la fiat se la prenderanno le banche ?



dal  manifesto - 25 Giugno 2004


Il Lingotto delle banche
SERGIO CUSANI GIUSEPPE TRIPODI


Il Lingotto delle banche

Tutti i numeri della crisi della Fiat e tutti gli indizi sull'ultima
tentazione degli istituti di credito: approfittare dell'emergenza per
sfondare i confini banca/impresa e diventare la «cabina di regia» della
politica economica

SERGIO CUSANI GIUSEPPE TRIPODI

Il bandolo della crisi Fiat è nelle mani delle banche. Prima di inoltrarci
nella matassa, riassumiamo in sei punti i termini del problema. 1. La
famiglia Agnelli, numerosa e con interessi divergenti, non intende investire
altri capitali propri, anzi ha evidente fretta di «recuperare» quanto già
versato. Intanto ha messo il patrimonio al sicuro. La Ifil, dismettendo
attivi come Worms o Rinascente, chiude i debiti, garantisce dividendi alla
controllante Ifi, rende ancor meno «significativa» la partecipazione del 30%
in Fiat, che attualmente rappresenta solo il 33% del portafoglio Ifil. Per
ottimizzare l'impatto fiscale, si accorcia la catena di controllo Ifi/Ifil
così da far pervenire dividendi più copiosi nella cassaforte di famiglia, la
Giovanni Agnelli e C.

2. La gestione Fiat negli ultimi anni ha guardato soltanto a medio termine e
non ha affrontato i nodi strutturali che ancora attanagliano la Fiat in
termini strategici di prodotto e di innovazione.

3. La liquidità di 7 miliardi disponibile al 31 dicembre 2003, derivante da
dismissioni, è già impegnata e a fine 2004, senza altre operazioni
straordinarie, si sarà ridotta a circa 750 milioni di euro. In più, nel 2004
vi saranno flussi in uscita - sulla base del Piano - relativi agli
investimenti in beni materiali e immateriali per 2.700 milioni di euro e si
dovrà far fronte al fabbisogno finanziario derivante dalle perdite
gestionali. Utilizzando, come indicatore prospettico dello stato di salute
della Fiat, il reddito netto consolidato del primo trimestre 2004
«depurato» - che non tiene cioè conto di alcuni effetti straordinari noti -
proiettato sull'intero anno, se ne può indicativamente dedurre che la
perdita del 2004, a fattori costanti (flat), sarebbe di circa 1,5 miliardi
di euro (vedi scheda). Alla Fiat non rimarrà che ricorrere a nuovo credito
bancario, ristrutturare il debito a breve o tentare di raccogliere pubblico
risparmio attraverso controllate con un rating decente.

4. General Motors o altri produttori non investiranno in Fiat Auto perché le
capacità produttive - in eccesso in tutto il mondo a costi più bassi - non
interessano. Ciò che attrae sono specifici rami d'azienda o solo alcuni
marchi.

5. I concorrenti Fiat investono in prodotti innovativi, adottano politiche
commerciali aggressive e costose. Grandi case si apprestano a invadere il
mercato dell'auto low cost.

6. Se non avvengono significativi miglioramenti sul fronte delle vendite, e
non vi sono segnali in questo senso, se non si inverte rapidamente rotta, se
non si accelera sul piano di rilancio con modelli innovativi, si rischia il
declino. In tale malaugurata ipotesi, si perverrebbe a un drastico
ridimensionamento del gruppo Fiat mediante la cessione della maggior parte
delle attività allocate all'estero, «lontane» dal sistema politico-sociale
italiano. In questo caso l'impatto del problema verrebbe attutito ma la Fiat
sarebbe ridotta a una media azienda nazionale destinata a languire. L'altra
soluzione, ancora più drastica, è quella di uno «spezzatino», con le banche
azioniste di riferimento al 27%, nell'ipotesi di conversione in azioni del
prestito convertendo, e con la famiglia Agnelli al 22%.

Il Piano e il Debito

Dunque il bandolo della matassa è nelle mani delle banche che da tempo
alimentano, senza discernimento, il ricorso al debito da parte delle grandi
imprese che si sono lanciate in acquisizioni a tutto campo in una logica di
gigantismo d'impresa. La rincorsa al gigantismo ha bruciato sull'altare
della diversificazione enormi risorse e ha fatto trascurare il proprio
prodotto, in termini di posizionamento di mercato, di innovazione
tecnologica e di marketing.

Per il sistema bancario la salvaguardia della Fiat sarebbe un costo
sopportabile a condizione di un nuovo Piano industriale. La crisi dell'auto
Fiat ha assunto carattere strutturale: finora il problema è stato affrontato
in una logica poco incisiva, senza risposte credibili e strategicamente
affidabili.

