chi uccide il capitalismo ?




da la stampa.it

  Venerdi' 30 Aprile
QUANDO IL DENARO COMPRA I PRINCÌPI: UN SAGGIO DI CLAUDE BÉBÉAR SUI
SABOTATORI DELLA DEMOCRAZIA ECONOMICA

Chi uccide il CAPITALISMO?

L'autore non ha dettato le proprie memorie: ha accettato di mettere a nudo
un mondo di manager che ha perso il senso della realtà

di Ferruccio de Bortoli
16 aprile 2004

Nella Favola delle Api di Robert de Mandeville, opera in versi di un medico
economista anglofrancese del Settecento, la voglia di arricchirsi è sinonimo
di progresso. Vizi privati, pubblici benefici. Senza egoismo, lusso,
sperpero non c'è sviluppo. Una società di altruisti sarebbe votata al
declino.

L'economia è una scienza triste, scriveva Thomas Carlyle, ma se tutti si
accontentassero di quello che guadagnano scivolerebbero nelle tenebre della
povertà. E persino Tommaso d'Aquino riconosceva che «molte cose utili non
sarebbero possibili se tutti i peccati fossero proibiti».

L'America deve la sua invidiabile democrazia economica al rigore dei
costituenti, alla forza morale della borghesia produttiva, allo spirito
della società civile ma anche, paradossalmente, all'intraprendenza
spregiudicata dei barrons, dei suoi capitalisti senza scrupoli. Max Weber e
Joseph Schumpeter intravvidero chiaramente le qualità propulsive di questa
bramosia capitalistica, «distruzione creatrice», un po' selvaggia, che se
lasciata totalmente libera non conoscerebbe senso della misura o della
vergogna. John Rawls parlava dell'importanza delle cosiddette «psicologie
speciali», come l'avidità e l'invidia.

Ogni imprenditore, ogni manager, aspira ad essere un monopolista, come lo fu
John D. Rockefeller con la Standard Oil. E' per la libertà di mercato quando
si tratta di conquistarlo, ma protezionista quando deve difendersi da un
nuovo concorrente. E' per la netta separazione fra politica ed economia nei
momenti di crescita ma non lo è nelle congiunture difficili quando una mano
dallo Stato è gradita se non richiesta. Detesta il concorrente che imbocca
una scorciatoia e magari paga la tangente, ma se opera in un mercato in cui
la corruzione è regola non esita ad uniformarsene.

Le eccezioni sono poche. Ma non c'è da stupirsi e sarebbe vacuo moralismo
trarre considerazioni di carattere generale sulle virtù del sistema
capitalistico dal ripetersi di scandali e comportamenti fraudolenti nei
confronti di risparmiatori, azionisti e consumatori. La realtà è che spetta
ad altri poteri, in una democrazia economica avanzata, bilanciare e
contenere, senza reprimerne lo spirito, i protagonisti dell'economia più
refrattari a regole e criteri di trasparenza.

Rockefeller era ricco e potente ma non poté impedire la promulgazione dello
Sherman Act (1890) e, insieme a tutti i suoi colleghi capitalisti dell'
epoca, la nascita di una moderna legislazione antitrust. Più recentemente,
dopo gli scandali Enron, Tyco e WorldCom, peraltro grandi finanziatori della
campagna presidenziale di George W. Bush, nessuno si è opposto alla legge
Sarbanes-Oxley (2002) sui reati societari. Normativa che porta i nomi di due
eletti al Congresso, uno repubblicano e l'altro democratico.

In una grande democrazia economica il denaro può tutto, anche eleggere un
presidente, ma non comprare i principi sui quali si fonda un'intera
comunità. La lezione americana si completa con un sistema giuridico che
esalta, forse troppo e in misura fin quasi patologica, la via giudiziaria e
il ruolo degli avvocati, ma finisce per far pagare, anche con il proprio
patrimonio personale, il conto a chi ha sbagliato e tradito la fiducia del
prossimo.

