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legambiente,l'economia nelle terre dell'ecomafia
- Subject: legambiente,l'economia nelle terre dell'ecomafia
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 23 Mar 2004 06:51:04 +0100
da lanuovaecologia.it Martedì 16 Marzo 2004 19 marzo '94 l'assassinio di don Diana Una terribile normalità Viaggio a Casal di Principe, terra di ecomafia, fra lo sconforto e le speranze di chi è impegnato sul fronte della legalità di Ugo Ferrero e Raffaele Lupoli* Faceva freddo quel 19 marzo di dieci anni fa. Don Giuseppe Diana si apprestava a dire messa nella sua parrocchia di San Nicola, a Casal di Principe, un comune di 20mila abitanti in provincia di Caserta. Erano da poco passate le sette e mezzo del giorno del suo onomastico, quando un sicario entrò in sagrestia e lo uccise. Quattro colpi di pistola esplosi in rapida successione. Il parroco cadde all'istante sul pavimento del corridoio che lo avrebbe portato all'altare: gli abiti talari macchiati di sangue, lo sgomento delle poche persone presenti in chiesa e dei conoscenti accorsi. Don Giuseppe, Peppino per i fedeli e gli amici, era un punto di riferimento per la lotta alla criminalità organizzata. Insieme ad altri sei sacerdoti dell'agro aversano, aveva deciso di schierarsi, di «fare dell'omelia domenicale una denuncia», di firmare un appello («Per amore del mio popolo», del dicembre 1991) contro il clima di violenza che i clan avevano instaurato nella cosiddetta Terra di Lavoro. Fin dal giorno dei suoi funerali un'immagine è stata spesso associata al martirio di don Peppino: quella del seme che morendo genera nuovi frutti. «E per qualche anno questo germoglio è spuntato», spiega Nicola Alfiero, l'edicolante di San Cipriano d'Aversa amico del religioso ucciso, uno dei pochi che non ha mai smesso di battersi contro lo strapotere della camorra. «Oltre 20mila persone parteciparono ai funerali di don Peppe. In tanti, a partire dai politici locali poi eletti alla Camera o al Senato, tentarono di cavalcare quei momenti. Oggi tutto è rientrato nella normalità». Una normalità che fa paura, che incute terrore, dove le realtà produttive diminuiscono, non c'è possibilità di crescita, la camorra la fa da padrona e i clan si sono moltiplicati. «Diciamocelo chiaramente - commenta Alfiero - a nessuno interessa la liberazione di questo territorio». Il fenomeno che non riguarda solo Casal di Principe. «Anche San Cipriano d'Aversa, Casapesenna, Villa Literno e Villa di Briano subiscono la presenza opprimente dei clan, che hanno diramazioni anche nel basso Lazio, operano nel resto del paese e anche all'estero», spiega Gianni Solino. Sindacalista Cgil, negli anni Novanta era uno dei numerosi volontari dell'associazione "Scuola di pace", impegnata con iniziative culturali e di formazione a diffondere i valori della legalità e della tolleranza. «Una mobilitazione culminata nella marcia del 27 novembre '97, a seguito dell'ennesima escalation di omicidi in pieno centro e in pieno giorno - racconta Solino - ma oggi certe esperienze si sono esaurite: si è chiuso un ciclo. In tanti continuano a fare del loro meglio attraverso altre forme d'impegno, o semplicemente nel lavoro e come genitori». Una piovra che ha stretto i suoi tentacoli anche attorno al collo della società civile, dunque. E che di piovra si tratti, di un'organizzazione diversa e più pericolosa rispetto alla camorra tradizionale, lo confermano anche i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, secondo i quali i casalesi «mantengono caratteristiche tipicamente mafiose». In questo quadro per molti aspetti sconfortante la speranza viene dai tanti giovani per i quali don Peppino, con la sua attenzione ai migranti, gli scout, gli anziani, l'educazione dei ragazzi, continua a rappresentare il simbolo di un cambiamento possibile. «Capisco in parte la