per una società della decrescita



da cunegonda.org
martedi 10 febbraio 2004

Per una società della decrescita

 Il testo che segue è di Serge Latouche, uno tra i massimi studiosi al mondo
del fenomeno della mondializzazione, professore emerito di Scienze
economiche all'Università di Paris-Sud, ha tenuto fino al 1999 un seminario
presso l'IÉDÉS (Istitute d'Ètude du Dévelopement Économique et Social). È
nome di spicco del MAUSS (Movimento Antiutilitarista nella Scienze Sociali).
È membro dell'INCAD (Internazionale Network for Cultural Alternatives to
Development) di Montreal e della Rete Culture e sviluppo Nord/Sud di
Bruxelles. È ricercatore dell'ORSTOM e del Centro studi comparati sullo
sviluppo. È membro del comitato scientifico della rivista Ecologia Politica.
È noto, oltre che come economista eterodosso (così lui stesso si definisce),
come storico dell'economia e della cultura ed esperto d'epistemologia delle
scienze sociali.

«Sarebbe senz'altro una bella soddisfazione poter mangiare alimenti sani,
vivere in un ambiente equilibrato e meno rumoroso, non subire più i
condizionamenti del traffico ecc.» Jacques Ellul (1) Il 14 febbraio 2002, a
Silver Spring, davanti ai responsabili americani della meteorologia, Gorge
W. Bush ha dichiarato: «La crescita è la chiave del progresso ambientale, in
quanto fornisce le risorse che consentono di investire nelle tecnologie
appropriate: è la soluzione, non il problema» (2). Ma di fondo, questa
posizione «pro-crescita» è condivisa dalla sinistra, compresi anche molti
«altromondisti» che nella crescita vedono la soluzione del problema sociale,
attraverso la creazione di posti di lavoro e una più equa ripartizione dei
redditi.

Un esempio è quello di Fabrice Nicolino, già cronista ecologico del
settimanale parigino Politis, vicino al movimento altromondista,
recentemente uscito dalla rivista a causa di un conflitto interno ... sulla
riforma delle pensioni. Il dibattito seguito a quest'episodio è rivelatore
del disagio in seno alla sinistra (3). Secondo il parere di un lettore, il
conflitto è nato perché qualcuno «ha osato contrapporsi a una sorta di
pensiero unico, comune a quasi tutta la classe politica francese, per la
quale la nostra felicità deve per forza passare per l'aumento della
crescita, della produttività, del potere d'acquisto e quindi dei consumi
(4)». Dopo alcuni decenni di sprechi frenetici, siamo entrati a quanto pare
in un'area di perturbazioni, sia in senso proprio che figurato.

Lo sconvolgimento climatico avanza di pari passo con le guerre del petrolio,
cui seguiranno quelle per l'acqua (5), ma non solo. Si temono pandemie, e
corriamo inoltre il rischio della scomparsa di specie vegetali e animali
essenziali in seguito alle prevedibili catastrofi biogenetiche.

In queste condizioni, la società della crescita non è né sostenibile, né
auspicabile. È dunque urgente pensare a una società della «decrescita», se
possibile serena e conviviale.

La società della crescita si può definire come una società dominata da
un'economia improntata, per l'appunto, al principio della crescita, dal
quale tende a lasciarsi fagocitare. La crescita fine a se stessa diventa
così l'obiettivo primario della vita, se non addirittura il solo. Ma una
società di questo tipo non può essere sostenibile, in quanto si scontra con
i limiti della biosfera. Se si assume come indice dell'impatto ambientale
del nostro stile di vita l'«impronta» ecologica, misurata in termini di
superficie terrestre, i risultati che emergono sono insostenibili, tanto dal
punto di vista dell'equità dei diritti di prelievo sulla natura quanto da
quello della capacità di rigenerazione della biosfera. Un cittadino degli
Stati uniti sfrutta in media 9,6 ettari di superficie terrestre, un canadese
7,2, un europeo medio 4,5. Siamo lontanissimi dall'uguaglianza planetaria, e
più ancora da una civiltà sostenibile, per la quale non potremmo sfruttare
più di 1,4 ettari a testa - e per di più con il presupposto che la
popolazione rimanga al livello attuale. Per conciliare i due imperativi
contraddittori della crescita e del rispetto per l'ambiente, gli esperti
pensano di aver trovato la pozione magica nell'ecoefficienza: un concetto
cruciale, che rappresenta in verità l'unica base seria dello «sviluppo
sostenibile». Si tratta di ridurre progressivamente l'impatto ecologico e
l'incidenza del prelievo di risorse naturali, per raggiungere un livello
compatibile con la capacità di carico accertata del pianeta (7).
Indubbiamente, l'efficienza ecologica è notevolmente migliorata; ma poiché
la corsa forsennata alla crescita non si ferma, il degrado globale del
pianeta continua ad aggravarsi.

