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chi uccide il capitalismo ?
- Subject: chi uccide il capitalismo ?
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 7 May 2004 06:59:00 +0200
da la stampa.it Venerdi' 30 Aprile QUANDO IL DENARO COMPRA I PRINCÌPI: UN SAGGIO DI CLAUDE BÉBÉAR SUI SABOTATORI DELLA DEMOCRAZIA ECONOMICA Chi uccide il CAPITALISMO? L'autore non ha dettato le proprie memorie: ha accettato di mettere a nudo un mondo di manager che ha perso il senso della realtà di Ferruccio de Bortoli 16 aprile 2004 Nella Favola delle Api di Robert de Mandeville, opera in versi di un medico economista anglofrancese del Settecento, la voglia di arricchirsi è sinonimo di progresso. Vizi privati, pubblici benefici. Senza egoismo, lusso, sperpero non c'è sviluppo. Una società di altruisti sarebbe votata al declino. L'economia è una scienza triste, scriveva Thomas Carlyle, ma se tutti si accontentassero di quello che guadagnano scivolerebbero nelle tenebre della povertà. E persino Tommaso d'Aquino riconosceva che «molte cose utili non sarebbero possibili se tutti i peccati fossero proibiti». L'America deve la sua invidiabile democrazia economica al rigore dei costituenti, alla forza morale della borghesia produttiva, allo spirito della società civile ma anche, paradossalmente, all'intraprendenza spregiudicata dei barrons, dei suoi capitalisti senza scrupoli. Max Weber e Joseph Schumpeter intravvidero chiaramente le qualità propulsive di questa bramosia capitalistica, «distruzione creatrice», un po' selvaggia, che se lasciata totalmente libera non conoscerebbe senso della misura o della vergogna. John Rawls parlava dell'importanza delle cosiddette «psicologie speciali», come l'avidità e l'invidia. Ogni imprenditore, ogni manager, aspira ad essere un monopolista, come lo fu John D. Rockefeller con la Standard Oil. E' per la libertà di mercato quando si tratta di conquistarlo, ma protezionista quando deve difendersi da un nuovo concorrente. E' per la netta separazione fra politica ed economia nei momenti di crescita ma non lo è nelle congiunture difficili quando una mano dallo Stato è gradita se non richiesta. Detesta il concorrente che imbocca una scorciatoia e magari paga la tangente, ma se opera in un mercato in cui la corruzione è regola non esita ad uniformarsene. Le eccezioni sono poche. Ma non c'è da stupirsi e sarebbe vacuo moralismo trarre considerazioni di carattere generale sulle virtù del sistema capitalistico dal ripetersi di scandali e comportamenti fraudolenti nei confronti di risparmiatori, azionisti e consumatori. La realtà è che spetta ad altri poteri, in una democrazia economica avanzata, bilanciare e contenere, senza reprimerne lo spirito, i protagonisti dell'economia più refrattari a regole e criteri di trasparenza. Rockefeller era ricco e potente ma non poté impedire la promulgazione dello Sherman Act (1890) e, insieme a tutti i suoi colleghi capitalisti dell' epoca, la nascita di una moderna legislazione antitrust. Più recentemente, dopo gli scandali Enron, Tyco e WorldCom, peraltro grandi finanziatori della campagna presidenziale di George W. Bush, nessuno si è opposto alla legge Sarbanes-Oxley (2002) sui reati societari. Normativa che porta i nomi di due eletti al Congresso, uno repubblicano e l'altro democratico. In una grande democrazia economica il denaro può tutto, anche eleggere un presidente, ma non comprare i principi sui quali si fonda un'intera comunità. La lezione americana si completa con un sistema giuridico che esalta, forse troppo e in misura fin quasi patologica, la via giudiziaria e il ruolo degli avvocati, ma finisce per far pagare, anche con il proprio patrimonio personale, il conto a chi ha sbagliato e tradito la fiducia del prossimo. L'esempio americano però non ci lascia tranquilli; il sistema mostra i suoi limiti, forse perché è ormai rimasto senza rivali o forse perché, come prevedeva Piero Sraffa, trasformandosi in una economia prevalentemente monetaria finisce per smaterializzare anche i principi. I contrappesi funzionano ma la patologia