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promesse e rischi dei farmaci
- Subject: promesse e rischi dei farmaci
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Thu, 19 Feb 2004 06:58:59 +0100
da l'unità 02.01.2004 Promesse (e rischi) dei farmaci su misura di Cristiana Pulcinelli Le grandi industrie farmaceutiche lo stanno già facendo: raccolgono campioni di Dna per creare banche dati genetiche. Di solito avviene durante la sperimentazione clinica di farmaci: si chiede ai pazienti coinvolti di donare un po' del loro sangue per una futura ricerca genetica per ora non meglio identificata. E i pazienti, normalmente accettano. A cosa servono queste banche dati? Ad alimentare studi genetici, in particolare quelli di farmacogenetica e farmacogenomica, due paroline magiche che potrebbero cambiare radicalmente la medicina che conosciamo. Alcuni ci credono a tal punto da investire fior di quattrini nello sviluppo di queste nuove branche. Altri invece sono ancora scettici, soprattutto per quanto concerne gli aspetti bioetici che queste ricerche sollevano. Farmaci inefficaci Per cercare di convincere i dubbiosi, Allen Roses, direttore della divisione ricerche genetiche del colosso farmaceutico Glaxo Smith Kline, ha dichiarato che questo filone di ricerca è indispensabile soprattutto per migliorare le capacità terapeutiche della medicina. E, per dare forza a questo concetto, non ha esitato ad affermare che oggi i farmaci sono inefficaci per la metà dei pazienti che li assumono. Un'affermazione che gli addetti ai lavori ritengono ovvia, ma che ai pazienti può lasciare l'amaro in bocca. In effetti ognuno di noi ha sperimentato che medicine che vanno bene per certe persone, per altre sono l'equivalente di acqua fresca oppure provocano effetti collaterali indesiderati e, a volte, fatali. «Che la risposta a un farmaco non è sempre la stessa è cosa nota da tempo - spiega Giuseppe Recchia, direttore del settore medico della Glaxo Smith Kline Italia - tanto che qualcuno ha detto che senza la variabilità la medicina sarebbe una scienza. In sostanza, nessuno sa se quel determinato paziente risponderà a quel determinato farmaco. Una sostanza, ad esempio, è efficace nel 30% dei casi, un'altra nel 50%. Questa variabilità dipende anche dalla classe di farmaci che stiamo analizzando: ad esempio un antibiotico in genere ha una risposta in un'alta percentuale di casi, un anticancro in una bassa percentuale. È per questo che l'Emea, l'autorità che regola il settore dei farmaci a livello europeo, considera un successo un anticancro che aumenta la risposta dal 30 al 35%, mentre non considera sufficiente lo stesso risultato per un'altra categoria di farmaci. Il valore terapeutico, in sostanza, va confrontato con le alternative disponibili». In ogni caso bisogna tener presente che la terapia non è quasi mai costituita da un solo farmaco, ma da un insieme di farmaci e da altri fattori come i cambiamenti dello stile di vita. «Combinando questi elementi - prosegue Recchia - si ottengono spesso terapie efficaci». Variabilità genetica La prima fonte di variabilità sono le caratteristiche genetiche dell'individuo. Perché un farmaco funzioni il primo requisito è che venga metabolizzato in maniera efficiente dall'organismo: il farmaco deve essere assorbito, trasportato dal sangue ed eliminato. Basta però che una sola delle proteine coinvolte un questo processo sia diversa perché cambi la risposta al farmaco o aumenti il rischio di effetti tossici. Se si riuscisse a capire quali differenze genetiche sono alla base di risposte diverse a una stessa sostanza, potremmo dare terapie mirate non solo in base al tipo di malattia ma anche in base alle caratteristiche genetiche di ogni paziente. «La farmacogenetica - aggiunge Recchia - è proprio il tentativo di mettere in relazione la risposta ai farmaci di un individuo con le sue caratteristiche genetiche». Ma questo non è ancora sufficiente. Una sostanza può infatti venire metabolizzata nel migliore dei modi, ma se non interagisce in modo efficiente con il suo bersaglio biologico, ovvero