Il Piano di rilancio del 2003 non prevede obiettivi intermedi, chiari e
definiti su cui misurarsi per apportare tempestive azioni correttive. Va
ridiscusso e ripensato in quanto: non prevede innovazioni di rottura sul
prodotto, si accontenta di face lifting o di restyling di modelli, persegue
una strategia di prodotto tipicamente follower, che insegue, e non è invece
leader che innova, che anticipa le esigenze dei consumatori.

Il gruppo dirigente Fiat non sta risolvendo in tempi rapidi il rapporto con
General Motors così da esser libero di esplorare altre opportunità sul
mercato più compatibili con la struttura d'impresa della Fiat, e così da
evitare di incorrere in ulteriori probabili infringement contrattuali che
andrebbero ad aggravare i dichiarati motivi di Gm per azionare una
pericolosa causa per danni nei confronti di Fiat.

Le banche in tutto ciò dovrebbero avere una funzione fondamentale di
traghettamento operativo della Fiat nella sua interezza anche verso un
allargamento dell'assetto azionario di riferimento, che deve essere
imprenditoriale. Non devono cedere alla presunzione di assumere
surrettiziamente la gestione della Fiat usando come paravento la residua
presenza della famiglia Agnelli. Anzi dovrebbero abbandonare la logica di
potere che ha portato a dilapidare enormi risorse non dedicate al sostegno
di un effettivo sviluppo industriale, necessario per assicurare una solida
base su cui crescere e per garantire occupazione e consumi. Se si abbandona
o si indebolisce la base industriale, il declino è inevitabile perché il
divario non è più recuperabile.

Il grimaldello di Torino

Il timore è che le banche abbiano in mente ben altro: usare il grimaldello
del caso Fiat, con una forte valenza simbolica, per un obiettivo più ampio
di potere. In sostanza, approfittare di una fase critica della grande
impresa in Italia per proporsi come «banca universale» libera di partecipare
al capitale delle società, sul modello tedesco-renano, andando ben oltre la
soglia massima attuale del 15% imposta dalla Banca d'Italia. Così facendo,
consoliderebbero quello che è un dato di realtà, l'impresa «in pegno» alle
banche, in elemento strutturale e formale anche attraverso la trasformazione
dei loro crediti in azioni; con un elemento incestuoso dato dalla presenza,
sempre più invadente, di gruppi imprenditoriali nel capitale sociale delle
stesse banche e nei loro organi di governo.

In definitiva le banche, che in tutte le recenti crisi hanno avuto il ruolo
di soci di fatto dei grandi gruppi industriali e finanziari, potrebbero
candidarsi a divenirne i padroni effettivi in presenza delle grandi famiglie
del capitalismo italiano, con pochi capitali propri investiti, che sono o in
declino e/o fortemente indebitate e dei governi che preferiscono ammantare
di non ingerenza la propria incapacità di indirizzo industriale e di
mobilitazione di risorse per lo sviluppo, intervenendo surrettiziamente
proprio attraverso le banche, che al potere politico sono strettamente
collegate, in contropartita concedendo ad esse totale libertà di manovra.

In passato l'industria non aveva futuro senza il beneplacito delle banche.
Nel futuro prossimo le banche saranno l'unico soggetto a occupare la cabina
di regia dell'andamento dell'economia. Con un sistema creditizio ancora
fragile ed esposto ad alti rischi, si verrebbe in tal modo a creare un
circuito assai poco virtuoso, assai poco trasparente, assai poco
tracciabile.

Pur in questo contesto in movimento, le condizioni per salvaguardare
l'intero gruppo Fiat ci sarebbero in quanto: esiste un Piano di rilancio,
che va necessariamente ripensato e ridefinito, ma intanto è una base di
confronto; esiste la espressa volontà delle rappresentanze organizzate dei
lavoratori di assumere un ruolo propositivo per salvaguardare l'azienda e
gli interessi sociali diffusi che racchiude, compreso l'indotto; in più c'è
il sicuro interesse di tutto il tessuto delle imprese dell'indotto diretto e
indiretto, artigiani in testa, assai sensibili al problema e pronti a dare
il loro fattivo contributo; così come gli enti locali e i territori.

Tavoli e conflitti

Tutto ciò dice quanto sia urgente affrontare il problema per tempo, avviando
una discussione costruttiva sul futuro della Fiat tra i diversi soggetti
economici, sociali e istituzionali coinvolti: Fiat, banche, sindacato,
artigiani e imprenditori dell'indotto, governo, enti locali e rappresentanze
dei territori. Un «tavolo per il futuro», realmente creativo.

Subito, prima che l'avv. Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fiat
e della Confindustria, venga bloccato nel suo agire dal conflitto tra
l'ottenere commesse governative per Fiat e rappresentare tutti gli
imprenditori.

(Cusani e Tripodi sono della Banca della Solidarietà, dal 2002 consulente
della Fiom-Cgil per il caso Fiat, insieme alla Practice Audit di Milano).