R: lavoro tra salari conflitti e progetti: nuovi modelli?



La cosmesi della contratazione salariale è comunque un fattore essenziale
nell'equilibrare il mercato con le esigenze dei lavoratori, ma non è
sufficente, perchè?

La questione che oggi si pone è duplice: la globalizzazione economica sembra
essere la maggiore responsabile della situazione di precarietà di tutti i
lavoratori e la concorrenza sembra essere diventata uno specchietto per le
allodole, in una situazione di per sè disastrosa.

Con la globalizzazione si sono acuiti i problemi del capitalismo locale.
Conseguenze della Globalizzazione:
* Diminuzione dell'occupazione significativa (si intende per significativa
l'occupazione che è in grado dare un potere di acquisto sufficente per
procurarsi per lo meno le minime necessità: alimenti, vestiario, abitazione,
assistenza sanitaria ed educazione...)

* La fusione di imprese che dismettono lavoratori

Nella globalizzazione economica non vi è via d'uscita per i lavoratori e per
la loro sussistenza.
Non solo sono in pericolo anche le piccole e medie imprese, perchè il
mercato locale non ha salvaguardie di nessun tipo. I grossi colossi
finanziari e produttivi internazionali fanno da padroni.

E' necessario sospendere a parere nostro i trattati della globalizzaizone e
le istituzioni internazionali: WTO, BM e FMI, non è possibile una riforma
della globalizzazione.
Saprete che il maggiore azionista delle banche che compongono il Fondo
Monetario Internazionale (FMI), per il 51%, è il Tesoro Americano. E che i
trattati di globalizzazione TRIM, TRIP, TRIPS, GATT sono frutto del lavoro
di 400 multinazionali + il Tesoro Americano, in un progetto di dominazine e
nuova colonizzazione economica. Questo è puro sfruttamento delle economie di
tutti i paesi.

Il dato di maggiore rilievo in questa globalizzazione è la massiccia
concentrazione di risorse in mano sempre a pochi: 81% nel 1999 e 86% nel
2003 delle risorse mondiali sono in mano al 20% ricco della società (Banca
M.) e in Italia il 48&.

In questo contesto non possiamo rifarci alla mera contrattazione salariale.
E' necessario creare alternative alla centralizzazione del potere economico
con un sistema di decentralizzazione economica e altre iniziative.

Porto un esempio:
Tremonti ha istituito la nuova tassazione al 23% sotto i 100.000 € e 33%
oltre. Chi ha un reddito lordo di 16.000€ perde 750€ e chi ha un reddito di
175.000€ guadagna in questo sistema di tassazione 25.000€, non parliamo di
redditi superiori. Questo aumenta la concentrazione di ricchezza in mano a
chi è già ricco.

E' necessario aumentare la ricchezza della base, della maggior parte dei
cittadini per lo meno a raggiungere la capacità di acquisto minima.

La proposta:
La proposta è perciò di detassare tutti i redditi inferiori ai 25.000€ in
modo da dare un po' di respiro ai cittadini a reddito basso e aumentare le
tasse sui redditi più alti. Abbiamo fatto una ricerca di fattibilità e
sembra possibile senza intaccare le entrate fiscali centrali. Il mito di
'chi ha soldi investe e attiva il volano economico' è un mito. Abbiamo visto
le speculazioni di questi anni.
Vi sono delle ragioni di fondo per questa proposta: in una fase di
recessione è necesario mettere in moto la produzione attraverso il consumo.
Chi può consumare? Se i cittadini non hanno un reddito sufficente non
possono aumentare i consumi. Le proposte di Tremonti di ipotecare la casa o
di Berlusconi di spendere tutto e non risparmiare per aumentare i consumi,
non sono realistiche.
Coloro che hanno dei redditi molto alti non hanno necessità di consumare di
più, hanno già tutto.
Per coloro che hanno un solo paio di scarpe, messi nelle condizioni, hanno
necessità di un secondo o terzo paio. Quindi detassado i redditi bassi, le
necessità potrebbero favorire un aumento produttivo, scongiurando in parte
l'effetto recessivo e la stagnazione.

Comunque se la morsa in atto di contrazione del potere di acquisto e
dell'aumento della concentrazione della ricchezza in mano a pochi
aumentasse, si andrebbe verso la depressione economica mondiale, associata a
inflazione (P.R. Sarkar), una situazione veramente disastrosa anche per le
economie cosiddette avanzate.

In ultima analisi, la decentralizzazione del sistema economico-produttivo è
realizzabile in un contesto di democrazia-economica. Vale a dire che ogni
lavoratore dovrebbe partecipare ai rischi di impresa e benefici,
controllando l'impresa stessa in un sistema magari cooperativo e di
azionariato: i lavoratori devono essere gli azinisti delle aziende in cui
lavorano, meglio se in forma cooperativa.
La Parmalat, la Fiat e molte altre imprese dovrebbero diventare cooperative
in mano ai lavoratori e ai loro rappresentanti.

