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innovazione conoscenza economia
- Subject: innovazione conoscenza economia
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 4 Jun 2004 07:05:35 +0200
dal manifesto.it L'impervia strada che dalla borsa valori conduce alla ricerca scientif I capitani di ventura del sapere Per tutti gli anni Novanta, l'innovazione e l'università sono stati finanziate da «capitalisti di ventura» per poi essere trasformate in imprese da quotare in borsa. Un sentiero di lettura che costituisce le basi di un saggio pubblicato nel prossimo numero della rivista «Posse» edita da manifestolibri CHRISTIAN MARAZZI La conoscenza che permette di innovare i processi produttivi, il «progresso tecnico» che contribuisce ad aumentare la produttività del lavoro e a massificare il consumo di beni e servizi, non cade dal cielo, non è esterna al contesto in cui si dà crescita economica. La conoscenza innovativa è qualcosa che si produce e che, per questo preciso motivo, deve essere remunerata. In altre parole, si tratta di considerare il progresso tecnico generato dalla produzione di conoscenza come un costo. È quanto risulta dagli sviluppi teorici nel campo dell'analisi micro-economica dei fattori di crescita. Le teorie della crescita endogena hanno infatti permesso di liberarsi dall'idea neo-classica di una conoscenza innovativa libera e esterna allo spazio dell'agire umano, quasi fosse suggerita a Robinson dal suo pappagallo, oltretutto gratuitamente. Ma se l'innovazione è prodotta endogenamente, chi e come la si paga? Dato che la produzione d'innovazione è per sua natura incerta, nel senso che è difficile anticiparne i rendimenti economici, come attirare l'interesse dei potenziali investitori? E poi, dato che la conoscenza innovativa è un bene pubblico, soprattutto in un'economia fortemente congitivo-comunicativa in cui la diffusione informale delle innovazioni si contrappone alla possibilità di esercitare su di esse una proprietà mercantile completa, quali sono i meccanismi che ne permettono l'appropriazione o la sottrazione privata e/o pubblica? Gli angeli della borsa La risposta che normalmente si dà a questi interrogativi si basa sui modelli di allocazione del risparmio come fonte principale del finanziamento della crescita economica. Nel corso degli anni `80 i mercati finanziari liberalizzati hanno favorito il dirottamento della massa dei risparmi su titoli di proprietà che assicuravano rendimenti elevati in virtù del loro essere forme di ricchezza rigide. Il mercato immobiliare è l'esempio più noto di come la realizzazione di guadagni facili sia stata fluidificata dalle trasformazioni dei prodotti finanziari sulla falsariga delle modificazioni della struttura interna e della composizione sociale del risparmio. I mercati finanziari liberalizzati hanno poi contribuito ad accelerare le ristrutturazioni aziendali secondo i princìpi della produzione snella, riducendo i costi di produzione a causa del costo eccessivo del denaro. Più i mercati finanziari hanno permesso facili guadagni, più i risparmi hanno lasciato il sistema bancario (disintermediazione) per dirigersi verso titoli di proprietà mobili (quotati in Borsa), e più le banche sono state costrette a mantenere elevati i tassi di interesse per trattenere il risparmio. Negli Stati Uniti la trasformazione delle idee in imprese attraversa i campus universitari, è attivata da gruppi di capitalisti (Business Angels) che tra loro coltivano relazioni di partenariato e apportano i capitali di avvio (seed money) ai candidati imprenditori, vede in seguito l'entrata dei fondi di investimento collettivi che garantiscono un sostegno azionariale prima ancora di entrare in Borsa. Il lancio in Borsa (Nasdaq) di valori a rischio attira i fondi pensione e i fondi comuni di investimento, permettendo ai venture capitalist di uscire dalle imprese da loro avviate realizzando plusvalori elevati. Queste «rendite di innovazione», da una parte compensano le perdite subite nelle imprese che falliscono, dall'altra vengono utilizzate per il lancio di nuove imprese. Il passaggio dalla logica dei Business Angels, in cui contano le relazioni personali con «tempi di semina» di 12 o 18 mesi, alla logica delle imprese finanziarie (spesso filiali delle banche di investimento, dette «incubatori di imprese»), che funzionano sulla base di criteri contabili, giuridici e di marketing e su tempi brevi, è nel medesimo tempo leva del successo delle start up e causa della loro crisi. La finanziarizzazione permette la messa in forma aziendale del lavoro immateriale vivo, ma questa metamorfosi presuppone la produzione di plusvalenze (premio del