che devono curare assume ogni giorno forme più diverse e preoccupanti. Il capitalismo è vittima del proprio successo? E se lo è nella patria d'origine dove ha avuto più fortuna, che cosa accade là dove ha attecchito con maggiori difficoltà, nell'Europa appena liberatasi dalle ideologie contrapposte, in particolare dalla lunga eredità comunista? Rischia davvero di scomparire come afferma provocatoriamente Claude Bébéar in questo libro di successo scritto insieme a un giornalista economico di vaglia come Philippe Manière? L'analisi di Bébéar, grande costruttore del colosso assicurativo Axa e maître à penser del capitalismo d'Oltralpe, è spietata, chiara e inappellabile. Un po' denuncia, un po' confessione personale. Bébéar non ha scritto con un giornalista compiacente un libro di memorie per esaltare il proprio ruolo: ha accettato di mettere a nudo, anche nei suoi difetti e nelle sue responsabilità, un mondo di imprenditori, manager, professionisti, che ha perso il contatto con la realtà, il senso delle proporzioni e smarrito il concetto di reputazione, travolto da una ubriacatura sibaritica del potere e del denaro. Il capitalismo vive il suo basso impero ma non vuol dire che sia vicina la sua fine. Tutt'altro. Il sistema ha in sé gli antidoti per risanarsi. Purché si abbia coraggio e non si perda tempo. Scrive Bébéar che il motore del capitalismo è lo spirito di intraprendere ma la fiducia ne è l'indispensabile carburante. Senza fiducia non si investe né si consuma, non si crea valore né lavoro. E la fiducia l'hanno indebolita, e quasi annientata, quelli che l'autore chiama i «sabotatori del capitalismo». Chi sono? Gli imprenditori senza scrupoli che pensano alle proprie fortune personali anziché all'azienda, spesso spogliata e impoverita, sulla quale caricano tutti i costi familiari; i manager preoccupati di arricchirsi in pochi anni, ma anche vittime di un sistema che privilegia i risultati a breve, ossessionato dai benchmark e dalla creazione immediata di valore. Severo il giudizio sulle stock option, strumento di corruzione mentale dei dirigenti piuttosto che incentivo e premio alla fedeltà aziendale. E quando le retribuzioni dei manager aumentano di dieci volte in pochi anni mentre impiegati e operai perdono addirittura in potere d'acquisto qualcosa sicuramente non va al di là della necessità di premiare con stipendi di mercato chi vale e crea sviluppo. L'elenco dei sabotatori è lungo. Banche d'affari che propongono fusioni e acquisizioni inutili, preoccupate solo dei loro fee; istituti di credito in conflitto d'interesse che inducono i loro clienti a sottoscrivere titoli, obbligazioni, bond di una società verso la quale sono esposti e di cui conoscono la situazione critica. Il rischio è infilato così nelle tasche di ignari risparmiatori peraltro convinti agli sportelli di acquistare titoli a reddito fisso. Società di rating per le quali un titolo può avere il massimo dell' affidabilità un giorno e quello successivo valere meno della carta straccia; analisti spregiudicati o miopi; revisori disattenti e talmente legati all' azienda di cui devono controllare i conti da non avere più né la forza né la voglia di formulare la benché minima eccezione; gestori di fondi ossessionati dal replicare l'indice di Borsa al punto tale da non distinguere più i titoli solidi in prospettiva da quelli speculativi ma anche fragili, e pronti a prestare titoli agli hedge fund perché possano ingigantire l'effetto leva con l'uso spregiudicato di prodotti derivati. Un intrico di conflitti d'interesse (ormai allo stato epidemico, scrive Guido Rossi), di avidità personali e di paranoie per i risultati di breve periodo. Tutto il contrario di quelle che erano, e forse in parte sono ancora, le qualità di un buon banchiere che sa guardare i conti ma usa anche il buon senso ed esprime un certo talento intuitivo insieme a una sana propensione al rischio. Nessun report è in grado di esprimere tutti i valori immateriali che un'azienda possiede né la sua reale capacità d'innovazione e sviluppo. Ma nella bulimia di potere e denaro i fondamentali dell'economia si perdono di vista e interesse pubblico e privato anziché essere distinti diventano uno sinonimo dell'altro.