è sicuri, più ci si sente esposti
alle intemperie sociali. Cosa intende?

Per prima cosa va posto un elemento analitico preliminare che riguarda il
rapporto tra insicurezza e protezione. Sono due espressioni che hanno un
legame di complementarietà, perché è difficile che la manifestazione di un
sentimento di insicurezza, quasi sempre personale, si riveli antagonista
rispetto a un sistema di protezione, quasi sempre collettivo. Nel lontano
passato, la protezione era assicurata dall'affiliazione a una corporazione o
dalla sudditanza a un signore locale. Il discorso cambia con le feroci
guerre civili seicentesche. Il concetto di sovrano e di stato elaborati da
Thomas Hobbes possono essere dunque interpretati anche come la risposta alla
crisi dei sistemi di protezione fino ad allora dominanti. Lo stato, allora,
diventa lo strumento di una nuova concezione della protezione, che viene
delegata dalla società al sovrano. Con Locke questa nuova concezione della
protezione si arricchisce con la sacralità della proprietà privata. Se si
possiede qualcosa, si è meno esposti all'ignoto, perché si possiedono i
mezzi per fronteggiarlo.

Per quanto riguarda l'epoca attuale, va detto che il sentimento di
insicurezza mantiene un rapporto travagliato, contraddittorio con i sistemi
di protezione. In sintesi, direi che oramai esistono diffusi dispositivi di
protezione sociale, ma individualmente spesso li percepiamo incapaci di far
fronte a un domani che si annuncia peggiore del presente. Il paradosso è che
la richiesta di maggior sicurezza può avvenire solo all'interno di società
che pongono la protezione come uno degli obiettivi primari dell'azione
pubblica.

La protezione sociale nelle società capitalistiche ha un nome ben preciso:
welfare state. Lei offre una descrizione lineare del suo sviluppo, quasi
fosse il naturale esito dello stato moderno fino a quando si verifica una
cesura, un elemento di crisi. Questo discontinuità è presente anche nel suo
precedente lavoro, «Métamorphos de la question sociale». Quali sono gli
elementi che contribuiscono a questa cesura?

Il welfare state è il risultato di un lungo e travagliato periodo di
modernizzazione della realtà europea che ha nel vecchio continente e negli
Stati uniti il suo apice nei trenta anni che seguono la fine della seconda
guerra mondiale. Negli anni Settanta, il capitalismo conosce però una crisi
che non ha nulla dell'occasionale, né del contingente. Da quel momento in
poi abbiamo assistito a una radicale metamorfosi del capitalismo industriale
che prende il nome di mondializzazione. Lo sviluppo capitalista ha sempre
avuto una vocazione mondiale, ma si è manifestato sopratutto all'interno di
una cornice nazionale. Vorrei dunque sottolineare che uno dei primi effetti
della mondializzazione è la perdita di sovranità degli stati nazionali. Da
qui emerge la difficoltà, se non l'impossibilità, da parte degli
stati-nazione di stabilire politiche sociali e economiche che governino lo
sviluppo economico. E' a questo punto che il welfare state è indicato come
un limite allo sviluppo economico. Ed è qui che avviene la cesura.

Ne «Métamorphos de la question sociale» lei parla spesso di una crisi della
società salariale, esemplificata dalla crescita di forme «atipiche» del
rapporto di lavoro. Ad esempio, lei scrive che la diffusione di lavoro
autonomo si accompagna da una contrazione dei lavoratori salariati. Mi
sembra, invece, che, al di là della forma giuridica che assumono i contratti
di lavoro, la regola dominante rimane il lavoro salariato. Può sembrare un
paradosso, ma dalla crisi della «società salariale» si esce con la
pervasività del rapporto salariale. Lei che ne pensa?

Se assumiamo una prospettiva globale, il numero dei salariati è cresciuto
invece che diminuire. Alla luce di questo dato, sarebbe improprio parlare di
crisi della società salariale. Anzi, ritengo che la diffusione del rapporto
salariale di lavoro non si è ancora compiuta del tutto. Questa pervasività
del rapporto di lavoro salariato non è tuttavia in contraddizione con la
crescita del lavoro autonomo. Sono due fenomeni paralleli. In quella ricerca
volevo però sottolineare la crescita di rapporti di lavoro «fluttuanti» e
sulla conseguente frammentazione delle forme contrattuali. Possiamo parlare
di alternanza tra lavoro e non lavoro, di lavoro a tempo determinato, di
intermittenti, di precari, di interinali, ma sono tutte figure accomunate
dalla precarietà del rapporto di lavoro. In Métamorphos de la question
sociale scrivevo della perdita di consistenza del lavoro salariato non della
perdita di rilevanza statistica. Il lavoro salariato può essere
statisticamente rilevante, senza per questo essere consistente socialmente e
politicamente.

Possiamo però constatare un altro paradosso: più il lavoro diventa precario,
più deve diventare flessibile, duttile, capace cioè di capacità innovative e
di gestione del flusso del processo lavorativo. In altri termini: precari
si, ma con grandi capacità relazionali e gestionali...

