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R: lavoro tra salari conflitti e progetti: nuovi modelli?
- Subject: R: lavoro tra salari conflitti e progetti: nuovi modelli?
- From: "T.Bonotto" <bonotto at clopd.univr.it>
- Date: Mon, 26 Jan 2004 10:35:09 +0100
- Importance: Normal
La cosmesi della contratazione salariale è comunque un fattore essenziale nell'equilibrare il mercato con le esigenze dei lavoratori, ma non è sufficente, perchè? La questione che oggi si pone è duplice: la globalizzazione economica sembra essere la maggiore responsabile della situazione di precarietà di tutti i lavoratori e la concorrenza sembra essere diventata uno specchietto per le allodole, in una situazione di per sè disastrosa. Con la globalizzazione si sono acuiti i problemi del capitalismo locale. Conseguenze della Globalizzazione: * Diminuzione dell'occupazione significativa (si intende per significativa l'occupazione che è in grado dare un potere di acquisto sufficente per procurarsi per lo meno le minime necessità: alimenti, vestiario, abitazione, assistenza sanitaria ed educazione...) * La fusione di imprese che dismettono lavoratori Nella globalizzazione economica non vi è via d'uscita per i lavoratori e per la loro sussistenza. Non solo sono in pericolo anche le piccole e medie imprese, perchè il mercato locale non ha salvaguardie di nessun tipo. I grossi colossi finanziari e produttivi internazionali fanno da padroni. E' necessario sospendere a parere nostro i trattati della globalizzaizone e le istituzioni internazionali: WTO, BM e FMI, non è possibile una riforma della globalizzazione. Saprete che il maggiore azionista delle banche che compongono il Fondo Monetario Internazionale (FMI), per il 51%, è il Tesoro Americano. E che i trattati di globalizzazione TRIM, TRIP, TRIPS, GATT sono frutto del lavoro di 400 multinazionali + il Tesoro Americano, in un progetto di dominazine e nuova colonizzazione economica. Questo è puro sfruttamento delle economie di tutti i paesi. Il dato di maggiore rilievo in questa globalizzazione è la massiccia concentrazione di risorse in mano sempre a pochi: 81% nel 1999 e 86% nel 2003 delle risorse mondiali sono in mano al 20% ricco della società (Banca M.) e in Italia il 48&. In questo contesto non possiamo rifarci alla mera contrattazione salariale. E' necessario creare alternative alla centralizzazione del potere economico con un sistema di decentralizzazione economica e altre iniziative. Porto un esempio: Tremonti ha istituito la nuova tassazione al 23% sotto i 100.000 € e 33% oltre. Chi ha un reddito lordo di 16.000€ perde 750€ e chi ha un reddito di 175.000€ guadagna in questo sistema di tassazione 25.000€, non parliamo di redditi superiori. Questo aumenta la concentrazione di ricchezza in mano a chi è già ricco. E' necessario aumentare la ricchezza della base, della maggior parte dei cittadini per lo meno a raggiungere la capacità di acquisto minima. La proposta: La proposta è perciò di detassare tutti i redditi inferiori ai 25.000€ in modo da dare un po' di respiro ai cittadini a reddito basso e aumentare le tasse sui redditi più alti. Abbiamo fatto una ricerca di fattibilità e sembra possibile senza intaccare le entrate fiscali centrali. Il mito di 'chi ha soldi investe e attiva il volano economico' è un mito. Abbiamo visto le speculazioni di questi anni. Vi sono delle ragioni di fondo per questa proposta: in una fase di recessione è necesario mettere in moto la produzione attraverso il consumo. Chi può consumare? Se i cittadini non hanno un reddito sufficente non possono aumentare i consumi. Le proposte di Tremonti di ipotecare la casa o di Berlusconi di spendere tutto e non risparmiare per aumentare i consumi, non sono realistiche. Coloro che hanno dei redditi molto alti non hanno necessità di consumare di più, hanno già tutto. Per coloro che hanno un solo paio di scarpe, messi nelle condizioni, hanno necessità di un secondo o terzo paio. Quindi detassado i redditi bassi, le necessità potrebbero favorire un aumento produttivo, scongiurando in parte l'effetto recessivo e la stagnazione. Comunque se la morsa in atto di contrazione del potere di acquisto e dell'aumento della concentrazione della ricchezza in mano a pochi aumentasse, si andrebbe verso la depressione economica mondiale, associata a inflazione (P.R. Sarkar), una situazione veramente disastrosa anche per le economie cosiddette avanzate. In ultima analisi, la decentralizzazione del sistema economico-produttivo è realizzabile in un contesto di democrazia-economica. Vale a dire che ogni lavoratore dovrebbe partecipare ai rischi di impresa e benefici, controllando l'impresa stessa in un sistema magari cooperativo e di azionariato: i lavoratori devono essere gli azinisti delle aziende in cui lavorano, meglio se in forma