legambiente,l'economia nelle terre dell'ecomafia



da lanuovaecologia.it

Martedì 16 Marzo 2004

 19 marzo '94 l'assassinio di don Diana

Una terribile normalità

Viaggio a Casal di Principe, terra di ecomafia, fra lo sconforto e le
speranze di chi è impegnato sul fronte della legalità

di Ugo Ferrero e Raffaele Lupoli*

Faceva freddo quel 19 marzo di dieci anni fa. Don Giuseppe Diana si
apprestava a dire messa nella sua parrocchia di San Nicola, a Casal di
Principe, un comune di 20mila abitanti in provincia di Caserta. Erano da
poco passate le sette e mezzo del giorno del suo onomastico, quando un
sicario entrò
in sagrestia e lo uccise. Quattro colpi di pistola esplosi in rapida
successione. Il parroco cadde all'istante sul pavimento del corridoio che lo
avrebbe portato all'altare: gli abiti talari macchiati di sangue, lo
sgomento delle poche persone presenti in chiesa e dei conoscenti accorsi.
Don Giuseppe, Peppino per i fedeli e gli amici, era un punto di riferimento
per la lotta alla criminalità organizzata. Insieme ad altri sei sacerdoti
dell'agro aversano, aveva deciso di schierarsi, di «fare dell'omelia
domenicale una denuncia», di firmare un appello («Per amore del mio popolo»,
del dicembre 1991) contro il clima di violenza che i clan avevano instaurato
nella cosiddetta Terra di Lavoro.

Fin dal giorno dei suoi funerali un'immagine è stata spesso associata al
martirio di don Peppino: quella del seme che morendo genera nuovi frutti. «E
per qualche anno questo germoglio è spuntato», spiega Nicola Alfiero,
l'edicolante di San Cipriano d'Aversa amico del religioso ucciso, uno dei
pochi che non ha mai smesso di battersi contro lo strapotere
della camorra. «Oltre 20mila persone parteciparono ai funerali di don Peppe.
In tanti, a partire dai politici locali poi eletti alla Camera o al Senato,
tentarono di cavalcare quei momenti. Oggi tutto è rientrato nella
normalità». Una normalità che fa paura, che incute terrore, dove le realtà
produttive diminuiscono, non c'è possibilità di crescita, la camorra la fa
da padrona e i clan si sono moltiplicati. «Diciamocelo chiaramente -
commenta Alfiero - a nessuno interessa la liberazione di questo territorio».
Il fenomeno che non riguarda solo Casal di Principe. «Anche San Cipriano
d'Aversa, Casapesenna, Villa Literno e Villa di Briano subiscono la presenza
opprimente dei clan, che hanno diramazioni anche nel basso Lazio, operano
nel resto del paese e anche all'estero», spiega Gianni Solino. Sindacalista
Cgil, negli anni Novanta era uno dei numerosi volontari dell'associazione
"Scuola di pace", impegnata con iniziative culturali e di formazione a
diffondere i valori della legalità e della tolleranza.
«Una mobilitazione culminata nella marcia del 27 novembre '97, a seguito
dell'ennesima escalation
di omicidi in pieno centro e in pieno giorno - racconta Solino - ma oggi
certe esperienze si sono esaurite: si è chiuso un ciclo. In tanti continuano
a fare del loro meglio attraverso altre forme d'impegno, o semplicemente nel
lavoro e come genitori». Una piovra che ha stretto i suoi tentacoli anche
attorno al collo della società civile, dunque. E che di piovra si tratti, di
un'organizzazione diversa e più pericolosa rispetto alla camorra
tradizionale, lo confermano anche i magistrati della Direzione distrettuale
antimafia di Napoli, secondo i quali i casalesi «mantengono caratteristiche
tipicamente mafiose».
In questo quadro per molti aspetti sconfortante la speranza viene dai tanti
giovani per i quali don Peppino, con la sua attenzione ai migranti, gli
scout, gli anziani, l'educazione dei ragazzi, continua a rappresentare il
simbolo di un cambiamento possibile.
«Capisco in parte la rassegnazione dei vecchi - commenta Roberto Fusciello,
21 anni, giovanissimo portavoce della sezione locale dei Verdi - ma quella
dei giovani è inaccettabile. È per questo che non molliamo: la lotta contro
i luoghi comuni e
la cultura mafiosa non ci spaventa». Come non ha spaventato, almeno non fino
a farla tacere, una giovane donna di 30 anni: unica fra i numerosi testimoni
dell'agguato, ha rotto il muro di omertà offrendo un aiuto determinante per
l'arresto del killer di Giuseppe Mancone, ucciso nella notte tra il 13 e il
14 agosto scorso davanti a un bar di Mondragone.
All'indifferenza e al disinteresse diffusi, Rino di Bona, 26 anni, studente
in Scienze politiche e coordinatore del circolo Legambiente di Casal di
Principe, risponde con i fatti: «Siamo partiti con le sole attività di
carattere ambientale per poi passare ai corsi di giornalismo e a un progetto
di legalità nelle scuole. Abbiamo anche contribuito a realizzare un
cortometraggio dedicato a don Peppe. Certo, se con le nostre attività
fossimo alla ricerca di un riscontro continuo nell'opinione pubblica, non
concluderemmo mai nulla. A Casal di Principe è opportuno adottare un
atteggiamento fatalista. Come diceva Sakarov - conclude amaro - "fai quel
che devi fare e sarà quel che sarà"».