rischio) senza le quali l'intero processo non potrebbe neppure incominciare. Il premio del rischio che contrassegna il passaggio in Borsa delle start up, così come lo «scarto d'acquisizione», o plusvalore (goodwill, in inglese), risultante dalla differenza tra il valore di mercato e il valore contabile delle società assorbite nei processi di fusione, sono il prezzo della sottrazione del sapere o, simmetricamente, della eccedenza del general intellect, che rappresenta la contraddizione specifica del nuovo capitalismo cognitivo. In entrambi i casi si tratta della messa a bilancio di un attivo intangibile che rappresenta la trasformazione in merce del sapere e della conoscenza, un valore che è necessario per attirare capitali in una fase in cui la stessa organizzazione locale e globale dei mercati finanziari orienta le scelte degli investitori sulla base di logiche di rendimento competitive. Innovazione a rischio Il lavoro cognitivo innovativo è però per definizione open source, cooperativo, relazionale, comunicativo e sempre più globale. Per essere comandato e mercificato, cioè organizzato in attività imprenditoriale, deve essere prima di tutto gerarchizzato e finanziarizzato, ciò che comporta l'appiattimento e la sottrazione del sapere diffuso, e la sua regolazione secondo i principi del business plan. Ma questa operazione non è indolore, ha un suo premio/prezzo, che nel lancio delle strart up ingenera sopravvalutazioni «folli» che destabilizzano l'andamento normale dei mercati ampliandone la volatilità e l'instabilità, mentre nel caso delle acquisizioni e fusioni di imprese (con le Offerte Pubbliche d'Acquisto, le Opa) comporta la razionalizzazione e la flessibilizazzione del lavoro come controparte della «messa a bilancio» degli attivi intangibili acquisiti. In primo luogo, la finanziarizzazione dei processi economici sopra descritto non deve essere vista con lo sguardo (fordista) di una perversione, di un semplice fenomeno speculativo, moralmente condannabile, o di un semplice prolungamento delle forme classiche del capitale finanziario (à la Hilferding), ma come una vera e propria innovazione interna al funzionamento del capitalismo che, a modo suo, esprime le caratteristiche del nuovo periodo postfordista: fluidità e incertezza. L'esplosione della bolla speculativa del marzo 2000 è quindi da considerare la prima crisi finanziaria del capitalismo cognitivo. È, in primo luogo, una crisi finanziaria che mira a scardinare le traiettorie «dal basso verso l'alto» della imprenditorializzazione del general intellect, la sua «entrata in Borsa» con le start up. Da questo punto di vista è la dimensione locale del capitalismo cognitivo che viene attaccata dalla crisi borsistica, in particolare la concentrazione nella Silicon Valley del maggior numero di nuove imprese high tech, la cui proliferazione ha contribuito alla crisi da «sovrapproduzione digitale» e alla successiva scomparsa di molte delle imprese internettiane. Ma la crisi del 2000 è anche la crisi della particolare spazializzazione mondiale della new economy. La «convenzione Internet», che «tira» i mercati tra il 1998 e l'inizio del 2000, non è che l'espressione del più vasto e strutturale processo di «cognitarizzazione» del lavoro, dello spostamento delle leve dell'innovazione dai «corpi separati» della Ricerca&Sviluppo di fordiana memoria, ai corpi vivi della forza-lavoro. I capitali, che dal resto del mondo confluiscono sui titoli azionari e obbligazionari di imprese quotate sui mercati borsistici statunitensi, inseguono letteralmente i flussi di ricercatori statunitensi, europei e asiatici che negli anni `90 vanno alla Silicon Valley, come un tempo i giovani attori andavano a Hollywood. I dannati della conoscenza L'afflusso di capitali e di forza-lavoro cognitiva all'interno e verso gli Stati Uniti è all'origine della crescita spettacolare del settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e degli «effetti ricchezza» generati dalle rendite finanziarie. La crescita del Pil è dovuta in particolare alla crescita del settore delle nuove tecnologie, mentre la domanda di beni e servizi è determinata dall'aumento dell'offerta. Gli anni clintoniani della new economy sono contrassegnati da un'espansione keynesiana di tipo nuovo, nel senso che, mentre diminuiscono i redditi sociali erogati dal Welfare State, aumentano le entrate fiscali dovute alle tasse sui capital gains, permettendo così al budget federale di realizzare addirittura degli avanzi. Si può parlare di «keynesismo finanziario», di regolazione macroeconomica basata sul deficit spending privato delle imprese e delle famiglie. Negli Stati Uniti la crisi segna il passaggio