cooperativa. La Parmalat, la Fiat e molte altre imprese dovrebbero diventare cooperative in mano ai lavoratori e ai loro rappresentanti. Questo comporta responsabilità, impegno, ma maggiore controllo del proprio futuro e destino. Se non si fa un passo di questo genere possiamo piangere, chiedere l'elemosina agli imprenditori, dire che cosa dovrebbero fare, manon risolveremo il problema della concentrazione della ricchezza e dei rischi connessi: fallimenti, alienazione, destrutturazione. Dobbiamo salvaguardare le nostre imprese e attività dalle grinFie della globalizzaizone economica e questo lo possiamo fare solo in impegno collettivo a prenderci la parte di nostra responsabilità nella GESTIONE DELL'ECONOMIA. Che sia capace il sindacato di responsabilizzare i lavoratori in questa direzione? Non cadrebbe il suo ruolo di sindacato se i lavoratori hanno una maggiore coscienza socio-economica e una maggiore responsabilità nella gestione della nostra economia! Cordiali saluti Tarcisio Bonotto ------------------ Proutist Universal www.prout.it ------------------ -----Messaggio originale----- Da: economia-request at peacelink.it [mailto:economia-request at peacelink.it]Per conto di Andrea Agostini Inviato: sabato 24 gennaio 2004 6.42 A: ECONOMIA Oggetto: lavoro tra salari conflitti e progetti da lavoceinfo.it venerdi 23 gennaio 2004 Tra salari, conflitti e progetti Tito Boeri Pietro Garibaldi Le buone notizie per l'economia italiana sembrano esser venute negli ultimi anni solo dal mercato del lavoro. La disoccupazione è diminuita dal 1998 e l 'occupazione è aumentata in modo stabile negli ultimi anni. Sul sito www.lavoce.info non abbiamo mancato di analizzare in dettaglio i potenziali motivi di questa crescita dei posti di lavoro, straordinaria perché avvenuta in condizioni di bassa (o addirittura negativa) crescita economica. A ben guardare, non è tutto oro ciò che luccica e sarebbe sbagliato ignorare i crescenti segnali di malessere e incertezza che emergono nel nostro mercato del lavoro. Tre di questi, in particolare, sono degni di nota. Primo, l'andamento dei salari reali non è stato tale da fugare la percezione da parte di molti lavoratori di un declino nel potere d'acquisto delle loro retribuzioni. Questo ha contribuito ad aumentare la conflittualità, ecco il secondo segnale preoccupante, con un'impennata delle ore di sciopero (anche al di là della vicenda articolo 18) negli ultimi due anni. Terzo segnale, molti dei nuovi posti creati sono a bassa produttività e vivono grazie a forti sconti sul prelievo contributivo. I passi indietro compiuti dal Governo nelle ultime settimane nella riforma delle collaborazioni coordinate e continuative (vedi Tursi e Del Punta) sembrano proprio riflettere la preoccupazione che un irrigidimento della normativa e del prelievo contributivo su di una fascia consistente del lavoro subordinato possa portare alla distruzione di molti posti di lavoro. Ma procediamo per gradi, ponendoci due domande importanti per capire come è meglio anticipare i problemi e fronteggiare questi crescenti segnali di malessere: regge ancora il modello di contrattazione introdotto nel nostro paese con l'accordo del luglio del 1993? E cosa accadrebbe ai salari e all' occupazione decentrando maggiormente la contrattazione salariale? La questione salariale I salari nel settore privato dal 1993 al 2003 (fino al terzo trimestre) sono praticamente rimasti invariati in termini reali (+0,3 per cento all'anno, come ci spiega PC) Da quando l'euro circola nelle nostre tasche, tuttavia, i lavoratori percepiscono un'inflazione superiore a quella misurata dall'Istat (vedi Guiso). Questo spiega perché siano in molti a ritenere di avere subito una perdita del potere d'acquisto della propria retribuzione. In ogni caso, i dati di cui sopra si riferiscono ai salari medi. Sono perfettamente compatibili col fatto che una quota consistente dei salariati abbia subito perdite del potere d'acquisto effettivo (non solo percepito) delle loro retribuzioni, mentre una quota parimente consistente ha visto un aumento del potere d'acquisto effettivo del proprio salario. In effetti i differenziali salariali sono aumentati, a svantaggio soprattutto dei lavoratori meno qualificati, quelli maggiormente rappresentati dal sindacato. I salari sono, in ogni caso, cresciuti meno del prodotto per lavoratore, il che significa che la quota del reddito lordo destinata ai lavoratori dipendenti sotto forma di salario si è ridotta. Per l'esattezza di circa il 10 per cento. La conflittualità e il modello contrattuale Sono dunque tempi difficili per chi deve guidare un sindacato. Soprattutto se bisogna anche fare accettare alla base tagli alle prestazioni sociali, imposte dall'invecchiamento della popolazione, oppure quella maggiore mobilità fra imprese dei lavoratori