CAMORRA|A Casapesenna un immobile sequestrato affittato a una banca

Nel regno dell'ecomafia

 Controllo del ciclo del cemento dalle cave al calcestruzzo, frodi nel
settore cerealicolo, eliminazione della concorrenza nel commercio del latte
e delle carni. L'ambiente gallina dalle uova d'oro dei casalesi / Il
capitolo rifiuti

Protetti da una pax mafiosa che impone perfino il divieto di spacciare droga
nell'hinterland (chi vuole procurarsela va a Secondigliano), gli affari dei
casalesi vanno a gonfie vele. Da buoni investitori i clan diversificano le
attività. Quella storica è ovviamente il racket, ma dalle numerose inchieste
emergono diversi filoni legati allo sfruttamento

Casal di Principe
delle risorse e del territorio: dal controllo della produzione del
calcestruzzo alle numerose frodi nel settore cerealicolo (gli investigatori
hanno scoperto che venivano percepiti ingenti contributi per produzioni
inesistenti e coltivazioni fantasma, collocate in centri urbani o località
boschive, piccoli laghi, spiagge e giardini pubblici), fino all'eliminazione
della concorrenza nel commercio delle carni attraverso l'obbligo per le
macellerie di acquistare solo dalle società controllate dai casalesi.

Il mese scorso gli inquirenti hanno smascherato un altro business. I
casalesi avevano acquisito, anche attraverso parenti e prestanome che
risultavano titolari di società e depositi, la concessione in esclusiva
della distribuzione del latte nella zona, con un fatturato annuo
quantificato in un centinaio di miliardi delle vecchie lire. E per
convincere produttori, distributori o commercianti ad accettare le
condizioni imposte e a non immettere sul mercato prodotti diversi da quelli
Parmalat e Cirio (soprattutto i marchi Berna e Matese), se non bastava il
nome di Sandokan, Tavoletta, Salvatore Cantiello, Antonio Del Vecchio,
Michele Zagaria, passavano alle maniere forti.

Poi c'è il mattone che, si sa, è sempre una sicurezza. E allora eccoli
impegnati a estrarre cemento dalle cave abusive, alimentando il mattone
illegale, assicurandosi il riciclaggio di denaro sporco e l'infilatrazione
negli appalti pubblici. A Casapesenna, ad esempio, in provincia di Caserta,
l'abusivismo edilizio diventa, uno dei punti di forza dell'amministrazione
mafiosa del territorio. La nota con cui il prefetto di Caserta il 14
settembre 1991 dichiarava sciolto il consiglio comunale è fin troppo
eloquente: «L'abusivismo edilizio ha assunto dimensioni e gravità
preoccupanti, ritenendosi l'investimento immobiliare e la speculazione
edilizia uno dei modi di riciclaggio del denaro da parte delle locali
organizzazioni camorristiche».