dalla crescita sul lato dell'offerta alla crescita sul lato della domanda. Tra la fine del 2000 e il 2003 la politica monetaria della Federal Reserve è tutta finalizzata a sostenere la domanda delle economie domestiche facilitando l'indebitamento. Con tassi di interesse praticati dalla Fed attorno all'1%, quindi negativi in termini reali, si assicura il mantenimento del consumo a livelli elevati grazie all'eliminazione del risparmio e all'indebitamento ipotecario (remortgaging) delle famiglie favorito all'inflazione dei valori immobiliari. Diversamente dalla grande depressione degli anni seguenti la crisi del '29, contrassegnata dalla deflazione della domanda di consumo di beni e servizi, gli anni che seguono la crisi della new economy sono caratterizzati dalla deflazione della domanda di beni strumentali, in particolare delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione. L'uscita dalla crisi della new economy ridisegna spazialmente la ripresa del capitalismo cognitivo su scala mondiale. Di nuovo, i capitali inseguono i movimenti del cognitariato, ma questa volta dagli Stati Uniti verso i paesi asiatici, con i processi di outsourcing e di offshoring in paesi in cui il costo del lavoro vivo è dieci volte inferiore a quello dei paesi sviluppati. La crisi della finanziarizzazione del lavoro cognitivo e innovativo degli anni `90, l'impossibilità di riprodurre il circolo virtuoso delle start up e delle Merge&Acquisitions sulla base dell'afflusso continuo di capitali negli Stati Uniti, ma ciononostante la necessità di rilanciare l'accumulazione capitalistica sulla base del lavoro immateriale innovativo, costringe il capitale a compensare la perdita delle plusvalenze (dei premi del rischio e dei goodwill) con la riduzione drastica del salario dei lavoratori cognitivi. Con la ripresa dei mercati borsistici a partire dal 2003 quale effetto del risanamento finanziario delle imprese, nei primi mesi del 2004 si è avviata una nuova ondata di Opa e di Mergers&Acquisition, non solo in Asia, dove il numero di Opa e di start up è in forte aumento, ma anche in Europa e negli Stati Uniti, seppure con minore intensità. Rispetto agli anni `90 e al 2000, in cui gli investimenti erano principalmente orientati verso la rapida capitalizzazione delle innovazioni prodotte da imprese emergenti, nella fase attuale è la razionalizzazione delle imprese, la flessibilizzazione e l'esternalizzazione della forza-lavoro, la riduzione dei salari e l'aumento della produttività, che definiscono i criteri in base ai quali rilanciare gli investimenti. In altre parole, oggi la filosofia manageriale è impatient for profit but patient for growth. La regola della precarietà Siamo entrati in una fase in cui la dimensione globale del capitalismo cognitivo, con l'inclusione di aree di sviluppo quali l'Asia e l'America latina, è contrassegnata da politiche di regolazione «verso il basso» del valore della forza-lavoro. Soprattutto nei paesi del centro, la produzione di conoscenza e di innovazione a mezzo di precarizzazione è il segno distintivo di questa nuova fase. Le scuole, i centri di ricerca, le imprese flessibili, il mercato del lavoro, sono tutti «luoghi» in cui l'attacco al valore della forza-lavoro ha quale obiettivo prioritario quello di eliminare i margini di ricomposizione politica del proletariato cognitivo, del cognitariato. Nel corso della crescita del capitalismo industriale, la lotta di classe nei paesi del centro, la lotta politica sul salario e la negoziazione collettiva tra salariati e capitale, hanno sovvertito le regole di calcolo del saggio di profitto. In epoca fordista si diceva che «un operaio del Michigan può comprare con un'ora del suo lavoro il prodotto di una giornata intera del suo collega vivente al Sud». I capitali si dirigevano dal Sud al Nord perché i salari nei paesi del Centro erano superiori a quelli dei paesi della periferia. Le lotte dell'operaio multinazionale hanno comunque screditato l'idea secondo cui «è la classe operaia dei paesi ricchi che sfrutta la classe operaia dei paesi poveri». Certo, il divario tra Nord e Sud non è diminuito, si è anzi ampliato, ma il ciclo di lotte dell'operaio fordista ha fatto saltare il modello fordista, costringendo il capitale a svilupparsi su scala globale mettendo al lavoro le qualità più generali della forza-lavoro, le sue facoltà cognitiva, relazionale e comunicativa. L'inversione dei flussi di capitali dal centro verso i paesi di nuova industrializzazione non permetterà sicuramente a un'ora di lavoro di un operaio indiano o cinese di comperare il prodotto di una giornata del suo collega americano o europeo. Ma le lavoratrici dei supermercati