Se da un lato l'impatto ambientale per unità di merci prodotte è diminuito,
questo risultato è sistematicamente azzerato dall'aumento quantitativo della
produzione: un fenomeno cui si è dato il nome di «effetto rimbalzo». È vero
che la «nuova economia» è relativamente più immateriale (o meno materiale);
ma essa non viene a sostituire, bensì a completare l'economia tradizionale.
E tutti gli indici dimostrano che a conti fatti il prelievo continua ad
aumentare (8).

Infine, ci vuole proprio la fede incrollabile degli economisti ortodossi per
pensare che la scienza del futuro possa essere in grado di risolvere tutti i
problemi, e per ritenere illimitate le possibilità di sostituire la natura
con l'artificio.

Secondo Ivan Illich, la fine programmata della società della crescita non
sarebbe necessariamente un male. «C'è una buona notizia: la rinuncia al
nostro modello di vita non è affatto il sacrificio di qualcosa di
intrinsecamente buono, per timore di incorrere nei suoi effetti collaterali
nocivi - un po' come quando ci si astiene da una pietanza squisita per
evitare i rischi che potrebbe comportare. Di fatto, quella pietanza è
pessima di per sé, e avremmo tutto da guadagnare facendone a meno: vivere
diversamente per vivere meglio». (9) La società della crescita non è
auspicabile per almeno tre motivi: perché incrementa le disuguaglianze e le
ingiustizie; perché dispensa un benessere largamente illusorio, e perché non
offre un tipo di vita conviviale neppure ai «benestanti»: è un'«antisocietà»
malata della propria ricchezza. Il miglioramento del tenore di vita di cui
crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei paesi del Nord si
rivela sempre più un'illusione. Indubbiamente, molti possono spendere di più
per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una
serie di costi aggiuntivi che assumono forme diverse, non sempre
monetizzabili, legate al degrado, non quantificabile ma subìto, della
qualità della vita (aria, acqua, ambiente): spese di «compensazione» e di
riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita
moderna, o determinate all'aumento dei prezzi di generi divenuti rari
(l'acqua in bottiglie, l'energia, il verde...). Herman Daly ha compilato un
indice sintetico, il «Genuine Progress Indicator» (Gpi) che rettifica il
Prodotto interno lordo tenendo conto dei costi dovuti all'inquinamento e al
degrado ambientale.

A partire dal 1970, per gli Stati uniti l'indice del «progresso genuino» è
stagnante, o addirittura in regresso, mentre quello del Prodotto interno
lordo continua registrare aumenti (10). È un peccato che in Francia nessuno
ancora si sia preso la briga di fare un calcolo del genere. Con tutta
probabilità i risultati sarebbero analoghi.

Difatti, mentre si cresce da un lato, dall'altro si accentuano le perdite.
In altri termini, in queste condizioni la crescita è un mito, persino
all'interno dell'immaginario dell'economia del benessere, se non della
società dei consumi! Ma tutto questo purtroppo non basta a farci scendere
dal bolide che ci sta portando diritti contro un muro, per cambiare
decisamente rotta. Intendiamoci bene: la decrescita è una necessità, non un
ideale in sé. E non può certo essere l'unico obiettivo di una società del
dopo-sviluppo, o di un altro mondo possibile. Si tratta di fare di necessità
virtù, e di concepire la decrescita per le società del Nord come un fine che
ha i suoi vantaggi (11). Adottare la parola d'ordine della decrescita vuol
dire innanzitutto abbandonare l'obiettivo insensato di una crescita fine a
se stessa. Ma attenzione: il significato di decrescita non è quello di
crescita negativa, espressione antinomica e assurda che letteralmente è un
po' come dire: «avanzare retrocedendo»; e che riflette in pieno il dominio
del concetto di crescita nell'immaginario.

La difficoltà di tradurre «decrescita» in inglese è rivelatrice di questo
predominio mentale dell'economicismo, e simmetrica alla difficoltà di
esprimere i concetti di crescita o sviluppo (e quindi ovviamente anche di
decrescita) nelle lingue africane. Come è noto, basta un rallentamento della
crescita per allarmare le nostre società con la minaccia della
disoccupazione e dell'abbandono dei programmi sociali, culturali e di tutela
ambientale, che assicurano un minimo di qualità della vita. Possiamo
immaginare gli effetti catastrofici di un tasso di crescita negativo! Così
come una società fondata sul lavoro non può sussistere senza lavoro, non vi
può essere nulla di peggio di una società della crescita senza crescita.
Ecco perché la sinistra istituzionale è condannata al social- liberismo,
fintanto che non osa affrontare la decolonizzazione dell'immaginario.

La decrescita è concepibile solo nell'ambito di una «società della
decrescita», i cui contorni devono essere delineati.