rassegnazione dei vecchi - commenta Roberto Fusciello, 21 anni, giovanissimo portavoce della sezione locale dei Verdi - ma quella dei giovani è inaccettabile. È per questo che non molliamo: la lotta contro i luoghi comuni e la cultura mafiosa non ci spaventa». Come non ha spaventato, almeno non fino a farla tacere, una giovane donna di 30 anni: unica fra i numerosi testimoni dell'agguato, ha rotto il muro di omertà offrendo un aiuto determinante per l'arresto del killer di Giuseppe Mancone, ucciso nella notte tra il 13 e il 14 agosto scorso davanti a un bar di Mondragone. All'indifferenza e al disinteresse diffusi, Rino di Bona, 26 anni, studente in Scienze politiche e coordinatore del circolo Legambiente di Casal di Principe, risponde con i fatti: «Siamo partiti con le sole attività di carattere ambientale per poi passare ai corsi di giornalismo e a un progetto di legalità nelle scuole. Abbiamo anche contribuito a realizzare un cortometraggio dedicato a don Peppe. Certo, se con le nostre attività fossimo alla ricerca di un riscontro continuo nell'opinione pubblica, non concluderemmo mai nulla. A Casal di Principe è opportuno adottare un atteggiamento fatalista. Come diceva Sakarov - conclude amaro - "fai quel che devi fare e sarà quel che sarà"». CAMORRA|A Casapesenna un immobile sequestrato affittato a una banca Nel regno dell'ecomafia Controllo del ciclo del cemento dalle cave al calcestruzzo, frodi nel settore cerealicolo, eliminazione della concorrenza nel commercio del latte e delle carni. L'ambiente gallina dalle uova d'oro dei casalesi / Il capitolo rifiuti Protetti da una pax mafiosa che impone perfino il divieto di spacciare droga nell'hinterland (chi vuole procurarsela va a Secondigliano), gli affari dei casalesi vanno a gonfie vele. Da buoni investitori i clan diversificano le attività. Quella storica è ovviamente il racket, ma dalle numerose inchieste emergono diversi filoni legati allo sfruttamento Casal di Principe delle risorse e del territorio: dal controllo della produzione del calcestruzzo alle numerose frodi nel settore cerealicolo (gli investigatori hanno scoperto che venivano percepiti ingenti contributi per produzioni inesistenti e coltivazioni fantasma, collocate in centri urbani o località boschive, piccoli laghi, spiagge e giardini pubblici), fino all'eliminazione della concorrenza nel commercio delle carni attraverso l'obbligo per le macellerie di acquistare solo dalle società controllate dai casalesi. Il mese scorso gli inquirenti hanno smascherato un altro business. I casalesi avevano acquisito, anche attraverso parenti e prestanome che risultavano titolari di società e depositi, la concessione in esclusiva della distribuzione del latte nella zona, con un fatturato annuo quantificato in un centinaio di miliardi delle vecchie lire. E per convincere produttori, distributori o commercianti ad accettare le condizioni imposte e a non immettere sul mercato prodotti diversi da quelli Parmalat e Cirio (soprattutto i marchi Berna e Matese), se non bastava il nome di Sandokan, Tavoletta, Salvatore Cantiello, Antonio Del Vecchio, Michele Zagaria, passavano alle maniere forti. Poi c'è il mattone che, si sa, è sempre una sicurezza. E allora eccoli impegnati a estrarre cemento dalle cave abusive, alimentando il mattone illegale, assicurandosi il riciclaggio di denaro sporco e l'infilatrazione negli appalti pubblici. A Casapesenna, ad esempio, in provincia di Caserta, l'abusivismo edilizio diventa, uno dei punti di forza dell'amministrazione mafiosa del territorio. La nota con cui il prefetto di Caserta il 14 settembre 1991 dichiarava sciolto il consiglio comunale è fin troppo eloquente: «L'abusivismo edilizio ha assunto dimensioni e gravità preoccupanti, ritenendosi l'investimento immobiliare e la speculazione edilizia uno dei modi di riciclaggio del denaro da parte delle