etica e finanza



dal corriere.it
lunedi 26 dicembre 2004

Tante regole ma il conflitto rimane

Il codice Preda. La Draghi. Ora la riforma del diritto societario. Non hanno
risolto il punto chiave

A evitare la manipolazione dei bilanci, con la complicità più o meno
evidente delle società di revisione e dei sindaci emersa dai casi Cirio e
Parmalat, non sono servite le centinaia di pagine sfornate in questi anni
dagli uffici legislativi del ministero del Tesoro, della Consob, del
ministero di Grazia e giustizia. Prima il decreto 58 del 1998 meglio
conosciuto come la «legge Draghi», poi il cosiddetto «Codice Preda» del 1999
per l'autodisciplina delle società quotate, poi la revisione del diritto
societario (ancora in via di definizione) redatto dalla commissione guidata
da Michele Vietti che nel 2002 ha varato la nuova legge sul falso in
bilancio. Una valanga di pagine, di norme e di commi messi a punto dai
migliori cervelli del diritto societario e della governance non sono però
riusciti ad affrontare il vero nodo: il conflitto di interessi tra società
di revisione e di consulenza, tra consiglio di amministrazione e sindaci.
Come è stato possibile?
Per Tommaso Di Tanno, esperto di diritto societario e presidente del
consiglio sindacale della Bnl, «questa situazione è il frutto di una
micidiale azione di lobby da parte delle potenti società di revisione». Un
male non solo italiano, intendiamoci, tanto è vero che gli Stati Uniti hanno
cercato di risolvere il problema solo dopo lo scandalo Enron creando la
severa Sarbanes-Oxley Act. La Sarbanes-Oxley, sostanzialmente, mette il
bisturi nell'inconfessabile commistione delle società di revisione con le
imprese loro committenti: da allora, circa due anni fa, chi fa revisione
deve abbandonare la consulenza. E così è iniziato un processo di dismissioni
da parte di centinaia di studi grandi e piccoli dei loro brand di
consulenza.
In Italia tutto questo deve ancora avvenire. Il progetto del ministro dell'
Economia Giulio Tremonti va in questa direzione ma il mondo degli accademici
si sta interrogando se sarà sufficiente.
Tommaso Di Tanno è convinto che il ventre molle della revisione sta nelle
basse remunerazioni dei sindaci, fissate a un massimo di 40 mila euro
ciascuno. Un onorario voluto dalla Confindustria con l'obiettivo di
controllare i costi e ratificato dagli ordini professionali di ragionieri e
commercialisti. «Il codice Preda prevede già che nel collegio sindacale un
posto sia riservato ai soci di minoranza», spiega, «e la maggior parte delle
aziende di sono adeguate». Ma il problema da porsi è il seguente: perché
alla fine anche il comportamento di quel sindaco si è uniformato alla
maggioranza? «Prendiamo il caso Parmalat», continua Di Tanno, «è impossibile
per un serio professionista controllare la galassia di centinaia di società,
parte delle quali off-shore, con una tariffa di 40 mila euro all'anno». Il
risultato è che si farà coinvolgere in incarichi di consulenza interna
rinunciando così alla propria indipendenza di giudizio.
Altra strada da percorrere potrebbe essere quella di disciplinare meglio il
funzionamento dell'auditing committee, il cui scopo è quello di
supervisionare la formazione del bilancio. Alla Parmalat, tanto per fare un
esempio, il presidente dell'auditing committee era lo stesso ragionier
Tonna, all'epoca direttore finanziario del gruppo. «E' evidente», sostiene
ancora Di Tanno, «che quell'incarico deve essere ricoperto solo da persone
competenti e indipendenti dalla società».
Altri esperti puntano sulla revisione degli assetti della corporate
governance, con la creazione di contrappesi interni, che di fatto non è
ancora risolto. «L'ideale sarebbe mettere mano alla disciplina delle società
quotate», questa l'opinione di Luigi Bianchi, docente di diritto commerciale
alla Bocconi, «inserendo una serie di griglie come l'incarico a tempo per i
revisori (massimo tre anni), compensi adeguati, compiti definiti
specialmente nelle operazioni di finanza straordinaria». Tra le proposte che
circolano negli ambienti degli avvocati societari, quella sintetizzata dal
giurista Alessandro De Nicola, presidente di Adam Smith Society. «Secondo la
mia esperienza sarebbe più decisivo», afferma De Nicola, «allineare gli
interessi dei revisori con chi deve essere protetto, che nelle società a
controllo diretto (tipo Parmalat) sono gli azionisti di minoranza, nelle
public company l'azionariato diffuso».
Per De Nicola una soluzione potrebbe essere quella di far nominare i
revisori dalla minoranza, o dagli obbligazionisti, o da una maggioranza
espressione di almeno i due terzi del capitale.
Tutti contributi che sicuramente sfoceranno nei prossimi giorni in proposte
di legge per aggiornare e rendere più aderenti le attuali normative con
quanto chiede il mondo del risparmio alla luce delle devastanti vicende
emerse in questi ultimi mesi. Intanto il governo, in attesa di varare mega
riforme sulle Authority che necessariamente avranno tempi lunghi, potrebbe
risolvere un problema che da mesi condiziona il pieno funzionamento del
controllo sul mercato azionario. La nomina del quinto commissario della
Consob, vacante da quando Filippo Cavazzuti ha rassegnato le dimissioni, e
non sostituito perché non c'è accordo sul nome.