Le costruzioni realizzate abusivamente e non censite sarebbero centinaia. Il
Comune non approva il Prg, «omette di esercitare qualsiasi compito di
vigilanza, accertamento e repressione» dell'abusivismo fino a determinare
situazioni davvero paradossali. In pieno centro cittadino, infatti,
esponenti del clan Schiavone-Bidognetti costruiscono illegalmente un
edificio, sequestrato dai carabinieri quando è ancora allo stato di rustico.
Dopo il sequestro viene emessa un'ordinanza di demolizione mai eseguita; i
lavori proseguono, con la sistematica violazione dei sigilli, l'edificio
viene completato e, nell'indifferenza generale, viene affittato a una banca.

Dal Settentrione rifiuti di ogni genere in provincia di Caserta

L'anno della monnezza

Solo nel novembre dello scorso anno due gigantesche operazioni di polizia
hanno portato a galla una complessa rete di traffici illeciti. Punto
d'arrivo, le terre oggi in rivolta contro la discarica di Parco Saurino e la
costruzione di un termovalorizzatore

Ma il 2003 per i casalesi è stato l'anno della "monnezza". Solo nel novembre
dello scorso anno due gigantesche operazioni di polizia hanno portato a
galla una complessa rete di traffici illeciti che dai poli industriali del
Nord e centro Italia portavano rifiuti di ogni genere in provincia di
Caserta e altre località del Meridione. Un traffico di circa un milione di
tonnellate di rifiuti pericolosi smaltiti illecitamente per anni è stato
scoperto con un complessa indagine, denominata Operazione Cassiopea, che ha
portato alla richiesta di 97 rinvii a giudizio da parte del pm Donato
Ceglie.

L'altra operazione - denominata Re Mida perché uno dei principali indagati
si è vantato, in una conversazione telefonica, di trasformare l'immondizia
in oro - si è conclusa con l'emissione di 22 provvedimenti cautelari, il
sequestro di 20 impianti e di 100 conti correnti bancari da parte della
Procura di Napoli. Sotto accusa alcuni imprenditori che avrebbero
organizzato un'attività di traffico illecito di rifiuti. Per 6 mesi, da
febbraio 2002 a maggio 2003, 1.600 tir hanno viaggiato indisturbati dal Nord
Italia al giuglianese per scaricare tonnellate di veleni nei terreni
agricoli e nelle cave che dovevano essere risanate.

Quarantamila tonnellate di rifiuti per un giro d'affari di oltre 3 milioni
di euro, imposte evase per 500.000 euro. E ancora 20 impianti di
trattamento, compostaggio, stoccaggio sequestrati in mezza Italia. A finire
nelle cave o sotto terra erano, in particolare, fanghi industriali e olii
minerali derivanti dalla lavorazione di idrocarburi, tutte sostanze
altamente cancerogene. Fra gli arrestati anche 6 affiliati al clan casalesi.
Una vicenda che ha avuto un ulteriore strascico l'11 febbraio scorso, quando
tre discariche abusive sono state sequestrate tra Eboli e Battipaglia
(Salerno) dai carabinieri per la tutela dell'ambiente (Noe). Oltre ai
traffici illeciti di rifiuti, sono emerse anche attività estorsive da parte
di esponenti della camorra casertana, che imponevano tangenti a uno degli
imprenditori cui faceva capo l'illecito smaltimento.

La procedura ormai è consolidata. Alle organizzazioni criminali viene
affidata, anche da imprenditori conniventi, un'ampia gamma di rifiuti:
scorie di metallurgia, fanghi conciari, polveri di abbattimento fumi, terre
provenienti da attività di bonifica, trasformatori con oli contaminati da
Pcb, i famigerati policlorobifenili. Le conseguenze di questi smaltimenti
sono gravissime e si manifestano nel tempo, come dimostra l'allarme diossina
scattato tra le province di Caserta e Napoli. Qui per anni, i clan della
camorra, a cominciare dal sodalizio più pericoloso, quello dei Casalesi,
hanno gestito la fase terminale di imponenti traffici illegali di rifiuti.