locali organizzazioni camorristiche». Le costruzioni realizzate abusivamente e non censite sarebbero centinaia. Il Comune non approva il Prg, «omette di esercitare qualsiasi compito di vigilanza, accertamento e repressione» dell'abusivismo fino a determinare situazioni davvero paradossali. In pieno centro cittadino, infatti, esponenti del clan Schiavone-Bidognetti costruiscono illegalmente un edificio, sequestrato dai carabinieri quando è ancora allo stato di rustico. Dopo il sequestro viene emessa un'ordinanza di demolizione mai eseguita; i lavori proseguono, con la sistematica violazione dei sigilli, l'edificio viene completato e, nell'indifferenza generale, viene affittato a una banca. Dal Settentrione rifiuti di ogni genere in provincia di Caserta L'anno della monnezza Solo nel novembre dello scorso anno due gigantesche operazioni di polizia hanno portato a galla una complessa rete di traffici illeciti. Punto d'arrivo, le terre oggi in rivolta contro la discarica di Parco Saurino e la costruzione di un termovalorizzatore Ma il 2003 per i casalesi è stato l'anno della "monnezza". Solo nel novembre dello scorso anno due gigantesche operazioni di polizia hanno portato a galla una complessa rete di traffici illeciti che dai poli industriali del Nord e centro Italia portavano rifiuti di ogni genere in provincia di Caserta e altre località del Meridione. Un traffico di circa un milione di tonnellate di rifiuti pericolosi smaltiti illecitamente per anni è stato scoperto con un complessa indagine, denominata Operazione Cassiopea, che ha portato alla richiesta di 97 rinvii a giudizio da parte del pm Donato Ceglie. L'altra operazione - denominata Re Mida perché uno dei principali indagati si è vantato, in una conversazione telefonica, di trasformare l'immondizia in oro - si è conclusa con l'emissione di 22 provvedimenti cautelari, il sequestro di 20 impianti e di 100 conti correnti bancari da parte della Procura di Napoli. Sotto accusa alcuni imprenditori che avrebbero organizzato un'attività di traffico illecito di rifiuti. Per 6 mesi, da febbraio 2002 a maggio 2003, 1.600 tir hanno viaggiato indisturbati dal Nord Italia al giuglianese per scaricare tonnellate di veleni nei terreni agricoli e nelle cave che dovevano essere risanate. Quarantamila tonnellate di rifiuti per un giro d'affari di oltre 3 milioni di euro, imposte evase per 500.000 euro. E ancora 20 impianti di trattamento, compostaggio, stoccaggio sequestrati in mezza Italia. A finire nelle cave o sotto terra erano, in particolare, fanghi industriali e olii minerali derivanti dalla lavorazione di idrocarburi, tutte sostanze altamente cancerogene. Fra gli arrestati anche 6 affiliati al clan casalesi. Una vicenda che ha avuto un ulteriore strascico l'11 febbraio scorso, quando tre discariche abusive sono state sequestrate tra Eboli e Battipaglia (Salerno) dai carabinieri per la tutela dell'ambiente (Noe). Oltre ai traffici illeciti di rifiuti, sono emerse anche attività estorsive da parte di esponenti della camorra casertana, che imponevano tangenti a uno degli imprenditori cui faceva capo l'illecito smaltimento. La procedura ormai è consolidata. Alle organizzazioni criminali viene affidata, anche da imprenditori conniventi, un'ampia gamma di rifiuti: scorie di metallurgia, fanghi conciari, polveri di abbattimento fumi, terre provenienti da attività di bonifica, trasformatori con oli contaminati da Pcb, i famigerati policlorobifenili. Le conseguenze di questi smaltimenti sono gravissime e si manifestano nel tempo, come dimostra l'allarme diossina scattato tra le province di Caserta e Napoli. Qui per anni, i clan della camorra, a cominciare dal sodalizio più pericoloso, quello dei Casalesi, hanno gestito la fase terminale di imponenti traffici illegali di rifiuti. Le "terre dell'ecomafia" - così vennero ribattezzate dalla prima