Etica o lifting?

Molti parlano di etica, qualcuno la pratica

Secondo una ricerca sulle grandi società, chi realizza il bilancio sociale
ha anche una buona governance. Ma non sempre è così: Parmalat docet

U n paio di anni fa una società della pelletteria cercava un manager di
prima linea. Particolare, però. Perché doveva rispettare - e soprattutto
aver rispettato nel suo passato - la regola del «non fare ad altri ciò che
non vorresti fosse fatto a te». Proprio così: l'imprenditore in prima
persona chiese, foglio dattiloscritto alla mano, che il manager prendesse
questo impegno formalmente e che avesse una storia personale e aziendale
coerente con la responsabilità che si sarebbe assunto. Che sapesse fare il
suo mestiere era scontato, non invece il fatto che fosse anche una brava
persona. Per il cacciatore di teste che doveva fare la ricerca - e poi non
la fece - fu la prima e ultima volta che ricevette una richiesta di questo
tipo. Dell'etica si parla molto in queste settimane. E la storia di Calisto
Tanzi (vedere articolo a fianco) dimostra quanto spesso si faccia di questo
argomento solo un problema di immagine. Perché, come certificano le analisi,
un'azienda considerata «buona» vale di più: anzi, secondo la maggior parte
dei manager riuniti nei giorni scorsi al World Economic Forum di Davos, la
reputazione del marchio vale oltre il 40% della capitalizzazione della
propria società.
Secondo chi si occupa di questi temi, però, starebbe crescendo una «reale»
attenzione all'etica, spinta proprio dai risultati economici che questa
porta alle società quando è praticata. Un circolo virtuoso. «Le aziende
stanno facendo propria l'esigenza di migliorare i rapporti con gli
stakeholder - dice Francesco Biondi, senior partner della società di
consulenza Governance Consulting -. Magari inizialmente sono spinte dall'
idea dell'immagine ma poi, una volta fatti gli investimenti, si rendono
conto che è sempre un gioco a somma positiva. Perché l'impatto sull'azienda
e sulle performance è notevole: sulla fidelizzazione dei clienti, sulla
produttività, sul turnover che è basso, sulle economie di scala, oltre
ovviamente sull'immagine. L'importante è non aver fretta, perché i risultati
si colgono nel medio-lungo periodo».
Il punto è capire quando ci si trova di fronte a un caso solo esteriore
(vedi Parmalat) e quando invece la sbandierata eticità corrisponda al Dna
dell'azienda. Posto che alla fine tutto dipende dalle persone - e, dunque, è
difficile da valutare -, per le società un metro può essere la governance ,
cioè le regole di governo che un'azienda si dà. Governance Consulting ha
realizzato un'indagine su 19 società del Mib30 che stendono bilanci sociali,
ambientali o di sostenibilità (quest'ultimo è il documento che racchiude
tutti e due i precedenti) e ne ha messo a confronto la governance (vedere
tabella in alto). Nel complesso, piuttosto buona, con l'eccellenza di
Unicredito, «l'unica azienda italiana - ricorda Biondi - inserita nell'
indice Dow Jones europeo delle aziende di sostenibilità».
Le regole che disciplinano le aziende sono naturalmente uno degli elementi
