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lavoro tra salari conflitti e progetti
- Subject: lavoro tra salari conflitti e progetti
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 24 Jan 2004 06:41:56 +0100
da lavoceinfo.it venerdi 23 gennaio 2004 Tra salari, conflitti e progetti Tito Boeri Pietro Garibaldi Le buone notizie per l'economia italiana sembrano esser venute negli ultimi anni solo dal mercato del lavoro. La disoccupazione è diminuita dal 1998 e l 'occupazione è aumentata in modo stabile negli ultimi anni. Sul sito www.lavoce.info non abbiamo mancato di analizzare in dettaglio i potenziali motivi di questa crescita dei posti di lavoro, straordinaria perché avvenuta in condizioni di bassa (o addirittura negativa) crescita economica. A ben guardare, non è tutto oro ciò che luccica e sarebbe sbagliato ignorare i crescenti segnali di malessere e incertezza che emergono nel nostro mercato del lavoro. Tre di questi, in particolare, sono degni di nota. Primo, l'andamento dei salari reali non è stato tale da fugare la percezione da parte di molti lavoratori di un declino nel potere d'acquisto delle loro retribuzioni. Questo ha contribuito ad aumentare la conflittualità, ecco il secondo segnale preoccupante, con un'impennata delle ore di sciopero (anche al di là della vicenda articolo 18) negli ultimi due anni. Terzo segnale, molti dei nuovi posti creati sono a bassa produttività e vivono grazie a forti sconti sul prelievo contributivo. I passi indietro compiuti dal Governo nelle ultime settimane nella riforma delle collaborazioni coordinate e continuative (vedi Tursi e Del Punta) sembrano proprio riflettere la preoccupazione che un irrigidimento della normativa e del prelievo contributivo su di una fascia consistente del lavoro subordinato possa portare alla distruzione di molti posti di lavoro. Ma procediamo per gradi, ponendoci due domande importanti per capire come è meglio anticipare i problemi e fronteggiare questi crescenti segnali di malessere: regge ancora il modello di contrattazione introdotto nel nostro paese con l'accordo del luglio del 1993? E cosa accadrebbe ai salari e all' occupazione decentrando maggiormente la contrattazione salariale? La questione salariale I salari nel settore privato dal 1993 al 2003 (fino al terzo trimestre) sono praticamente rimasti invariati in termini reali (+0,3 per cento all'anno, come ci spiega PC) Da quando l'euro circola nelle nostre tasche, tuttavia, i lavoratori percepiscono un'inflazione superiore a quella misurata dall'Istat (vedi Guiso). Questo spiega perché siano in molti a ritenere di avere subito una perdita del potere d'acquisto della propria retribuzione. In ogni caso, i dati di cui sopra si riferiscono ai salari medi. Sono perfettamente compatibili col fatto che una quota consistente dei salariati abbia subito perdite del potere d'acquisto effettivo (non solo percepito) delle loro retribuzioni, mentre una quota parimente consistente ha visto un aumento del potere d'acquisto effettivo del proprio salario. In effetti i differenziali salariali sono aumentati, a svantaggio soprattutto dei lavoratori meno qualificati, quelli maggiormente rappresentati dal sindacato. I salari sono, in ogni caso, cresciuti meno del prodotto per lavoratore, il che significa che la quota del reddito lordo destinata ai lavoratori dipendenti sotto forma di salario si è ridotta. Per l'esattezza di circa il 10 per cento. La conflittualità e il modello contrattuale Sono dunque tempi difficili per chi deve guidare un sindacato. Soprattutto se bisogna anche fare accettare alla base tagli alle prestazioni sociali, imposte dall'invecchiamento della popolazione, oppure quella maggiore mobilità fra imprese dei lavoratori che viene richiesta dalla crescente concorrenza e turbolenza oggi presente sul mercato dei beni. Quando un'organizzazione sindacale manifesta qualche apertura su questi terreni, è molto facile per un'altra strappare consensi tra la base del rivale mantenendo una posizione di fermezza. Lo dimostrano l'isolamento di Cisl e Uil