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new economy, paradiso?
- Subject: new economy, paradiso?
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 19 Jan 2004 06:52:48 +0100
dal corriere.it martedi 16 dicembre 2003 Un radicale americano smonta le utopie ottimistiche del capitalismo anni Novanta. E prova a tracciare lo scenario prossimo venturo New Economy, il falso paradiso perduto Gli Usa, nonostante l'opinione corrente, non hanno un ceto medio esteso Verso la fine degli anni Novanta abbiamo avuto una Nuova Economia. Era la meraviglia del mondo. I computer avevano dato il via a un miracolo di produttività, le recessioni erano fenomeni del passato, le idee avevano sostituito le cose come motori della vita economica, il mondo era diventato globale come mai prima, il lavoro aveva assunto un profondo significato, e i fondi comuni di investimento avevano messo fine ai conflitti di classe. Anche per chi ha atteggiamenti convenzionali tutto ciò ora sembra imbarazzante. Ma i commentatori di quell'era di solito ne parlano come di una mescolanza di follia collettiva e vera e propria criminalità, mai come di un fenomeno emerso dalle viscere della macchina economica americana. E ora ce ne stiamo dimenticando, un'amnesia incoraggiata dai frequenti segnali che ci ricordano che siamo in uno stato di guerra permanente. Certamente in quella fine anni Novanta c'era qualcosa di aberrante, ma il periodo della New Economy è costituito da una ridda di variazioni su temi antichi, tutte promosse dalle alte sfere. Presidenti e ministri del tesoro hanno ristrutturato le economie, incoraggiati dagli analisti di Wall Street e da Alan Greenspan. L'utopia tecnologica è un vecchio tema della cultura americana. Le fantasie di Bill Gates su un'economia senza attriti - raccontate in lungo e in largo con l'assistenza di tredici ghost writers , da quel che si dice - sono state le ultime incarnazioni di un vecchio desiderio elitario di eliminare dalla vista i lavoratori, e le brutte cose che a volte li accompagnano. Tra il 1996 e l'inizio del 2001 non si riusciva quasi ad aprire un giornale o ad accendere la televisione senza sentir dire meraviglie della New Economy. Questo delirio si raffreddò notevolmente con il lungo ribasso del Nasdaq, ma purtroppo, non è ancora morto, nonostante tutti gli scandali. Questo saggio si propone di assestare il colpo finale a una simile tendenza, in modo che non si ripeta più. Il discorso canonico della New Economy era inesorabilmente, quasi follemente ottimistico. Diceva pressappoco così: finalmente, dopo una lunga attesa, la rivoluzione dei computer sta dando i suoi frutti. Quella rivoluzione, come notoriamente affermò l'economista Robert Solow, era visibile ovunque tranne che nelle statistiche. Ma con il decollo dei dati sulla produttività negli Usa alla metà degli anni Novanta, l'affermazione di Solow poteva essere messa da parte. Alla fine degli anni Novanta sentivamo dire in continuazione che eravamo alle prime fasi di un grande boom produttivistico, un boom che parve sopravvivere alla recessione del 2001, sia nei numeri che nella reputazione. Se siamo nelle fasi iniziali di una tecnorivoluzione, non ne stiamo certamente distribuendo i dividendi sotto forma di una minore quantità di lavoro: gli americani devono lavorare terribilmente sodo per far quadrare i bilanci. Mentre i redditi medi sono saliti considerevolmente negli ultimi cinquant'anni - rapidamente nei primi venticinque anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, assai più lentamente in seguito - la quantità di lavoro necessaria per guadagnare quel denaro è salita con uguale costanza. Nel 1947, per guadagnare un reddito familiare medio, un operaio doveva lavorare 62 settimane. Nel 1973 gli ci volevano 74 settimane; nel 2001, 81. Così, nonostante il fatto che la produttività sia complessivamente triplicata negli ultimi cinquant'anni - e quella industriale quintuplicata - l'operaio medio dovrebbe lavorare sei mesi di più per ricavare il reddito