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i dati della delocalizzazione
- Subject: i dati della delocalizzazione
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 23 Jun 2004 11:33:53 +0200
da ilsole24ore.it Mercoledì 09 Giugno 2004 DELOCALIZZAZIONE La carica delle duemila imprese Cresce il numero di aziende del «made in Italy» che trasferiscono le produzioni oltreconfine. Secondo stime del Politecnico di Milano circa il 60% privilegia strategie mirate solo al contenimento dei costi. di Marco Morino Cresce il numero delle imprese italiane che detengono partecipazioni - di controllo, paritarie o minoritarie - in imprese estere. A fine 2002, secondo il rapporto «Italia multinazionale» predisposto per l'Ice dal Politecnico di Milano, erano 5.202 gli investitori italiani che avevano fatto operazioni di carattere industriale sui mercati stranieri (si veda «Il Sole-24 Ore» del 9 dicembre 2003). E oggi le imprese italiane con partecipazioni all'estero risulterebbero circa 6mila. Di queste, almeno 2mila hanno posto in essere vere e proprie strategie di delocalizzazione, trasferendo cioè oltre frontiera attività o parti di attività esistenti in Italia. Le stime sono di Sergio Mariotti, docente del Politecnico di Milano e co-autore (assieme a Marco Mutinelli) del rapporto «Italia multinazionale», di cui è in corso l'aggiornamento. Delle circa 2mila imprese che hanno imboccato la via della delocalizzazione - stima ancora il docente del Politecnico di Milano - circa 800 «puntano su una strategia di lungo respiro, che combina alla riduzione dei costi anche la conquista dei mercati esteri», mentre il restante 60% delle imprese che delocalizzano, in genere di piccole dimensioni, mira esclusivamente all'abbattimento dei costi. Sul piano dell'articolazione geografica il fenomeno della delocalizzazione - secondo Mariotti - sta interessando in misura crescente, oltre ai Paesi dell'Europa centro-orientale, anche alcuni mercati nord africani (bacino del Mediterraneo), dell'Asia centrale (India) e orientali (Cina). I settori, invece, sono quelli tradizionali del made in Italy: alimentare, meccanica, abbigliamento. Storicamente, rivela un'indagine condotta da Unioncamere e Istituto Tagliacarne, le ragioni che spingono le imprese alla delocalizzazione sono date dall'esigenza di ridurre i costi di produzione e dalle maggiori disponibilità, in loco, di manodopera a buon mercato. «Le delocalizzazioni orientate all'abbattimento dei costi (del lavoro, di approvigionamento della materia prima) - dice Mariotti - rischiano, a lungo andare, di essere soppiantate dai produttori locali. Ecco perché un numero crescente di imprese italiane sta consolidando la presenza sui mercati esteri attraverso il radicamento, investendo cioè nella distribuzione, nella valorizzazione del marchio e così via». La ricerca Unioncamere-Tagliacarne evidenzia inoltre come la valutazione del processo di delocalizzazione sia in genere positiva: la imprese interpellate valutano in genere ottimi (o buoni) i rapporti sia con le imprese estere sia con le istituzioni straniere ospitanti. Anche il Governo osserva con attenzione l'evolversi del fenomeno. Per Adolfo Urso, viceministro delle Attività produttive per il commercio estero, «è indispensabile che, pur trasferendo all'estero parte dell'attività, il cuore e il cervello dell'impresa resti comunque in Italia». Intanto, a fianco della delocalizzazione, nell'ultimo decennio si sta rafforzando un altro fenomeno: l'esportazione, da parte dell'Italia, di attività imprenditoriale tout court. Si tratta di soggetti che non svolgevano in precedenza un'attività nel nostro Paese e che decidono di avviarne una direttamente all'estero. Le mète preferite, in questi casi, sono i Paesi del Mediterraneo e dell'Est europeo. I settori, invece, quelli del tessile-abbigliamento, pelli e cuoio e della componentistica (meccanica ed elettromeccanica). Questa tendenza, partita in sordina a metà anni 90, è andata intensificandosi dal 2000 in poi.
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