Questo comporta responsabilità, impegno, ma maggiore controllo del proprio
futuro e destino.
Se non si fa un passo di questo genere possiamo piangere, chiedere
l'elemosina agli imprenditori, dire che cosa dovrebbero fare, manon
risolveremo il problema della concentrazione della ricchezza e dei rischi
connessi: fallimenti, alienazione, destrutturazione.

Dobbiamo salvaguardare le nostre imprese e attività dalle grinFie della
globalizzaizone economica e questo lo possiamo fare solo in impegno
collettivo a prenderci la parte di nostra responsabilità nella GESTIONE
DELL'ECONOMIA.

Che sia capace il sindacato di responsabilizzare i lavoratori in questa
direzione?
Non cadrebbe il suo ruolo di sindacato se i lavoratori hanno una maggiore
coscienza socio-economica e una maggiore responsabilità nella gestione della
nostra economia!

Cordiali saluti

Tarcisio Bonotto
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Proutist Universal
www.prout.it
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-----Messaggio originale-----
Da: economia-request at peacelink.it
[mailto:economia-request at peacelink.it]Per conto di Andrea Agostini
Inviato: sabato 24 gennaio 2004 6.42
A: ECONOMIA
Oggetto: lavoro tra salari conflitti e progetti


da lavoceinfo.it
venerdi 23 gennaio 2004

Tra salari, conflitti e progetti

Tito Boeri
Pietro Garibaldi

Le buone notizie per l'economia italiana sembrano esser venute negli ultimi
anni solo dal mercato del lavoro. La disoccupazione è diminuita dal 1998 e l
'occupazione è aumentata in modo stabile negli ultimi anni. Sul sito
www.lavoce.info non abbiamo mancato di analizzare in dettaglio i potenziali
motivi di questa crescita dei posti di lavoro, straordinaria perché avvenuta
in condizioni di bassa (o addirittura negativa) crescita economica.
A ben guardare, non è tutto oro ciò che luccica e sarebbe sbagliato ignorare
i crescenti segnali di malessere e incertezza che emergono nel nostro
mercato del lavoro. Tre di questi, in particolare, sono degni di nota.
Primo, l'andamento dei salari reali non è stato tale da fugare la percezione
da parte di molti lavoratori di un declino nel potere d'acquisto delle loro
retribuzioni. Questo ha contribuito ad aumentare la conflittualità, ecco il
secondo segnale preoccupante, con un'impennata delle ore di sciopero (anche
al di là della vicenda articolo 18) negli ultimi due anni. Terzo segnale,
molti dei nuovi posti creati sono a bassa produttività e vivono grazie a
forti sconti sul prelievo contributivo. I passi indietro compiuti dal
Governo nelle ultime settimane nella riforma delle collaborazioni coordinate
e continuative (vedi Tursi e Del Punta) sembrano proprio riflettere la
preoccupazione che un irrigidimento della normativa e del prelievo
contributivo su di una fascia consistente del lavoro subordinato possa
portare alla distruzione di molti posti di lavoro.
Ma procediamo per gradi, ponendoci due domande importanti per capire come è
meglio anticipare i problemi e fronteggiare questi crescenti segnali di
malessere: regge ancora il modello di contrattazione introdotto nel nostro
paese con l'accordo del luglio del 1993? E cosa accadrebbe ai salari e all'
occupazione decentrando maggiormente la contrattazione salariale?

La questione salariale

I salari nel settore privato dal 1993 al 2003 (fino al terzo trimestre) sono
praticamente rimasti invariati in termini reali (+0,3 per cento all'anno,
come ci spiega PC)
Da quando l'euro circola nelle nostre tasche, tuttavia, i lavoratori
percepiscono un'inflazione superiore a quella misurata dall'Istat (vedi
Guiso). Questo spiega perché siano in molti a ritenere di avere subito una
perdita del potere d'acquisto della propria retribuzione. In ogni caso, i
dati di cui sopra si riferiscono ai salari medi. Sono perfettamente
compatibili col fatto che una quota consistente dei salariati abbia subito
perdite del potere d'acquisto effettivo (non solo percepito) delle loro
retribuzioni, mentre una quota parimente consistente ha visto un aumento del
potere d'acquisto effettivo del proprio salario. In effetti i differenziali
salariali sono aumentati, a svantaggio soprattutto dei lavoratori meno
qualificati, quelli maggiormente rappresentati dal sindacato.
I salari sono, in ogni caso, cresciuti meno del prodotto per lavoratore, il
che significa che la quota del reddito lordo destinata ai lavoratori
dipendenti sotto forma di salario si è ridotta. Per l'esattezza di circa il
10 per cento.