familiare medio. E l'aumento del lavoro ha subito un ritmo ancor più penalizzante negli anni Novanta che nei decenni precedenti. Naturalmente non sono solo i singoli lavoratori a lavorare di più; una porzione crescente della popolazione adulta ha fatto il suo ingresso nella forza lavoro pagata, soprattutto donne, che non ottengono molto aiuto nei lavori domestici a compensare la crescente presenza nelle fabbriche e negli uffici. I paragoni internazionali confermano l'immagine degli Usa come un'economia da lavori forzati. Gli americani dedicano al lavoro più ore all'anno degli europei occidentali; solo gli operai dell'Asia Orientale passano più tempo al lavoro degli americani. E non producono quanto si pensa. In Olanda, Germania, Francia e Italia gli operai in un'ora producono di più di quelli americani, che superano di poco i lavoratori in Irlanda e Svezia. Né la crescita della produttività americana degli ultimi anni è stata poi così notevole; dei Paesi presi in considerazione, gli Usa sono di gran lunga gli ultimi nella crescita produttiva tra il 1973 e il '96. È solo verso la fine degli anni Novanta che i risultati della produttività americana sono superiori a quelli dei Paesi concorrenti, anche se non di molto. Il crollo del 1929, la depressione e un'altra guerra mondiale misero fine alla lunga polarizzazione della ricchezza. Negli anni Trenta andarono distrutte intere fortune e l'inflazione degli anni Quaranta divorò patrimoni ereditari. I primi due decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale furono notoriamente anni di risalita, negli Usa. I redditi reali di tutte le fasce crebbero molto e crebbero tutti, con i redditi della metà più povera della popolazione che aumentavano anche più della metà più ricca in alcuni periodi, producendo una leggera compressione delle differenze di reddito (cioè una tendenza verso una maggiore eguaglianza). Naturalmente anche nel momento di maggior eguaglianza del dopoguerra gli Usa rimasero una società polarizzata, ma c'era ancora la diffusa opinione che fosse cambiato qualcosa che rendeva la nuova situazione permanente. Nel 1955 Simon Kuznets pubblicò la sua famosa teoria dell'evoluzione del capitalismo, la teoria dell'«U invertito», secondo la quale la disuguaglianza dei redditi cresce nei primi stadi di sviluppo e diminuisce quando l'economia diventa matura. Gli economisti arrivarono a considerare ciò come un dato della loro «scienza» e gli specialisti dello sviluppo alla Banca Mondiale e nelle università ancora ne parlano per giustificare il grande aumento di disuguaglianza nel Terzo Mondo negli ultimi quindici anni. La recente esperienza americana suggerisce che l'«U» di Kuznets debba raccontare un'altra storia. La disuguaglianza dei redditi è tornata a salire dalla fine degli anni Sessanta in poi. Secondo la teoria economica, il divario di reddito tra i Paesi ricchi e quelli poveri è destinato a diminuire con il tempo, poiché i ritardatari raggiungeranno i Paesi leader. Gli esponenti di tali teorie ritengono che la tecnologia sia la forza motrice che sta dietro allo sviluppo economico; quando la tecnologia si diffonderà nel mondo, il vantaggio goduto dai Paesi più avanzati dovrebbe svanire. La realtà ha costantemente dimostrato l'erroneità di questa compiacente teoria. Tutte le regioni in via di sviluppo sono molto più indietro degli Usa di quanto non lo fossero nel XIX secolo. Per quasi tutti - con la grossa eccezione dell'Asia Orientale - gli ultimi due decenni sono stati anni di retrocessione, non di progresso. L'Europa orientale, regione dominata dalla Russia, è riuscita a ricuperare un po' negli anni tra il 1929 e il 1973 (cioè durante il periodo «socialista», ora universalmente considerato con derisione fallimentare), un progresso che da allora si è trasformato in un notevole regresso. Il Giappone ha fatto un impressionante salto in avanti tra il 1950 e la fine degli anni Ottanta, ma da allora si è fermato. Si potrebbe dire pressappoco la stessa cosa della Corea del