Un primo passo per una politica della decrescita potrebbe essere quello di
ridurre, se non sopprimere, l'impatto ambientale di attività tutt'altro che
soddisfacenti. Si tratterebbe ad esempio di ridimensionare l'enorme mole
degli spostamenti di uomini e merci sul pianeta, con tutte le loro
conseguenze negative: si potrebbe parlare di una «rilocalizzazione»
dell'economia. Non meno importante è ridimensionare la pubblicità più
invadente e rumorosa, e contrastare la prassi di accelerare artificialmente
l'obsolescenza dei manufatti e la diffusione di prodotti usa e getta, la cui
sola giustificazione è quella di far girare sempre più vorticosamente la
megamacchina infernale. Tutto ciò rappresenta, nel campo dei consumi
materiali, una notevole riserva per la decrescita.

Intesa in questo modo, una società della decrescita non comporta
necessariamente un regresso sul piano del benessere. Fin dal 1848 Karl Marx
riteneva che i tempi fossero maturi per la rivoluzione sociale; c'erano già
le condizioni per il passaggio alla società comunista dell'abbondanza.
L'incredibile sovrapproduzione dei cotonifici e di altre manifatture gli
sembrava più che sufficiente, una volta abolito il monopolio del capitale,
per garantire alla popolazione (o quanto meno a quella occidentale)
l'alimentazione, l'alloggio e il vestiario. Eppure la «ricchezza» materiale
era incomparabilmente inferiore a quella di oggi. Non c'erano macchine né
aerei, non esisteva la plastica, e neppure le lavatrici, i frigoriferi, i
computer, le biotecnologie, i pesticidi, i fertilizzanti chimici o l'energia
atomica! Nonostante gli inauditi effetti dell'industrializzazione, i bisogni
erano ancora modesti e il loro soddisfacimento era possibile. La felicità, o
almeno la sua base materiale, sembrava a portata di mano.

Per concepire e realizzare una società di decrescita serena dovremo uscire
letteralmente dall'economia. O in altri termini, rimettere in discussione il
dominio dell'economia su tutti gli altri ambiti della vita, nella teoria
come nella pratica, ma soprattutto nelle nostre menti. Una condizione
necessaria è la drastica riduzione dell'orario di lavoro imposto, per
assicurare a tutti un impiego soddisfacente.

Fin dal 1981 Jacques Ellul, che è stato uno dei primi pensatori di una
società della decrescita, aveva fissato per l'orario di lavoro l'obiettivo
di un massimo di due ore al giorno (12). Ispirandosi alla Carta «Consumi e
stile di vita» proposta dal Forum delle organizzazioni non governative (Ong)
di Rio, tutto questo si potrebbe sintetizzare in un «programma delle 6 R»:
Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.
Questi sei obiettivi interdipendenti avvieranno un circolo virtuoso di
decrescita serena, conviviale e sostenibile. Si potrebbero aggiungere varie
altre R a quelle elencate: rieducare, riconvertire, ridefinire, rimodellare,
ripensare ecc.; e naturalmente «rilocalizzare». Ma tutte queste «R» sono già
più o meno incluse nelle prime sei.

Si vede subito quali sono i valori prioritari da anteporre a quelli oggi
dominanti: l'altruismo dovrebbe prevalere sull'egoismo, la cooperazione
sulla competizione sfrenata, il piacere dello svago sull'ossessione del
lavoro, l'importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il gusto del
lavoro bello e ben fatto sull'efficientismo produttivista, il ragionevole
sul razionale, e così via. Il problema è che i valori attualmente dominanti
sono sistemici, in quanto suscitati e stimolati dal sistema, che a loro
volta contribuiscono a rafforzare. Certo, la scelta di un'etica personale
diversa, come quella della semplicità volontaria, può incidere sull'attuale
tendenza e minare alla base l'immaginario del sistema. Ma senza una sua
radicale contestazione, il cambiamento rischia di rimanere limitato.

Un programma troppo vasto e utopistico? E fino a che punto la transizione
potrebbe avvenire senza una rivoluzione violenta? O più esattamente, la
necessaria rivoluzione mentale è possibile senza violenza sociale?

Un drastico ridimensionamento dei processi che comportano danni ambientali,
cioè della produzione di valori di scambio incorporati in supporti materiali
fisici, non comporta necessariamente una limitazione della produzione di
valori d'uso per mezzo di prodotti immateriali. Per questi ultimi si
potrebbe conservare, almeno in parte, una forma mercantile.

Tuttavia, se il mercato e il profitto possono sussistere come incentivi, non
devono più costituire il fondamento del sistema. Si potrebbero concepire
misure progressive da adottare in una serie di tappe.

Ma è impossibile dire se saranno accettate passivamente dagli attuali
«privilegiati» che ne sarebbero colpiti, così come dalle stesse vittime del
sistema, dal quale sono mentalmente e fisicamente drogate. Comunque, più di
quanto possano fare tutti i nostri argomenti, l'inquietante canicola
dell'estate 2003, in particolare nell'Europa sud- occidentale, sta a
dimostrare la necessità di una società della decrescita. Per
l'indispensabile decolonizzazione dell'immaginario potremo largamente
contare, negli anni a venire, sulla pedagogia delle catastrofi.