con una proteina, risulterà inefficace. Però è possibile che in due pazienti a cui è stata diagnosticata la stessa malattia, in realtà operino meccanismi molecolari diversi. In questo caso i pazienti avrebbero bisogno di farmaci che vadano a colpire bersagli diversi. Purtroppo noi conosciamo solo circa 500 bersagli, mentre sappiamo che le proteine sono circa 300mila, anche se non tutte sono coinvolte nell'insorgenza di malattie. La scoperta di nuovi bersagli dunque è il primo importante obiettivo per chi deve mettere a punto nuovi farmaci. «La farmacogenomica consiste proprio nell'identificazione di nuove proteine coinvolte nel processo che porta alla malattia in modo da farne un bersaglio terapeutico», spiega Recchia. Per poter identificare le varianti genetiche che sono alla base di un determinato metabolismo dei farmaci o per identificare le proteine la cui azione è correlata all'insoregere di malattie, c'è bisogno di analizzare il più alto numero possibile di campioni di materiale genetico provenienti da persone diverse. Il problema è però che tutto questo campo di ricerche solleva questioni bioetiche fondamentali. «La prima questione è quella relativa alla riservatezza», dice il bioeticista Maurizio Mori. Dal Dna si può sempre risalire all'identità del donatore anche se il campione viene reso anonimo, come tutelare quindi la privacy? «La seconda questione è quella relativa ai diritti di proprietà - prosegue Mori - se io oggi do il mio sangue a un'industria farmaceutica che domani, proprio grazie al mio sangue, fa una scoperta che gli garantisce benefici economici rilevanti, non ho diritto ad avere la mia parte?» In realtà in alcuni casi le aziende sono anche disposte a pagare per avere il diritto ad utilizzare il patrimonio genetico. È avvenuto ad esempio in Islanda, dove più di tre anni fa il governo ha stretto un accordo con la Decode Genetics, una società americana. In cambio di un cospicuo contributo finanziario, le strutture sanitarie del paese dovevano fornire tutte le informazioni sul patrimonio genetico dei loro pazienti alla società americana che avrebbe avuto il controllo su questa banca dati per 12 anni. Ma questo non ha risolto i problemi: una parte della popolazione si è ribellata all'accordo e oltre 11.000 persone hanno chiesto di ritirare i propri dati. Dividere i benefici Oggi che è invalsa la pratica di prendere materiale genetico non solo da piccole popolazioni come quella dell'Islanda, ma dai pazienti coinvolti nelle sperimentazioni cliniche che si svolgono in giro per il mondo, le cose sono ancora più complicate. Secondo quanto riporta un articolo pubblicato dalla rivista medica The Lancet a luglio scorso, la formula che di solito appare nel foglio del consenso informato che il paziente deve firmare suona più o meno così: «Il suo Dna è una risorsa di valore, per questo vorremmo tenerne un po' per future ricerche». Di solito, a queste parole segue l'affermazione esplicita che i partecipanti rinunciano a qualsiasi rivendicazione di benefici economici che possano risultare da future ricerche sul loro Dna. Si presume dunque che chi offre il proprio Dna per la ricerca lo faccia per puro altruismo. E, in effetti, spesso è così. Tuttavia, scrivono gli autori dell'articolo, ci si deve porre la questione di una condivisione di benefici anche in questi casi. Un esempio di come le aziende possano riversare parte dei propri ricavi sulla comunità sarebbe, sostengono gli autori dell'articolo del Lancet, un impegno della società a indirizzare parte delle sue ricerche alle cosiddette malattie orfane, quelle che interessando un numero limitato di persone non attraggono investimenti. E in effetti, come sottolineano Spagnolo e Minacori dell'Università cattolica del Sacro Cuore, «Interessi commerciali potrebbero indurre a scegliere determinati obiettivi per la ricerca e focalizzare l' attenzione e le risorse soprattutto su patologie comuni e su farmaci di ampio utilizzo», penalizzando ulteriormente le persone affette da malattie rare.
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