che viene richiesta dalla crescente concorrenza e turbolenza oggi presente sul mercato dei beni. Quando un'organizzazione sindacale manifesta qualche apertura su questi terreni, è molto facile per un'altra strappare consensi tra la base del rivale mantenendo una posizione di fermezza. Lo dimostrano l'isolamento di Cisl e Uil nella battaglia sull'articolo 18 e quello della Cfdt in Francia nello scontro sulla riforma delle pensioni. Tuttavia un sindacato che si opponesse alla riforma della previdenza, condannando i lavoratori più giovani a pagare due volte la bolletta pensionistica (prima con le riforme degli anni Novanta , poi con l'aumento di tasse e contributi che sarà inevitabile se non si fa nulla), si condannerebbe all'estinzione, vivrebbe la sindrome del "gorilla di montagna" (vedi Gennari), specie in via di estinzione. Insomma un bel dilemma. Il sindacato ha un ruolo positivo in quanto voce collettiva dei lavoratori, agente capace di gestire il conflitto redistributivo senza costi eccessivi per la collettività. Per questo fa bene oggi a porre la questione salariale e a interrogarsi sull'opportunità di modificare gli assetti contrattuali definiti nel 1993, all'inizio della politica dei redditi. Dobbiamo molto alla politica dei redditi. Ci ha portato nell'euro e ha contribuito, con la moderazione salariale di questi anni, alla crescita dei posti di lavoro. Ma se oggi il sindacato vuole recuperare una quota del valore aggiunto concesso in questi anni ai datori di lavoro, e lo vuole fare soprattutto nei settori esposti alla concorrenza (non condannandosi a vivere solo nei settori protetti), deve per forza di cose prevedere un maggiore decentramento della contrattazione salariale. Altrimenti, rischierà di scontentare tutti: i lavoratori delle imprese a più bassa produttività, il cui posto di lavoro viene messo in forse da salari contrattuali troppo alti e i lavoratori delle imprese ad alto valore aggiunto, che si sentiranno pagati al di sotto del loro potenziale produttivo. Un decentramento della contrattazione è importante anche per introdurre gradualmente, e su base volontaria, quegli schemi incentivanti che possono portare ad aumentare al contempo salari e produttività, il modo migliore per sostenere in modo duraturo una crescita dei salari reali. Nel lungo periodo infatti i salari possono crescere solo se c'è crescita dell'economia. Ma cos'è il progetto? Il terzo fattore di incertezza è legato alla natura del cosiddetto contratto a progetto, destinato a sostituire i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. La legge Biagi sostiene che dal settembre 2004 ogni contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) non trasformato in relativo contratto a progetto sarà automaticamente trasformato in rapporto di lavoro subordinato. Questa minaccia ha generato ansie diffuse, sia tra i lavoratori coinvolti e spaventati dalla prospettiva di perdere il lavoro, sia tra i gestori di risorse umane, incerti sulle strade da intraprendere. L'ultima circolare ministeriale (vedi Del Punta e Tursi), in verità, sembra aver praticamente lasciato tutto come prima, offrendo un'accezione molto generica di lavoro a progetto, che lascia spazio all'arbitrio dei giudici. Per esempio, potrà essere considerato a progetto chi segue i rapporti con un dato cliente in uno studio professionale o chi è assistente di ricerca sui temi più disparati, solo per prendere esempi di lavori "nobili" nel parasubordinato. Perché questa marcia indietro? Forse perché si temeva di distruggere molti posti di lavoro e così anche perdere una quota consistente di entrate per le casse dell'Inps. Ma a parte l'incertezza causata prima dall'attesa della nuova normativa, poi dall'ulteriore potere d'arbitrio assegnato ai giudici nel nostro mercato del lavoro, c'è il forte rischio che questa normativa cristallizzi l'anomalia del parasubordinato, un mondo di minori tutele e, in prospettiva, pensioni da fame. Questa non-riforma sembra solo certificare che non si può risolvere il problema del dualismo del nostro mercato del lavoro solo con l'ingegneria contrattuale e la creatività semantica. Mentre l'Italia si interroga su cosa è un progetto, è bene che i nostri politici riflettano sulle ragioni per cui i co.co.co. hanno avuto così fortuna, invece di esorcizzarli con un colpo di penna. -- Mailing list Economia dell'associazione PeaceLink. Per ISCRIZIONI/CANCELLAZIONI: http://www.peacelink.it/mailing_admin.html Archivio messaggi: http://www.peacelink.it/webgate/economia/maillist.html Si sottintende l'accettazione della Policy Generale: http://www.peacelink.it/associazione/html/policy_generale.html
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- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
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