L'esempio americano però non ci lascia tranquilli; il sistema mostra i suoi
limiti, forse perché è ormai rimasto senza rivali o forse perché, come
prevedeva Piero Sraffa, trasformandosi in una economia prevalentemente
monetaria finisce per smaterializzare anche i principi. I contrappesi
funzionano ma la patologia che devono curare assume ogni giorno forme più
diverse e preoccupanti. Il capitalismo è vittima del proprio successo? E se
lo è nella patria d'origine dove ha avuto più fortuna, che cosa accade là
dove ha attecchito con maggiori difficoltà, nell'Europa appena liberatasi
dalle ideologie contrapposte, in particolare dalla lunga eredità comunista?
Rischia davvero di scomparire come afferma provocatoriamente Claude Bébéar
in questo libro di successo scritto insieme a un giornalista economico di
vaglia come Philippe Manière?

L'analisi di Bébéar, grande costruttore del colosso assicurativo Axa e
maître à penser del capitalismo d'Oltralpe, è spietata, chiara e
inappellabile. Un po' denuncia, un po' confessione personale. Bébéar non ha
scritto con un giornalista compiacente un libro di memorie per esaltare il
proprio ruolo: ha accettato di mettere a nudo, anche nei suoi difetti e
nelle sue responsabilità, un mondo di imprenditori, manager, professionisti,
che ha perso il contatto con la realtà, il senso delle proporzioni e
smarrito il concetto di reputazione, travolto da una ubriacatura sibaritica
del potere e del denaro.

Il capitalismo vive il suo basso impero ma non vuol dire che sia vicina la
sua fine. Tutt'altro. Il sistema ha in sé gli antidoti per risanarsi. Purché
si abbia coraggio e non si perda tempo.
Scrive Bébéar che il motore del capitalismo è lo spirito di intraprendere ma
la fiducia ne è l'indispensabile carburante. Senza fiducia non si investe né
si consuma, non si crea valore né lavoro. E la fiducia l'hanno indebolita, e
quasi annientata, quelli che l'autore chiama i «sabotatori del capitalismo».

Chi sono? Gli imprenditori senza scrupoli che pensano alle proprie fortune
personali anziché all'azienda, spesso spogliata e impoverita, sulla quale
caricano tutti i costi familiari; i manager preoccupati di arricchirsi in
pochi anni, ma anche vittime di un sistema che privilegia i risultati a
breve, ossessionato dai benchmark e dalla creazione immediata di valore.
Severo il giudizio sulle stock option, strumento di corruzione mentale dei
dirigenti piuttosto che incentivo e premio alla fedeltà aziendale. E quando
le retribuzioni dei manager aumentano di dieci volte in pochi anni mentre
impiegati e operai perdono addirittura in potere d'acquisto qualcosa
sicuramente non va al di là della necessità di premiare con stipendi di
mercato chi vale e crea sviluppo.

L'elenco dei sabotatori è lungo. Banche d'affari che propongono fusioni e
acquisizioni inutili, preoccupate solo dei loro fee; istituti di credito in
conflitto d'interesse che inducono i loro clienti a sottoscrivere titoli,
obbligazioni, bond di una società verso la quale sono esposti e di cui
conoscono la situazione critica. Il rischio è infilato così nelle tasche di
ignari risparmiatori peraltro convinti agli sportelli di acquistare titoli a
reddito fisso.

Società di rating per le quali un titolo può avere il massimo dell'
affidabilità un giorno e quello successivo valere meno della carta straccia;
analisti spregiudicati o miopi; revisori disattenti e talmente legati all'
azienda di cui devono controllare i conti da non avere più né la forza né la
voglia di formulare la benché minima eccezione; gestori di fondi
ossessionati dal replicare l'indice di Borsa al punto tale da non
distinguere più i titoli solidi in prospettiva da quelli speculativi ma
anche fragili, e pronti a prestare titoli agli hedge fund perché possano
ingigantire l'effetto leva con l'uso spregiudicato di prodotti derivati.

Un intrico di conflitti d'interesse (ormai allo stato epidemico, scrive
Guido Rossi), di avidità personali e di paranoie per i risultati di breve
periodo. Tutto il contrario di quelle che erano, e forse in parte sono
ancora, le qualità di un buon banchiere che sa guardare i conti ma usa anche
il buon senso ed esprime un certo talento intuitivo insieme a una sana
propensione al rischio. Nessun report è in grado di esprimere tutti i valori
immateriali che un'azienda possiede né la sua reale capacità d'innovazione e
sviluppo. Ma nella bulimia di potere e denaro i fondamentali dell'economia
si perdono di vista e interesse pubblico e privato anziché essere distinti
diventano uno sinonimo dell'altro.[...]

