i dati della delocalizzazione



da ilsole24ore.it
 Mercoledì 09 Giugno 2004

DELOCALIZZAZIONE

La carica delle duemila imprese

Cresce il numero di aziende del «made in Italy» che trasferiscono le
produzioni oltreconfine. Secondo stime del Politecnico di Milano circa il
60% privilegia strategie mirate solo al contenimento dei costi.

di  Marco Morino

Cresce il numero delle imprese italiane che detengono partecipazioni - di
controllo, paritarie o minoritarie - in imprese estere. A fine 2002, secondo
il rapporto «Italia multinazionale» predisposto per l'Ice dal Politecnico di
Milano, erano 5.202 gli investitori italiani che avevano fatto operazioni di
carattere industriale sui mercati stranieri (si veda «Il Sole-24 Ore» del 9
dicembre 2003). E oggi le imprese italiane con partecipazioni all'estero
risulterebbero circa 6mila. Di queste, almeno 2mila hanno posto in essere
vere e proprie strategie di delocalizzazione, trasferendo cioè oltre
frontiera attività o parti di attività esistenti in Italia. Le stime sono di
Sergio Mariotti, docente del Politecnico di Milano e co-autore (assieme a
Marco Mutinelli) del rapporto «Italia multinazionale», di cui è in corso
l'aggiornamento.
Delle circa 2mila imprese che hanno imboccato la via della
delocalizzazione - stima ancora il docente del Politecnico di Milano - circa
800 «puntano su una strategia di lungo respiro, che combina alla riduzione
dei costi anche la conquista dei mercati esteri», mentre il restante 60%
delle imprese che delocalizzano, in genere di piccole dimensioni, mira
esclusivamente all'abbattimento dei costi. Sul piano dell'articolazione
geografica il fenomeno della delocalizzazione - secondo Mariotti - sta
interessando in misura crescente, oltre ai Paesi dell'Europa
centro-orientale, anche alcuni mercati nord africani (bacino del
Mediterraneo), dell'Asia centrale (India) e orientali (Cina). I settori,
invece, sono quelli tradizionali del made in Italy: alimentare, meccanica,
abbigliamento. Storicamente, rivela un'indagine condotta da Unioncamere e
Istituto Tagliacarne, le ragioni che spingono le imprese alla
delocalizzazione sono date dall'esigenza di ridurre i costi di produzione e
dalle maggiori disponibilità, in loco, di manodopera a buon mercato. «Le
delocalizzazioni orientate all'abbattimento dei costi (del lavoro, di
approvigionamento della materia prima) - dice Mariotti - rischiano, a lungo
andare, di essere soppiantate dai produttori locali. Ecco perché un numero
crescente di imprese italiane sta consolidando la presenza sui mercati
esteri attraverso il radicamento, investendo cioè nella distribuzione, nella
valorizzazione del marchio e così via». La ricerca Unioncamere-Tagliacarne
evidenzia inoltre come la valutazione del processo di delocalizzazione sia
in genere positiva: la imprese interpellate valutano in genere ottimi (o
buoni) i rapporti sia con le imprese estere sia con le istituzioni straniere
ospitanti.
Anche il Governo osserva con attenzione l'evolversi del fenomeno. Per Adolfo
Urso, viceministro delle Attività produttive per il commercio estero, «è
indispensabile che, pur trasferendo all'estero parte dell'attività, il cuore
e il cervello dell'impresa resti comunque in Italia». Intanto, a fianco
della delocalizzazione, nell'ultimo decennio si sta rafforzando un altro
fenomeno: l'esportazione, da parte dell'Italia, di attività imprenditoriale
tout court. Si tratta di soggetti che non svolgevano in precedenza
un'attività nel nostro Paese e che decidono di avviarne una direttamente
all'estero. Le mète preferite, in questi casi, sono i Paesi del Mediterraneo
e dell'Est europeo. I settori, invece, quelli del tessile-abbigliamento,
pelli e cuoio e della componentistica (meccanica ed elettromeccanica).
Questa tendenza, partita in sordina a metà anni 90, è andata
intensificandosi dal 2000 in poi.