Sud. La Gran Bretagna, alla fine del XIX secolo, è rimasta indietro rispetto agli Usa e non si è più mossa da quella posizione; il resto dell'Europa occidentale ha recuperato leggermente nei primi 35 o 40 anni dopo la seconda guerra mondiale, ma quella crescita da allora si è appiattita. La Cina sta compiendo rapidi progressi, ma ha ancora molta strada da fare. In che modo può essere paragonata la distribuzione del reddito negli Usa rispetto a quella di altri Paesi ricchi industrializzati? Fortunatamente non c'è bisogno di complicate analisi comparate di dati per rispondere a questa domanda. Come mostrano i dati, gli Usa primeggiano negli estremi: dopo la Russia, hanno il maggior numero di poveri e di ricchi (definiti relativamente), e la più limitata popolazione a reddito medio. Un fatto del genere dovrebbe modificare l'idea che l'America ha di se stessa come di un Paese dominato dal ceto medio - sono, invece, le tanto disprezzate democrazie sociali ad avvicinarsi maggiormente a quel modello. Chiaramente è necessario un meccanismo di ridistribuzione promosso dallo Stato per contrastare le tendenze naturali del capitalismo alla polarizzazione. L'ex vice ministro delle finanze del Giappone, Eisuke Sakakibara, noto universalmente come il signor Yen, ha detto che il mondo è entrato in una nuova era di deflazione, con il Giappone a far da guida a questa tendenza. «Alan Greenspan non ha mai usato la parola deflazione. L'ha chiamata aumento di produttività. Ma è la stessa cosa». A mio avviso l'aumento di produttività è assai più problematico di quanto pensino Greenspan o Sakakibara, ma il signor Yen ha avuto ragione a indicare il legame tra i due fenomeni. Proprio come l'inflazione era un sintomo economico dell'indisciplina sistemica, la deflazione è la malattia che accompagna l'eccessiva disciplina, l'intensificarsi della competizione e l'attacco selvaggio alle protezioni sociali degli ultimi venticinque anni. È allettante leggere la New Economy come l'apogeo estatico del neoliberalismo, quella ristrutturazione politica del mondo che ebbe inizio con i regimi di Thatcher e Volcker nel 1979 (anche se la liberalizzazione dei trasporti dell'era Carter ne rappresentò una notevole premessa), che ebbe un ulteriore sviluppo con la rivoluzione reaganiana, e fu fortificata dalla trasformazione che rese la maggior parte dei partiti politici di sinistra favorevoli al mercato. Ebbe molti trionfi - l'uso delle crisi dei paesi debitori per ristrutturare decine di economie del Sud, attacchi allo welfare del Nord, la morte apparente di qualsiasi alternativa ideologica o politica di qualche peso al dominio del capitale. La New Economy doveva rappresentare la lauta ricompensa della rivoluzione neocapitalista. Ha funzionato negli Usa, per un po', ma ora si sono dovuti tralasciare molti dividendi. Fuori degli Usa le prospettive dell'economia globale non sembrano brillanti. La politica economica corrente non sembra in grado di porre rimedio alla situazione. I massicci tagli alle tasse dei molto ricchi - pressappoco l'unico intervento dell'amministrazione Bush - possono fornire un piccolo incoraggiamento fiscale, ma non riusciranno a far fronte alle patologie a lungo termine dell'economia statunitense, come la polarizzazione, l'insicurezza, e la massiccia dipendenza dal flusso di capitale estero. Tuttavia le cose non sono affatto senza speranza. Quattro o cinque anni fa il confronto ideologico-politico sembrava praticamente chiuso. Ma negli ultimi anni si è sviluppato un movimento globale che a volte si definisce anticapitalista. Nei mesi precedenti alla guerra degli Usa all'Iraq, milioni di persone hanno riempito le strade di tutto il mondo per protestare, in un movimento che a volte si definisce antimperialista. Sono fatti importanti. (Traduzione di Maria Sepa) CONTROCANTO Bernabè: «La bolla è scoppiata, ma Reagan non c'entra» INTERNET «No, non credo si possa dire che la New Economy fosse figlia della signora Thatcher e di Ronald Reagan. E, in fondo, non