[...] «Senza responsabilità non c'è fiducia». Bébéar crede nella capacità delle democrazie economiche, anche di quelle europee dove il conto si paga meno frequentemente e la perdita di reputazione non è sempre considerata un'onta, di emendarsi e rinnovarsi. Le proposte che formula sono diverse. Il sistema deve trovare i propri contrappesi, un diverso equilibrio fra poteri, una maggiore chiarezza nelle responsabilità e certezza nelle sanzioni. La principale è la costituzione di un collegio di censori, nominati dall' assemblea degli azionisti, che sostituisca il ruolo giudicato debole dell' internal audit, rappresenti un vero contropotere al consiglio d' amministrazione e nomini i revisori. Ma anche il ritorno nelle assemblee degli azionisti a un diritto di voto proporzionale alla durata di possesso dei titoli: un premio all'investitore che crede nei programmi a medio termine dell'azienda, un limite all'uso dell'effetto leva, un maggiore ordine nei prodotti derivati, regole diverse per gli hedge funds dei quali spesso non si conosce nemmeno la capitalizzazione, norme che attenuino l' erraticità dei mercati. Un intervento intelligente della politica, soprattutto a livello soprannazionale, proposto da un liberista refrattario alla burocrazia e all' eccessiva legalizzazione dell'economia. Possibile? Sì, a patto che torni la fiducia, la responsabilità, il buon senso, si riscopra il concetto di reputazione e di etica sostanziale, non quella vuota dei tanti codici varati con enfasi e solennità. Senza la sanzione sociale della perdita di reputazione una democrazia economica non si riprende, sprofonda nell'ipocrisia, nel giustificazionismo, nell'ammirazione malcelata per i furbi, nella sanzione diffusa che ci possa arricchire ingiustamente e poi essere riammessi in società. Come se nulla fosse accaduto, quasi come eroi del nostro tempo. Purtroppo. P.S. L'Italia in questi mesi si è distinta per i casi Cirio e Parmalat, per le obbligazioni argentine e per l'esplodere di una crisi di sistema, fra banche e imprese, che mette duramente sotto accusa non soltanto la qualità del nostro capitalismo (non a caso definito familistico e amorale), ma anche l'irrilevanza dei controlli a tutela del risparmio e della fede pubblica. Se avessimo avuto ancora la lira il cambio sarebbe precipitato e i tassi avrebbero registrato un deciso peggioramento, come avvenne dopo i casi Ambrosiano ed Efim, per fare solo due esempi. Abbiamo assistito a un avvilente rimpallo di responsabilità fra Banca d' Italia, Consob, banche e altri soggetti, abbiamo saputo che un imprenditore a capo dell'ottavo gruppo industriale privato italiano falsificava da decenni la contabilità e sottraeva milioni di euro. Il conflitto d'interessi a tutti i livelli era ed è la regola, l'arricchimento personale e illecito una aspirazione diffusa, la trasparenza una chimera, le collusioni ramificate e infinite. Una malattia o una metastasi? La prova l'avremo fra qualche anno. Finora abbiamo visto imprenditori mandare in malora i loro imperi ma salvaguardare i patrimoni personali, case, barche, persino ricomprarsi i beni delle procedure fallimentari con i soldi sottratti ai creditori. Nessuno è finito su una strada o con il conto depredato come gli obbligazionisti di Parmalat. Molti sono tornati. Li vediamo nelle istituzioni, nelle banche, in politica, in Confindustria, tra i cavalieri del lavoro. Se anche gli ultimi splendidi protagonisti di queste ultime storie italiane, insieme a qualche controllore che non ha controllato o regolatore che non ha regolato, la faranno franca senza pagare dazio, sarà inutile stracciarsi le vesti e piangersi addosso. Il tasso di legalità è sceso ai minimi storici, il conflitto d'interesse è penetrato anche nelle intime fessure della società e nella più minuta quotidianità. Il delitto economico spesso paga... Anzi, quasi sempre.
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