«Senza responsabilità non c'è fiducia». Bébéar crede nella capacità delle
democrazie economiche, anche di quelle europee dove il conto si paga meno
frequentemente e la perdita di reputazione non è sempre considerata un'onta,
di emendarsi e rinnovarsi. Le proposte che formula sono diverse. Il sistema
deve trovare i propri contrappesi, un diverso equilibrio fra poteri, una
maggiore chiarezza nelle responsabilità e certezza nelle sanzioni.

La principale è la costituzione di un collegio di censori, nominati dall'
assemblea degli azionisti, che sostituisca il ruolo giudicato debole dell'
internal audit, rappresenti un vero contropotere al consiglio d'
amministrazione e nomini i revisori. Ma anche il ritorno nelle assemblee
degli azionisti a un diritto di voto proporzionale alla durata di possesso
dei titoli: un premio all'investitore che crede nei programmi a medio
termine dell'azienda, un limite all'uso dell'effetto leva, un maggiore
ordine nei prodotti derivati, regole diverse per gli hedge funds dei quali
spesso non si conosce nemmeno la capitalizzazione, norme che attenuino l'
erraticità dei mercati.

Un intervento intelligente della politica, soprattutto a livello
soprannazionale, proposto da un liberista refrattario alla burocrazia e all'
eccessiva legalizzazione dell'economia. Possibile? Sì, a patto che torni la
fiducia, la responsabilità, il buon senso, si riscopra il concetto di
reputazione e di etica sostanziale, non quella vuota dei tanti codici varati
con enfasi e solennità.

Senza la sanzione sociale della perdita di reputazione una democrazia
economica non si riprende, sprofonda nell'ipocrisia, nel giustificazionismo,
nell'ammirazione malcelata per i furbi, nella sanzione diffusa che ci possa
arricchire ingiustamente e poi essere riammessi in società. Come se nulla
fosse accaduto, quasi come eroi del nostro tempo. Purtroppo.

P.S. L'Italia in questi mesi si è distinta per i casi Cirio e Parmalat, per
le obbligazioni argentine e per l'esplodere di una crisi di sistema, fra
banche e imprese, che mette duramente sotto accusa non soltanto la qualità
del nostro capitalismo (non a caso definito familistico e amorale), ma anche
l'irrilevanza dei controlli a tutela del risparmio e della fede pubblica. Se
avessimo avuto ancora la lira il cambio sarebbe precipitato e i tassi
avrebbero registrato un deciso peggioramento, come avvenne dopo i casi
Ambrosiano ed Efim, per fare solo due esempi.

Abbiamo assistito a un avvilente rimpallo di responsabilità fra Banca d'
Italia, Consob, banche e altri soggetti, abbiamo saputo che un imprenditore
a capo dell'ottavo gruppo industriale privato italiano falsificava da
decenni la contabilità e sottraeva milioni di euro. Il conflitto d'interessi
a tutti i livelli era ed è la regola, l'arricchimento personale e illecito
una aspirazione diffusa, la trasparenza una chimera, le collusioni
ramificate e infinite.

Una malattia o una metastasi? La prova l'avremo fra qualche anno. Finora
abbiamo visto imprenditori mandare in malora i loro imperi ma salvaguardare
i patrimoni personali, case, barche, persino ricomprarsi i beni delle
procedure fallimentari con i soldi sottratti ai creditori. Nessuno è finito
su una strada o con il conto depredato come gli obbligazionisti di Parmalat.
Molti sono tornati. Li vediamo nelle istituzioni, nelle banche, in politica,
in Confindustria, tra i cavalieri del lavoro.

Se anche gli ultimi splendidi protagonisti di queste ultime storie italiane,
insieme a qualche controllore che non ha controllato o regolatore che non ha
regolato, la faranno franca senza pagare dazio, sarà inutile stracciarsi le
vesti e piangersi addosso. Il tasso di legalità è sceso ai minimi storici,
il conflitto d'interesse è penetrato anche nelle intime fessure della
società e nella più minuta quotidianità. Il delitto economico spesso paga...
Anzi, quasi sempre.