della Wal-Mart o i produttori di software del Nord lavorano effettivamente di più per un salario inferiore. Il che significa che la lotta contro la precarietà e per l'aumento del reddito ha ormai una dimensione globale che unisce i destini della moltitudine. UNIVERSITA' Il cervello globale di Harvard LISA MASIER In un'epoca di sempre maggiore specializzazione, professionalizzazione e frammentazione del sapere è necessario fornire una conoscenza ampia, interdisciplinare agli studenti, che li consideri individui curiosi, riflessivi e che li guardi nel futuro come cittadini di una società globale. No, a sostenerlo non è né Susan George né Walden Bello né un collettivo italiano in rivolta contro la riforma Moratti. L'indicazione viene da Harvard, Cambridge, Massachusetts, fondata nel 1636, 2.300 professori al servizio di 6.500 studenti, sette presidenti degli Stati Uniti tra i suoi ex allievi (John F. Kennedy e Franklin Delano Roosevelt, per citarne solo due). Per la prima volta in trenta anni l'università americana ha rivisitato i suoi piani di studio arrivando alla conclusione che è necessario aprire le finestre sul mondo, far seguire ai suoi studenti più corsi all'estero. Il più famoso ateneo statunitense aveva infatti commissionato una indagine a un comitato - formato da Edith e Benjamin Geisinger, docenti di storia e da William C. Kirby, preside della facoltà di arti e scienze, che ne è stato il coordinatore - per valutare «cosa significa educare un uomo o una donna nel primo quarto del XXI secolo». La risposta è stata netta, precisa e niente affatto scontata: soltanto attraverso una maggiore conoscenza e familiarità con il resto del mondo l'università adempirà al suo compito di formare le nuove classi dirigenti. Dal momento che Harvard ha il compito di formare studenti che abiteranno e lavoreranno non solo in America ma in ogni angolo del globo, dovrà renderli capaci «non solo di capire gli altri, ma anche di vedere se stessi e gli Stati uniti così come gli altri li vedono», come ha spiegato Kirby. Che ha aggiunto: «non basta presumere che in un mondo sempre più anglofono tutte le culture si andranno ad assomigliare. In questa epoca di crescente influenza americana istituzioni come Harvard hanno la responsabilità di educare gli studenti a sapersi muovere con perfetta conoscenza del resto del mondo: conoscere le lingue, la cultura, le economie e la politica dei paesi con cui interagiranno una volta entrati nel mondo del lavoro». In altri termini, la prestigiosa università statunitense deve attivamente contribuire alla formazione di una élite capace di avere una global vision. Più prosaicamente, deve formare una «élite globale» che difenda gli interessi statunitensi, ma che sappia muoversi in contesti culturali, economici e etnici fortemente differenziati. La strada indicata da Harvard, dato il suo prestigio, produrrà con molta probabilità un effetto-domino su altre università degli States. Le precedenti revisioni del curriculum di Harvard, negli anni Quaranta e Settanta, aprirono infatti la strada a profonde riforme dell'insegnamento accademico delle università degli Stati uniti. Ma furono anche il precedente che diede l'avvio al quel dualismo nel sistema statunitense della formazione che vede, da una parte, «centri di eccellenza» che attirano finanziamenti pubblici e privati (il Pentagono e altri enti federali sono sempre stati generosi in quanto a finanziamenti) e, dall'altra parte, un numero elevato di università pubbliche, college e scuole superiori di specilizzazione che hanno costituito lo scheletro della formazione di massa negli Stati uniti per quasi quarant'anni. Questo dualismo ha sicuramente garantito agli Stati uniti un numero elevato di uomini e donne laureati, nonché un rapporto di collaborazione tra università e attività economica. E tuttavia è stato un dualismo che ha provacato una formazione univerisitaria spesso standardizzata e niente affatto flessibile. A denunciare il carattere burocratico dei programmi di insegnamento ci ha pensato il filosofo della scienza, nonché storico della tecnologia David Noble nel libro Digital Diploma Mills, mentre è ricorrente trovare sui quotidiani e sulle riviste oltreoceano la denucnia sulla poca preparazione dei laureati americani. Ora Harvard ritorna alle origini, cioè nel proposito di «insegnare ad apprendere» che il filosofo John Dewey aveva considerato il filo rosso della sua nomumentale opera Democrazia e educazione, considerata sì uno dei pilastri del sistema formativo statunitense, ma anche quello più disatteso nella storia degli Stati uniti d'America dall'Ottocento in poi.
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