Commissione parlamentare d'inchiesta sul ciclo dei rifiuti - sono diventate oggi le "terre della diossina", la cui presenza è stata riscontrata nel latte vaccino, sui terreni, nel foraggio. Sull'origine di questa contaminazione non sembrano esserci dubbi: «Le risultanze investigative - si legge in un comunicato della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, che coordina le indagini - hanno consentito di ipotizzare le cause dell'evento, consistenti nelle reiterate attività abusive di discarica e abbandoni dei rifiuti e dall'incenerimento degli stessi». Ugo Ferrero e Raffaele Lupoli LEGALITÀ|Il magistrato chiama a raccolta la società civile campana «Noi, dinamite per abbattere la camorra» Donato Ceglie Né convivenza né connivenza: i clan della camorra napoletana e casertana sono avvertiti. A dieci anni dall'assassinio di don Peppe Diana «il cammino della legalità prosegue». Parola di Donato Ceglie, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) di Raffaele Lupoli Né convivenza né connivenza: i clan della camorra napoletana e casertana sono avvertiti. A dieci anni dall'assassinio di don Peppe Diana «il cammino della legalità prosegue». Parola di Donato Ceglie, sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), che paragona la criminalità organizzata campana a un ecomostro da abbattere. «Siamo molti di più e dobbiamo accerchiarli, li dobbiamo far sentire degli appestati. Nell'agire quotidiano dobbiamo seguire l'esempio di don Peppino: il contrasto della cultura criminale deve essere la nostra priorità esistenziale». Ma secondo il magistrato titolare delle operazioni Re Mida e Cassiopea, che hanno portato a galla traffici illeciti di rifiuti in lungo e in largo per l'Italia, la risposta deve arrivare contemporaneamente da più fronti: dallo Stato e dal Paese nel suo complesso, dalle aule scolastiche e universitarie, dalla società civile. Perché «in fondo un territorio ha quello che si merita e noi dobbiamo dimostrare di meritarci ben altro che l'assedio di diecimila camorristi». La commissione parlamentare antimafia, in missione a Caserta il mese scorso, ha riconosciuto che ci vogliono più magistrati e forze dell'ordine. Le risposte in questo decennio non sempre sono state adeguate.Negli ultimi anni l'azione della giustizia ha fatto importanti passi avanti: mi riferisco ad esempio alle operazioni Spartacus, al grande impegno profuso dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli fino agli arresti eccellenti di pochi giorni fa. Le indagini si fanno, si eseguono gli arresti, ma i livelli di criminalità sono ancora altissimi. Ben venga - e speriamo che alle parole seguano i fatti - un maggiore spiegamento di uomini, ma quello che caratterizza quest'epoca dell'impegno contro la criminalità organizzata è l'assenza di un clima, quello che delle mobilitazioni degli anni Novanta, che via via è andato scemando e ha lasciato un vuoto. Come si fa a colmare questo vuoto? Non è facile, certo. D'altra parte, se un ministro della Repubblica dichiara che con mafia e camorra dobbiamo convivere, ricostruire questo clima diventa più difficile. Ma questa terra non può, non vuole e non deve convivere con la criminalità organizzata. Questo è il messaggio che ciascuno, con la sua azione quotidiana e per quello che gli compete, deve trasmettere. Non vogliamo essere né conviventi né conniventi. Solo se questo messaggio parte da tutti - forze dell'ordine, giudici, scuola, università, cittadini, politica - riuscirà a pervadere tutti gli strati della società. Intravede dei segnali che la fanno ben sperare? Per fortuna il territorio fra le province di Napoli e Caserta è uno straordinario laboratorio. Non dimentichiamo che Legambiente ha coniato il termine ecomafia proprio pensando a questa terra. Qui, ancor più in tempi di condonismo, l'abusivismo impazza, e grazie all'azione dei clan raggiunge