Quella che lei indica è la tensione costitutiva del nuovo capitalismo. La
precarietà e la disoccupazione di massa sono infatti gli elementi
costitutivi del capitalismo uscito dalla crisi degli anni Settanta. Non c'è
nessun dubbio sul fatto che siamo di fronte a un superamento di
un'organizzazione produttiva basata su lavoro ripetitivo e standardizzato.
In passato si è spesso parlato di organizzazione scientifica del lavoro, di
taylorismo: espressioni che connotavano comunque una dimensione collettiva
del rapporto di lavoro. Ora, invece, assistiamo al dilagare di
un'individualizzazione del rapporto di lavoro. I lavoratori devono essere
mobili, flessibili, intraprendenti, polivalenti ma precari e con un un
sistema di protezione sociale ridotto all'osso. Se il capitalismo vuol
sopravvivere a se stesso deve sicuramente ripensare i sistemi di protezione
sociale, ma deve comunque garantirli.

Nel suo ultimo libro, lei afferma che il welfare state è sì un'istanza del
collettivo che può rendere sicuro l'individuo, ma che ha agito come un
potente fattore di individualizzazione. E' un altro paradosso dell'attuale
capitalismo?

Per i neoliberali, l'individuo è un soggetto capace di autonomia e
intraprendenza: fattori che non possono emergere pienamente perché lo stato
sociale pone dei vincoli, degli obblighi derivanti dal riconoscimento di
alcuni diritti universali. Tolti i quali, recitano i neoliberali,
l'individualità può manifestarsi liberamente e pienamente. Ma io appartengo
ad un'altra scuola di pensiero, a quel filone teorico e analitico che parla
di individuo solo a partire dalle sue relazioni sociali. Si è cioè individui
solo se si vive in società. Per questo considero il welfare state il
riconosciemento di una dimensione collettiva dell'individuo che vive in
società. La ritirata e l'erosione dello stato sociale lascia dietro di sé
una moltitudine di individui che non hanno nient'altro da vendere che la
loro forza-lavoro.

Non mi riferivo però solo alla critica neoliberale del welfare state. C'è
stato un filone critico che ha denunciato il carattere normativo, omologante
dello stato sociale, senza che questo coincidesse con la richiesta della
cancellazione dei diritti sociali. Semmai veniva denunciato il controllo
sociale sui comportamenti individuali che il welfare state induceva.
D'altronde anche lei scrive che lo «stato securitario» è sempre dietro
l'angolo.

C'è sempre un rovescio della medaglia. E' un rischio che vale la pensa di
correre. Il welfare state prevede ovviamente forme di controllo, di
astrazione dei bisogni, di omogeneizzazione dell'offerta di servizi sociali.
Ma la burocratizzazione è un male minore, un passaggio obbligato, perché lo
stato sociale pone in equilibrio la legge e l'affermazione di un diritto
universale e incondizionato. Inoltre, il welfare state prevedeva una
possibilità di negoziare l'applicazione della legge, garantendo così il
carattere dinamico e al tempo stesso universale dei diritti. Prendiamo la
salute, un diritto che il welfare state garantiva. Non è certo detto che
questo significhi che le terme siano un diritto che lo stato garantisce. Può
essere un servizio a pagamento, oppure può rientrare, a seconda del livello
di negoziazione degli attori sociali, tra le prestazioni previste dallo
stato sociale. L'equilibrio instabile tra la legge e il diritto prevedono
dunque la presa di parola e la negozione tra i diversi attori sociali. E'
dunque meglio questa ambivalenza, che il nulla.

Tuttavia, si sta affermando una concezione dello protezione sociale che nega
il carattere universale e incondizionato dei diritti sociali. Mi riferisco a
quello che viene chiamato «workfare», un insieme di politiche sociali in
base alle quali si ha diritto ad alcuni servizi solo se si lavora. In epoca
di disoccupazione di massa e di precarietà diffusa non finisce col diventare
una negazione del carattere universale dei diritti sociali?

Si, il workfare è un non sense, perché ipotizza che si possono garantire un
insieme di servizi sociali minimi solo se chi ne ha bisogno dimostra che ne
può fare a meno, lavorando o mettendo in piedi una piccola impresa. Prima
dicevo che la contraddizione di questo capitalismo è di chiedere autonomia,
polivalenza e intraprendenza e offrire precarietà e assenza di protezione
sociale. Ripeto: se il capitalismo vuole sopravvivere a se stesso serve una
pacata politica riformista che garantisca protezione e diritti sociali
universali. Nella difesa del welfare state non c'è nulla di rivoluzionario.
Semmai del buon riformismo.

Le metamorfosi di Robert Castel

Robert Castel ha avuto un percorso intellettuale che ha toccato molti temi,
mantenendo però sempre un'intima coerenza. Direttore dell'«Ecole des Hautes
en Sciences Sociales» di Parigi, ha studiato nei lontani anni Settanta la
«depsichiatrizzazione» del disagio sociale e mentale per poi approdare due
decenni dopo a fare i conti con quella metamorfosi delle modernità che hanno
mutato profondamente la formazione delle identità collettive e il legame
sociale. Autore sicuramente lontano dai riflettori della scena pubblica, è
diventato uno degli studiosi più attenti della realtà capitalistica
contemporanea. Poco tradotto in Italia, va ricordato per «Le Psycanalisme»,
«Métamorphos de la question sociale», «Propriéte privéé, propriéte sociale
et propriéte de soi». Da poco, per Einaudi, è stato pubblicato il suo ultimo
lavoro su «L'insicurezza sociale» (pp. 100, ?12).