La conflittualità e il modello contrattuale

Sono dunque tempi difficili per chi deve guidare un sindacato.
Soprattutto se bisogna anche fare accettare alla base tagli alle prestazioni
sociali, imposte dall'invecchiamento della popolazione, oppure quella
maggiore mobilità fra imprese dei lavoratori che viene richiesta dalla
crescente concorrenza e turbolenza oggi presente sul mercato dei beni.
Quando un'organizzazione sindacale manifesta qualche apertura su questi
terreni, è molto facile per un'altra strappare consensi tra la base del
rivale mantenendo una posizione di fermezza. Lo dimostrano l'isolamento di
Cisl e Uil nella battaglia sull'articolo 18 e quello della Cfdt in Francia
nello scontro sulla riforma delle pensioni.
Tuttavia un sindacato che si opponesse alla riforma della previdenza,
condannando i lavoratori più giovani a pagare due volte la bolletta
pensionistica (prima con le riforme degli anni Novanta , poi con l'aumento
di tasse e contributi che sarà inevitabile se non si fa nulla), si
condannerebbe all'estinzione, vivrebbe la sindrome del "gorilla di montagna"
(vedi Gennari), specie in via di estinzione. Insomma un bel dilemma.

Il sindacato ha un ruolo positivo in quanto voce collettiva dei lavoratori,
agente capace di gestire il conflitto redistributivo senza costi eccessivi
per la collettività. Per questo fa bene oggi a porre la questione salariale
e a interrogarsi sull'opportunità di modificare gli assetti contrattuali
definiti nel 1993, all'inizio della politica dei redditi. Dobbiamo molto
alla politica dei redditi. Ci ha portato nell'euro e ha contribuito, con la
moderazione salariale di questi anni, alla crescita dei posti di lavoro.
Ma se oggi il sindacato vuole recuperare una quota del valore aggiunto
concesso in questi anni ai datori di lavoro, e lo vuole fare soprattutto nei
settori esposti alla concorrenza (non condannandosi a vivere solo nei
settori protetti), deve per forza di cose prevedere un maggiore
decentramento della contrattazione salariale. Altrimenti, rischierà di
scontentare tutti: i lavoratori delle imprese a più bassa produttività, il
cui posto di lavoro viene messo in forse da salari contrattuali troppo alti
e i lavoratori delle imprese ad alto valore aggiunto, che si sentiranno
pagati al di sotto del loro potenziale produttivo. Un decentramento della
contrattazione è importante anche per introdurre gradualmente, e su base
volontaria, quegli schemi incentivanti che possono portare ad aumentare al
contempo salari e produttività, il modo migliore per sostenere in modo
duraturo una crescita dei salari reali. Nel lungo periodo infatti i salari
possono crescere solo se c'è crescita dell'economia.

Ma cos'è il progetto?

Il terzo fattore di incertezza è legato alla natura del cosiddetto contratto
a progetto, destinato a sostituire i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa. La legge Biagi sostiene che dal settembre 2004 ogni contratto
di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) non trasformato in
relativo contratto a progetto sarà automaticamente trasformato in rapporto
di lavoro subordinato.
Questa minaccia ha generato ansie diffuse, sia tra i lavoratori coinvolti e
spaventati dalla prospettiva di perdere il lavoro, sia tra i gestori di
risorse umane, incerti sulle strade da intraprendere.
L'ultima circolare ministeriale (vedi Del Punta e Tursi), in verità, sembra
aver praticamente lasciato tutto come prima, offrendo un'accezione molto
generica di lavoro a progetto, che lascia spazio all'arbitrio dei giudici.
Per esempio, potrà essere considerato a progetto chi segue i rapporti con un
dato cliente in uno studio professionale o chi è assistente di ricerca sui
temi più disparati, solo per prendere esempi di lavori "nobili" nel
parasubordinato.
Perché questa marcia indietro? Forse perché si temeva di distruggere molti
posti di lavoro e così anche perdere una quota consistente di entrate per le
casse dell'Inps.
Ma a parte l'incertezza causata prima dall'attesa della nuova normativa, poi
dall'ulteriore potere d'arbitrio assegnato ai giudici nel nostro mercato del
lavoro, c'è il forte rischio che questa normativa cristallizzi l'anomalia
del parasubordinato, un mondo di minori tutele e, in prospettiva, pensioni
da fame.
Questa non-riforma sembra solo certificare che non si può risolvere il
problema del dualismo del nostro mercato del lavoro solo con l'ingegneria
contrattuale e la creatività semantica.
Mentre l'Italia si interroga su cosa è un progetto, è bene che i nostri
politici riflettano sulle ragioni per cui i co.co.co. hanno avuto così
fortuna, invece di esorcizzarli con un colpo di penna.



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