nella battaglia sull'articolo 18 e quello della Cfdt in Francia nello scontro sulla riforma delle pensioni. Tuttavia un sindacato che si opponesse alla riforma della previdenza, condannando i lavoratori più giovani a pagare due volte la bolletta pensionistica (prima con le riforme degli anni Novanta , poi con l'aumento di tasse e contributi che sarà inevitabile se non si fa nulla), si condannerebbe all'estinzione, vivrebbe la sindrome del "gorilla di montagna" (vedi Gennari), specie in via di estinzione. Insomma un bel dilemma. Il sindacato ha un ruolo positivo in quanto voce collettiva dei lavoratori, agente capace di gestire il conflitto redistributivo senza costi eccessivi per la collettività. Per questo fa bene oggi a porre la questione salariale e a interrogarsi sull'opportunità di modificare gli assetti contrattuali definiti nel 1993, all'inizio della politica dei redditi. Dobbiamo molto alla politica dei redditi. Ci ha portato nell'euro e ha contribuito, con la moderazione salariale di questi anni, alla crescita dei posti di lavoro. Ma se oggi il sindacato vuole recuperare una quota del valore aggiunto concesso in questi anni ai datori di lavoro, e lo vuole fare soprattutto nei settori esposti alla concorrenza (non condannandosi a vivere solo nei settori protetti), deve per forza di cose prevedere un maggiore decentramento della contrattazione salariale. Altrimenti, rischierà di scontentare tutti: i lavoratori delle imprese a più bassa produttività, il cui posto di lavoro viene messo in forse da salari contrattuali troppo alti e i lavoratori delle imprese ad alto valore aggiunto, che si sentiranno pagati al di sotto del loro potenziale produttivo. Un decentramento della contrattazione è importante anche per introdurre gradualmente, e su base volontaria, quegli schemi incentivanti che possono portare ad aumentare al contempo salari e produttività, il modo migliore per sostenere in modo duraturo una crescita dei salari reali. Nel lungo periodo infatti i salari possono crescere solo se c'è crescita dell'economia. Ma cos'è il progetto? Il terzo fattore di incertezza è legato alla natura del cosiddetto contratto a progetto, destinato a sostituire i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. La legge Biagi sostiene che dal settembre 2004 ogni contratto di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) non trasformato in relativo contratto a progetto sarà automaticamente trasformato in rapporto di lavoro subordinato. Questa minaccia ha generato ansie diffuse, sia tra i lavoratori coinvolti e spaventati dalla prospettiva di perdere il lavoro, sia tra i gestori di risorse umane, incerti sulle strade da intraprendere. L'ultima circolare ministeriale (vedi Del Punta e Tursi), in verità, sembra aver praticamente lasciato tutto come prima, offrendo un'accezione molto generica di lavoro a progetto, che lascia spazio all'arbitrio dei giudici. Per esempio, potrà essere considerato a progetto chi segue i rapporti con un dato cliente in uno studio professionale o chi è assistente di ricerca sui temi più disparati, solo per prendere esempi di lavori "nobili" nel parasubordinato. Perché questa marcia indietro? Forse perché si temeva di distruggere molti posti di lavoro e così anche perdere una quota consistente di entrate per le casse dell'Inps. Ma a parte l'incertezza causata prima dall'attesa della nuova normativa, poi dall'ulteriore potere d'arbitrio assegnato ai giudici nel nostro mercato del lavoro, c'è il forte rischio che questa normativa cristallizzi l'anomalia del parasubordinato, un mondo di minori tutele e, in prospettiva, pensioni da fame. Questa non-riforma sembra solo certificare che non si può risolvere il problema del dualismo del nostro mercato del lavoro solo con l'ingegneria contrattuale e la creatività semantica. Mentre l'Italia si interroga su cosa è un progetto, è bene che i nostri politici riflettano sulle ragioni per cui i co.co.co. hanno avuto così fortuna, invece di esorcizzarli con un colpo di penna.
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