Le "terre dell'ecomafia" - così vennero ribattezzate dalla prima Commissione
parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti - sono diventate oggi le
"terre della diossina", la cui presenza è stata riscontrata nel latte
vaccino, sui terreni, nel foraggio. Sull'origine di questa contaminazione
non sembrano esserci dubbi: «Le risultanze investigative - si legge in un
comunicato della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che
coordina le indagini - hanno consentito di ipotizzare le cause dell'evento,
consistenti nelle reiterate attività abusive di discarica e abbandoni dei
rifiuti e dall'incenerimento degli stessi».

Ugo Ferrero e Raffaele Lupoli

LEGALITÀ|Il magistrato chiama a raccolta la società civile campana

«Noi, dinamite per abbattere la camorra»

Donato Ceglie Né convivenza né connivenza: i clan della camorra napoletana e
casertana sono avvertiti. A dieci anni dall'assassinio di don Peppe Diana
«il cammino della legalità prosegue». Parola di Donato Ceglie, sostituto
procuratore della Repubblica presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere
(Caserta)

di Raffaele Lupoli

Né convivenza né connivenza: i clan della camorra napoletana e casertana
sono avvertiti. A dieci anni dall'assassinio di don Peppe Diana «il cammino
della legalità prosegue». Parola di Donato Ceglie, sostituto procuratore
della Repubblica presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta),
che paragona la criminalità
organizzata campana a un ecomostro da abbattere. «Siamo molti di più e
dobbiamo accerchiarli, li dobbiamo far sentire degli appestati. Nell'agire
quotidiano dobbiamo seguire l'esempio di don Peppino: il contrasto della
cultura criminale deve essere la nostra priorità esistenziale». Ma secondo
il magistrato titolare delle operazioni Re Mida e Cassiopea, che hanno
portato a galla traffici illeciti di rifiuti in lungo e in largo per
l'Italia, la risposta deve arrivare contemporaneamente da più fronti: dallo
Stato e dal Paese nel suo complesso, dalle aule scolastiche e universitarie,
dalla società civile. Perché «in fondo un territorio ha quello che si merita
e noi dobbiamo dimostrare di meritarci ben altro che l'assedio di diecimila
camorristi».

La commissione parlamentare antimafia, in missione a Caserta il mese scorso,
ha riconosciuto che ci vogliono più magistrati e forze dell'ordine. Le
risposte in questo decennio non sempre sono state adeguate.Negli ultimi anni
l'azione della giustizia ha fatto importanti passi avanti: mi riferisco ad
esempio alle operazioni Spartacus, al grande impegno profuso dalla Direzione
distrettuale antimafia di Napoli fino agli arresti eccellenti di pochi
giorni fa. Le indagini si fanno, si eseguono gli arresti, ma i livelli di
criminalità sono ancora altissimi. Ben venga - e speriamo che alle parole
seguano i fatti - un maggiore spiegamento di uomini, ma quello che
caratterizza quest'epoca dell'impegno contro la criminalità organizzata è
l'assenza di un clima, quello che delle mobilitazioni degli anni Novanta,
che via via è andato scemando e ha lasciato un vuoto.

Come si fa a colmare questo vuoto?
Non è facile, certo. D'altra parte, se un ministro della Repubblica dichiara
che con mafia e camorra dobbiamo convivere, ricostruire questo clima diventa
più difficile. Ma questa terra non può, non vuole e non deve convivere con
la criminalità organizzata. Questo è il messaggio che ciascuno, con la sua
azione quotidiana e per quello che gli compete, deve trasmettere. Non
vogliamo essere né conviventi né conniventi. Solo se questo messaggio parte
da tutti - forze dell'ordine, giudici, scuola, università, cittadini,
politica - riuscirà a pervadere tutti gli strati della società.

