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etica e finanza
- Subject: etica e finanza
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 12 Mar 2004 06:55:13 +0100
dal corriere.it lunedi 26 dicembre 2004 Tante regole ma il conflitto rimane Il codice Preda. La Draghi. Ora la riforma del diritto societario. Non hanno risolto il punto chiave A evitare la manipolazione dei bilanci, con la complicità più o meno evidente delle società di revisione e dei sindaci emersa dai casi Cirio e Parmalat, non sono servite le centinaia di pagine sfornate in questi anni dagli uffici legislativi del ministero del Tesoro, della Consob, del ministero di Grazia e giustizia. Prima il decreto 58 del 1998 meglio conosciuto come la «legge Draghi», poi il cosiddetto «Codice Preda» del 1999 per l'autodisciplina delle società quotate, poi la revisione del diritto societario (ancora in via di definizione) redatto dalla commissione guidata da Michele Vietti che nel 2002 ha varato la nuova legge sul falso in bilancio. Una valanga di pagine, di norme e di commi messi a punto dai migliori cervelli del diritto societario e della governance non sono però riusciti ad affrontare il vero nodo: il conflitto di interessi tra società di revisione e di consulenza, tra consiglio di amministrazione e sindaci. Come è stato possibile? Per Tommaso Di Tanno, esperto di diritto societario e presidente del consiglio sindacale della Bnl, «questa situazione è il frutto di una micidiale azione di lobby da parte delle potenti società di revisione». Un male non solo italiano, intendiamoci, tanto è vero che gli Stati Uniti hanno cercato di risolvere il problema solo dopo lo scandalo Enron creando la severa Sarbanes-Oxley Act. La Sarbanes-Oxley, sostanzialmente, mette il bisturi nell'inconfessabile commistione delle società di revisione con le imprese loro committenti: da allora, circa due anni fa, chi fa revisione deve abbandonare la consulenza. E così è iniziato un processo di dismissioni da parte di centinaia di studi grandi e piccoli dei loro brand di consulenza. In Italia tutto questo deve ancora avvenire. Il progetto del ministro dell' Economia Giulio Tremonti va in questa direzione ma il mondo degli accademici si sta interrogando se sarà sufficiente. Tommaso Di Tanno è convinto che il ventre molle della revisione sta nelle basse remunerazioni dei sindaci, fissate a un massimo di 40 mila euro ciascuno. Un onorario voluto dalla Confindustria con l'obiettivo di controllare i costi e ratificato dagli ordini professionali di ragionieri e commercialisti. «Il codice Preda prevede già che nel collegio sindacale un posto sia riservato ai soci di minoranza», spiega, «e la maggior parte delle aziende di sono adeguate». Ma il problema da porsi è il seguente: perché alla fine anche il comportamento di quel sindaco si è uniformato alla maggioranza? «Prendiamo il caso Parmalat», continua Di Tanno, «è impossibile per un serio professionista controllare la galassia di centinaia di società, parte delle quali off-shore, con una tariffa di 40 mila euro all'anno». Il risultato è che si farà coinvolgere in incarichi di consulenza interna rinunciando così alla propria indipendenza di giudizio. Altra strada da percorrere potrebbe essere quella di disciplinare meglio il funzionamento dell'auditing committee, il cui scopo è quello di supervisionare la formazione del bilancio. Alla Parmalat, tanto per fare un esempio, il presidente dell'auditing committee era lo stesso ragionier Tonna, all'epoca direttore finanziario del gruppo. «E' evidente», sostiene ancora Di Tanno, «che quell'incarico deve essere ricoperto solo da persone competenti e indipendenti dalla società». Altri esperti puntano sulla revisione degli assetti della corporate governance, con la creazione di contrappesi interni, che di fatto non è ancora risolto. «L'ideale sarebbe mettere mano alla disciplina delle società quotate», questa l'opinione di Luigi Bianchi, docente di diritto commerciale alla Bocconi, «inserendo una serie di griglie come l'incarico a tempo per i revisori (massimo tre anni), compensi adeguati, compiti definiti specialmente nelle operazioni di finanza straordinaria». Tra le proposte che circolano negli ambienti degli avvocati societari, quella sintetizzata dal giurista Alessandro De Nicola, presidente di Adam Smith Society. «Secondo la mia esperienza sarebbe più decisivo», afferma De Nicola, «allineare gli interessi dei revisori con chi deve essere protetto, che nelle società a controllo diretto (tipo Parmalat) sono gli azionisti di minoranza, nelle public company l'azionariato diffuso». Per De Nicola una soluzione potrebbe essere quella di far nominare i revisori dalla minoranza, o dagli obbligazionisti, o da una maggioranza espressione di almeno i due terzi del capitale. Tutti contributi che sicuramente sfoceranno nei prossimi giorni in proposte di legge per aggiornare e rendere più aderenti le attuali normative con quanto chiede il mondo del risparmio alla luce delle devastanti vicende emerse in questi ultimi mesi. Intanto il governo, in attesa di varare mega riforme sulle Authority che necessariamente avranno tempi lunghi, potrebbe risolvere un problema che da mesi condiziona il pieno funzionamento del controllo sul mercato azionario. La nomina del quinto commissario della Consob, vacante da quando Filippo Cavazzuti ha rassegnato le dimissioni, e non sostituito perché non c'è accordo sul nome. Etica o lifting? Molti parlano di etica, qualcuno la pratica Secondo una ricerca sulle grandi società, chi realizza il bilancio sociale ha anche una buona governance. Ma non sempre è così: Parmalat docet U n paio di anni fa una società della pelletteria cercava un manager di prima linea. Particolare, però. Perché doveva rispettare - e soprattutto aver rispettato nel suo passato - la regola del «non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Proprio