presi in considerazione da chi assegna i rating etici perché, come spiega
Paolo Sardi, direttore di E-Capital Partners, «la governance rappresenta l'
elemento fondamentale di approccio socialmente responsabile al mercato». La
società, presieduta da Claudio Demattè, ha creato due indici di titoli
«etici»: Ethical Index Euro e Ethical Index Global. Del primo, composto da
150 aziende europee, si trovano tra le prime quindici società (quelle che
pesano di più sull'indice), due italiane: Eni e Tim. Ma più sotto si trovano
anche altri titoli italiani, come appunto Unicredito.
Può forse apparire singolare che ci sia un nome come quelle dell'Eni, che
opera in un settore problematico come quello del petrolio. Ma la società
guidata da Vittorio Mincato ricorre sempre nei giudizi positivi. Dice per
esempio Jacopo Gavazzeni Schettini, partner di Fleet & Temple, società che
si occupa di governance etica, che «Eni è molto trasparente e ha un grado di
indipendenza degli amministratori ben più elevato di società a capitale
familiare. Ci sono aziende che operano in settori meno problematici ma che
hanno controlli interni minori e che magari hanno il maggior azionista che
siede nel consiglio di amministrazione, lo stesso azionista che poi in
assemblea nomina i sindaci». Secondo Gavazzeni Schettini per capire quanto
un'azienda sia etica bisogna rifarsi alle regole in materia espresse da
organizzazioni internazionali come l'Ocse che, in un documento del '99, ha
indicato le sue linee guida. E, dunque: trasparenza, diritti degli azionisti
(soprattutto di minoranza), doveri e diritti degli amministratori (loro
indipendenza compresa), doveri e diritti dell'azienda verso gli stakeholder
(dipendenti, fornitori, clienti, territorio).
Il tema dell'indipendenza degli amministratori ricorre molto in questo
periodo. «E' ovvio - dice ancora Gavazzeni Schettini - che non si può dire
indipendente un amministratore che sia anche azionista, tanto più se
azionista di riferimento. Ma anche l'amministratore che sia, al tempo
stesso, nel consiglio della controllante e della controllata, cosa che
succede spesso nella finanza, nelle assicurazioni, nel bancario. Tanti
amministratori non indipendenti rendono la società debole, non fanno gli
interessi a medio dell'azionista».
Ma come si arriva a definire un rating etico? E-Capital Partners fa una
ricerca che si muove si più fronti. Il primo screening è quello negativo,
con l'esclusione delle società che operano in settori negativi per l'uomo,
come il tabacco, i prodotti militari, la pornografia, il gioco d'azzardo. Il
secondo screening è quello positivo, e cioè la selezione di società che
mostrano performance sociali e ambientali di rilievo (prodotti, ambiente,
comunità locali, minoranze, dipendenti, informazioni complete, corporate
governance, etc). Infine, inclusione di quelle società che operano in
settori o in Paesi a rischio ma che mettono in evidenza ottime performance
sociali e ambientali. Ogni due-tre mesi ci sono le verifiche e nel 5-10% dei
casi c'è chi esce dall'indice. L'ultima ad uscire, per E-Capital Partners, è
stata Adecco.

Maria Silvia Sacchi