Intravede dei segnali che la fanno ben sperare?
Per fortuna il territorio fra le province di Napoli e Caserta è uno
straordinario laboratorio. Non dimentichiamo che Legambiente ha coniato il
termine ecomafia proprio pensando a questa terra. Qui, ancor più in tempi di
condonismo, l'abusivismo impazza, e grazie all'azione dei clan raggiunge
livelli record. Poi ci sono le cave abusive, la diossina, con gli
allevamenti sequestrati e i rischi per la salute dei cittadini. È una terra
devastata, certo, ma anche la terra dei tentativi di risposta. Quella
giudiziaria seppure a fatica arriva: ad esempio con gli abbattimenti delle
torri del Villaggio Coppola, i primi arresti per ecomafia (quelli per
traffico illecito di rifiuti introdotti con l'articolo 53 bis del cosiddetto
decreto Ronchi, ndr).

Ma chi negli anni scorsi si è mobilitato oggi si sente preso dallo
scoramento. Lamenta un calo di tensione della politica e della stessa
società civile.
Non è tempo di farsi deprimere, lo scoramento non deve prevalere. Bisogna
ripartire dai modelli positivi, che pure ci sono. I circoli di Legambiente e
quelli del Wwf, iniziative come La Vite e il pioppo, il comitato Don Peppe
Diana, che raccoglie tante esperienze, sono segnali su cui insistere,
iniziative da supportare. Certo vanno tenute in conto anche le difficoltà
ambientali del vivere in un territorio dove l'arroganza e il vandalismo dei
boss e dei loro figli dilagano.

A proposito dell'uccisione di don Peppe, in questi anni il cammino della
legalità ha dovuto superare anche il tentativo di screditare la sua figura
di prete anti-camorra.
Si è trattato di un'operazione criminale, condotta in maniera scientifica
allo scopo di demolire con menzogne e accuse costruite ad arte la nobile
figura di un martire della legalità. L'editore del quotidiano che lo
accusava (il Corriere di Caserta, ndr) è stato arrestato a dicembre per
altre vicende, con l'accusa di calunnia aggravata. Un modo di fare che
rispondeva agli interessi di uno schieramento politico-criminale interessato
a diffondere notizie false su don Diana per screditare tutto un movimento
attraverso il suo simbolo. Ma le sentenze del Tribunale e della Corte
d'Appello hanno consacrato la pista dell'omicidio come reazione al suo
impegno nella lotta contro la camorra.

Questi pronunciamenti hanno messo una pietra tombale su una vicenda che ha
fatto passare 10 anni tremendi a familiari e amici...
Già, dieci anni in cui lo Stato, presente e partecipe il giorno dei suoi
funerali, via via è scomparso, lasciando sempre più soli i cittadini
impegnati a raccogliere l'eredità di don Peppe, simbolo della cultura
democratica e di legalità di questa terra.

Anche l'informazione gioca un ruolo fondamentale nel riscatto del
territorio, non crede?
In provincia di Napoli e Caserta la mala informazione c'è sempre stata,
anche se devo dire che si tratta di una questione nazionale. Gente che
utilizza i media per fare gli interessi di una parte politica, o per
estorcere denaro, ce n'è tanta in questo Paese: queste pratiche purtroppo
pagano. Ma non voglio fare di tutta l'erba un fascio. Per fortuna esiste
anche una buona informazione: corretta, accurata, per niente scandalistica e
democratica. Soprattutto dove maggiore è la presenza dei clan, però, stenta
a crescere. Ci dobbiamo dare da fare per supportarla.

Qual è secondo lei il filo che dovrebbe unire tutte le iniziative
organizzate nelle prossime settimane per ricordare la figura di don Peppe?
Se riusciamo a sederci insieme per riflettere, se dalla memoria passiamo
anche all'incazzatura, ma poi alla risposta attraverso l'azione unitaria,
sarà il modo migliore di commemorare don Peppe. Forse il limite che non
consente alla società civile di acquisire maggior peso, è la mancanza di un
progetto ampio e unitario. Il simbolo della nostra azione deve essere
l'abbattimento del Villaggio Coppola. A demolire quell'ecomostro è stata la
caparbietà della magistratura, delle associazioni ambientaliste e dei
semplici cittadini. Lo stesso meccanismo si deve innescare nei confronti
della camorra. Ci sarà sempre dinamite per distruggere il male.

15 marzo 2004