così: l'imprenditore in prima persona chiese, foglio dattiloscritto alla mano, che il manager prendesse questo impegno formalmente e che avesse una storia personale e aziendale coerente con la responsabilità che si sarebbe assunto. Che sapesse fare il suo mestiere era scontato, non invece il fatto che fosse anche una brava persona. Per il cacciatore di teste che doveva fare la ricerca - e poi non la fece - fu la prima e ultima volta che ricevette una richiesta di questo tipo. Dell'etica si parla molto in queste settimane. E la storia di Calisto Tanzi (vedere articolo a fianco) dimostra quanto spesso si faccia di questo argomento solo un problema di immagine. Perché, come certificano le analisi, un'azienda considerata «buona» vale di più: anzi, secondo la maggior parte dei manager riuniti nei giorni scorsi al World Economic Forum di Davos, la reputazione del marchio vale oltre il 40% della capitalizzazione della propria società. Secondo chi si occupa di questi temi, però, starebbe crescendo una «reale» attenzione all'etica, spinta proprio dai risultati economici che questa porta alle società quando è praticata. Un circolo virtuoso. «Le aziende stanno facendo propria l'esigenza di migliorare i rapporti con gli stakeholder - dice Francesco Biondi, senior partner della società di consulenza Governance Consulting -. Magari inizialmente sono spinte dall' idea dell'immagine ma poi, una volta fatti gli investimenti, si rendono conto che è sempre un gioco a somma positiva. Perché l'impatto sull'azienda e sulle performance è notevole: sulla fidelizzazione dei clienti, sulla produttività, sul turnover che è basso, sulle economie di scala, oltre ovviamente sull'immagine. L'importante è non aver fretta, perché i risultati si colgono nel medio-lungo periodo». Il punto è capire quando ci si trova di fronte a un caso solo esteriore (vedi Parmalat) e quando invece la sbandierata eticità corrisponda al Dna dell'azienda. Posto che alla fine tutto dipende dalle persone - e, dunque, è difficile da valutare -, per le società un metro può essere la governance , cioè le regole di governo che un'azienda si dà. Governance Consulting ha realizzato un'indagine su 19 società del Mib30 che stendono bilanci sociali, ambientali o di sostenibilità (quest'ultimo è il documento che racchiude tutti e due i precedenti) e ne ha messo a confronto la governance (vedere tabella in alto). Nel complesso, piuttosto buona, con l'eccellenza di Unicredito, «l'unica azienda italiana - ricorda Biondi - inserita nell' indice Dow Jones europeo delle aziende di sostenibilità». Le regole che disciplinano le aziende sono naturalmente uno degli elementi presi in considerazione da chi assegna i rating etici perché, come spiega Paolo Sardi, direttore di E-Capital Partners, «la governance rappresenta l' elemento fondamentale di approccio socialmente responsabile al mercato». La società, presieduta da Claudio Demattè, ha creato due indici di titoli «etici»: Ethical Index Euro e Ethical Index Global. Del primo, composto da 150 aziende europee, si trovano tra le prime quindici società (quelle che pesano di più sull'indice), due italiane: Eni e Tim. Ma più sotto si trovano anche altri titoli italiani, come appunto Unicredito. Può forse apparire singolare che ci sia un nome come quelle dell'Eni, che opera in un settore problematico come quello del petrolio. Ma la società guidata da Vittorio Mincato ricorre sempre nei giudizi positivi. Dice per esempio Jacopo Gavazzeni Schettini, partner di Fleet & Temple, società che si occupa di governance etica, che «Eni è molto trasparente e ha un grado di indipendenza degli amministratori ben più elevato di società a capitale familiare. Ci sono aziende che operano in settori meno problematici ma che hanno controlli interni minori e che magari hanno il maggior azionista che siede nel consiglio di amministrazione, lo stesso azionista che poi in assemblea nomina i sindaci». Secondo Gavazzeni Schettini per capire quanto un'azienda sia etica bisogna rifarsi alle regole in materia espresse da organizzazioni internazionali come l'Ocse che, in un documento del '99, ha indicato le sue linee guida. E, dunque: trasparenza, diritti degli azionisti (soprattutto di minoranza), doveri e diritti degli amministratori (loro indipendenza compresa), doveri e diritti dell'azienda verso gli stakeholder (dipendenti, fornitori, clienti, territorio). Il tema dell'indipendenza degli amministratori ricorre molto in questo periodo. «E' ovvio - dice ancora Gavazzeni Schettini - che non si può dire indipendente un amministratore che sia anche azionista, tanto più se azionista di riferimento. Ma anche l'amministratore che sia, al tempo stesso, nel consiglio della controllante e della controllata, cosa che succede spesso nella finanza, nelle assicurazioni, nel bancario. Tanti amministratori non indipendenti rendono la società debole, non fanno gli interessi a medio dell'azionista». Ma come si arriva a definire un rating etico? E-Capital Partners fa una ricerca che si muove si più fronti. Il primo screening è quello negativo, con l'esclusione delle società che operano in settori negativi per l'uomo, come il tabacco, i prodotti militari, la pornografia, il gioco d'azzardo. Il secondo screening è quello positivo, e cioè la selezione di società che mostrano performance sociali e ambientali di rilievo (prodotti, ambiente, comunità locali, minoranze, dipendenti, informazioni complete, corporate governance, etc). Infine, inclusione di quelle società che operano in settori o in Paesi a rischio ma che mettono in evidenza ottime performance sociali e ambientali. Ogni due-tre mesi ci sono le verifiche e nel 5-10% dei casi c'è chi esce dall'indice. L'ultima ad uscire, per E-Capital Partners, è stata Adecco. Maria Silvia Sacchi
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