si può nemmeno parlare di Nuova Economia. Direi piuttosto che abbiamo assistito a una lunga fase, quella che Henwood chiama neoliberalismo, terminata con una bolla reale e finanziaria: le circostanze hanno voluto che la bolla fosse legata a Internet ma probabilmente avrebbe potuto essere legata a qualsiasi altra cosa». Franco Bernabè - ex amministratore delegato di Eni e di Telecom Italia, oggi presidente della Biennale di Venezia e vicepresidente di Rothschild Europa - gli anni ruggenti del neocapitalismo e poi di Internet (1982-2000) li ha vissuti in prima fila; poi, da economista, li ha studiati. Del saggio di Doug Henwood (che è pubblicato sopra) dà una lettura piuttosto originale. Dottor Bernabè, anche lei un critico della New Economy? «Niente affatto. Solo che secondo me è limitativo chiamarla New Economy: si tratta di una rivoluzione molto più sottile, qualcosa di pervasivo che va decisamente al di là dell'economia. E' rivolta soprattutto all'utilizzo della conoscenza e riguarda l'organizzazione della società. E' qualcosa che influisce sulla politica, sull'organizzazione sociale, sui media, sull'uso dell'intelligenza. E solo in misura minore ha un effetto sull'economia. Da questo punto di vista, è molto diversa dalle altre rivoluzioni del capitalismo, il suo impatto macro-economico è molto minore». Quali altre rivoluzioni? «Il saggio di Henwood mi ha fatto venire alla mente uno studio realizzato da Angus Maddison per l'Ocse sui cambiamenti di lungo periodo nell'economia del mondo. Anch'egli, sorprendentemente, arriva alla conclusione che negli ultimi decenni c'è stata una decelerazione del progresso tecnologico. Maddison individua tre fasi di successo del capitalismo. La prima, che chiama «ordine liberale», va dal 1870 al 1913 e in essa il prodotto interno lordo pro capite cresce dell'1,3% all'anno a livello mondiale. La seconda, che chiama "età dell'oro", va dal 1950 al '73 e vede una crescita globale del Pil pro capite del 2,9%. E la terza, chiamata "ordine neoliberale", va dal 1973 al '98 e registra una crescita dell'1,3%». Non staremmo insomma vivendo niente di straordinario. «Dal punto di vista della crescita, no. I grandi fattori tecnologici che, per esempio, hanno provocato la rivoluzione economica a cavallo tra '800 e ' 900 oggi non sembrano esserci. Mi pare che anche l'evidenza empirica lo confermi: i redditi sono cresciuti solo per coloro che hanno un potere monopolistico che permette loro di determinarli; una parte minima della società. Per il resto, le diseguaglianze sono aumentate. E qui veniamo all' altro punto importante del saggio: la questione dell'equità». Su questo versante, Henwood è oltremodo critico della fase «neoliberale». E nello scoppio della bolla della New Economy ne vede la conclusione inevitabile. «Separerei le due cose. C'è stata una fase neoliberista riconducibile alla signora Thatcher e a Reagan, caratterizzata da privatizzazioni e liberalizzazioni. Ed è una fase che tutti i dati indicano essere segnata dall'aumento delle diseguaglianze nei redditi. Poi, è vero che la fase è finita in una bolla finanziaria. Ma sono le caratteristiche stesse di questa fase che probabilmente lo esigevano: non è questione di Internet, l'epilogo sarebbe stato quello comunque, indipendentemente dalla scusa attorno alla quale è stata creata la bolla». Secondo lei, dunque, la cosiddetta rivoluzione di Internet non è stata una bolla. E' finita o va avanti? Ed è stata una vera rivoluzione? «E' stata ed è una rivoluzione, senza dubbio alcuno. Ed è più che mai viva: sta andando avanti in modo estremamente diffuso, pervasivo in moltissimi campi della vita, dell'organizzazione sociale, della conoscenza. Da questo punto di vista, è qualcosa di molto importante, anche se non può essere considerata una rivoluzione con un impatto direttamente economico come lo sono state la rivoluzione del vapore a fine '800 o la motorizzazione di massa nel secondo dopoguerra». Danilo Taino
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