livelli record. Poi ci sono le cave abusive, la diossina, con gli allevamenti sequestrati e i rischi per la salute dei cittadini. È una terra devastata, certo, ma anche la terra dei tentativi di risposta. Quella giudiziaria seppure a fatica arriva: ad esempio con gli abbattimenti delle torri del Villaggio Coppola, i primi arresti per ecomafia (quelli per traffico illecito di rifiuti introdotti con l'articolo 53 bis del cosiddetto decreto Ronchi, ndr). Ma chi negli anni scorsi si è mobilitato oggi si sente preso dallo scoramento. Lamenta un calo di tensione della politica e della stessa società civile. Non è tempo di farsi deprimere, lo scoramento non deve prevalere. Bisogna ripartire dai modelli positivi, che pure ci sono. I circoli di Legambiente e quelli del Wwf, iniziative come La Vite e il pioppo, il comitato Don Peppe Diana, che raccoglie tante esperienze, sono segnali su cui insistere, iniziative da supportare. Certo vanno tenute in conto anche le difficoltà ambientali del vivere in un territorio dove l'arroganza e il vandalismo dei boss e dei loro figli dilagano. A proposito dell'uccisione di don Peppe, in questi anni il cammino della legalità ha dovuto superare anche il tentativo di screditare la sua figura di prete anti-camorra. Si è trattato di un'operazione criminale, condotta in maniera scientifica allo scopo di demolire con menzogne e accuse costruite ad arte la nobile figura di un martire della legalità. L'editore del quotidiano che lo accusava (il Corriere di Caserta, ndr) è stato arrestato a dicembre per altre vicende, con l'accusa di calunnia aggravata. Un modo di fare che rispondeva agli interessi di uno schieramento politico-criminale interessato a diffondere notizie false su don Diana per screditare tutto un movimento attraverso il suo simbolo. Ma le sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello hanno consacrato la pista dell'omicidio come reazione al suo impegno nella lotta contro la camorra. Questi pronunciamenti hanno messo una pietra tombale su una vicenda che ha fatto passare 10 anni tremendi a familiari e amici... Già, dieci anni in cui lo Stato, presente e partecipe il giorno dei suoi funerali, via via è scomparso, lasciando sempre più soli i cittadini impegnati a raccogliere l'eredità di don Peppe, simbolo della cultura democratica e di legalità di questa terra. Anche l'informazione gioca un ruolo fondamentale nel riscatto del territorio, non crede? In provincia di Napoli e Caserta la mala informazione c'è sempre stata, anche se devo dire che si tratta di una questione nazionale. Gente che utilizza i media per fare gli interessi di una parte politica, o per estorcere denaro, ce n'è tanta in questo Paese: queste pratiche purtroppo pagano. Ma non voglio fare di tutta l'erba un fascio. Per fortuna esiste anche una buona informazione: corretta, accurata, per niente scandalistica e democratica. Soprattutto dove maggiore è la presenza dei clan, però, stenta a crescere. Ci dobbiamo dare da fare per supportarla. Qual è secondo lei il filo che dovrebbe unire tutte le iniziative organizzate nelle prossime settimane per ricordare la figura di don Peppe? Se riusciamo a sederci insieme per riflettere, se dalla memoria passiamo anche all'incazzatura, ma poi alla risposta attraverso l'azione unitaria, sarà il modo migliore di commemorare don Peppe. Forse il limite che non consente alla società civile di acquisire maggior peso, è la mancanza di un progetto ampio e unitario. Il simbolo della nostra azione deve essere l'abbattimento del Villaggio Coppola. A demolire quell'ecomostro è stata la caparbietà della magistratura, delle associazioni ambientaliste e dei semplici cittadini. Lo stesso meccanismo si deve innescare nei confronti della camorra. Ci sarà sempre dinamite per distruggere il male. 15 marzo 2004
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