new economy, paradiso?



dal corriere.it
martedi 16 dicembre 2003

Un radicale americano smonta le utopie ottimistiche del capitalismo anni
Novanta. E prova a tracciare lo scenario prossimo venturo

New Economy, il falso paradiso perduto

Gli Usa, nonostante l'opinione corrente, non hanno un ceto medio esteso

Verso la fine degli anni Novanta abbiamo avuto una Nuova Economia. Era la
meraviglia del mondo. I computer avevano dato il via a un miracolo di
produttività, le recessioni erano fenomeni del passato, le idee avevano
sostituito le cose come motori della vita economica, il mondo era diventato
globale come mai prima, il lavoro aveva assunto un profondo significato, e i
fondi comuni di investimento avevano messo fine ai conflitti di classe.
Anche per chi ha atteggiamenti convenzionali tutto ciò ora sembra
imbarazzante. Ma i commentatori di quell'era di solito ne parlano come di
una mescolanza di follia collettiva e vera e propria criminalità, mai come
di un fenomeno emerso dalle viscere della macchina economica americana. E
ora ce ne stiamo dimenticando, un'amnesia incoraggiata dai frequenti segnali
che ci ricordano che siamo in uno stato di guerra permanente. Certamente in
quella fine anni Novanta c'era qualcosa di aberrante, ma il periodo della
New Economy è costituito da una ridda di variazioni su temi antichi, tutte
promosse dalle alte sfere. Presidenti e ministri del tesoro hanno
ristrutturato le economie, incoraggiati dagli analisti di Wall Street e da
Alan Greenspan. L'utopia tecnologica è un vecchio tema della cultura
americana. Le fantasie di Bill Gates su un'economia senza attriti -
raccontate in lungo e in largo con l'assistenza di tredici ghost writers ,
da quel che si dice - sono state le ultime incarnazioni di un vecchio
desiderio elitario di eliminare dalla vista i lavoratori, e le brutte cose
che a volte li accompagnano.
Tra il 1996 e l'inizio del 2001 non si riusciva quasi ad aprire un giornale
o ad accendere la televisione senza sentir dire meraviglie della New
Economy. Questo delirio si raffreddò notevolmente con il lungo ribasso del
Nasdaq, ma purtroppo, non è ancora morto, nonostante tutti gli scandali.
Questo saggio si propone di assestare il colpo finale a una simile tendenza,
in modo che non si ripeta più.
Il discorso canonico della New Economy era inesorabilmente, quasi follemente
ottimistico. Diceva pressappoco così: finalmente, dopo una lunga attesa, la
rivoluzione dei computer sta dando i suoi frutti. Quella rivoluzione, come
notoriamente affermò l'economista Robert Solow, era visibile ovunque tranne
che nelle statistiche. Ma con il decollo dei dati sulla produttività negli
Usa alla metà degli anni Novanta, l'affermazione di Solow poteva essere
messa da parte.
Alla fine degli anni Novanta sentivamo dire in continuazione che eravamo
alle prime fasi di un grande boom produttivistico, un boom che parve
sopravvivere alla recessione del 2001, sia nei numeri che nella reputazione.
Se siamo nelle fasi iniziali di una tecnorivoluzione, non ne stiamo
certamente distribuendo i dividendi sotto forma di una minore quantità di
lavoro: gli americani devono lavorare terribilmente sodo per far quadrare i
bilanci. Mentre i redditi medi sono saliti considerevolmente negli ultimi
cinquant'anni - rapidamente nei primi venticinque anni dopo la Seconda
Guerra Mondiale, assai più lentamente in seguito - la quantità di lavoro
necessaria per guadagnare quel denaro è salita con uguale costanza. Nel
1947, per guadagnare un reddito familiare medio, un operaio doveva lavorare
62 settimane. Nel 1973 gli ci volevano 74 settimane; nel 2001, 81. Così,
nonostante il fatto che la produttività sia complessivamente triplicata
negli ultimi cinquant'anni - e quella industriale quintuplicata - l'operaio
medio dovrebbe lavorare sei mesi di più per ricavare il reddito familiare
medio. E l'aumento del lavoro ha subito un ritmo ancor più penalizzante
negli anni Novanta che nei decenni precedenti. Naturalmente non sono solo i
singoli lavoratori a lavorare di più; una porzione crescente della
popolazione adulta ha fatto il suo ingresso nella forza lavoro pagata,
soprattutto donne, che non ottengono molto aiuto nei lavori domestici a
compensare la crescente presenza nelle fabbriche e negli uffici.
I paragoni internazionali confermano l'immagine degli Usa come un'economia
da lavori forzati. Gli americani dedicano al lavoro più ore all'anno degli
europei occidentali; solo gli operai dell'Asia Orientale passano più tempo
al lavoro degli americani. E non producono quanto si pensa. In Olanda,
Germania, Francia e Italia gli operai in un'ora producono di più di quelli
americani, che superano di poco i lavoratori in Irlanda e Svezia. Né la
crescita della produttività americana degli ultimi anni è stata poi così
notevole; dei Paesi presi in considerazione, gli Usa sono di gran lunga gli
ultimi nella crescita produttiva tra il 1973 e il '96. È solo verso la fine
degli anni Novanta che i risultati della produttività americana sono
superiori a quelli dei Paesi concorrenti, anche se non di molto.
Il crollo del 1929, la depressione e un'altra guerra mondiale misero fine
alla lunga polarizzazione della ricchezza. Negli anni Trenta andarono
distrutte intere fortune e l'inflazione degli anni Quaranta divorò patrimoni
ereditari. I primi due decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale
furono notoriamente anni di risalita, negli Usa. I redditi reali di tutte le
fasce crebbero molto e crebbero tutti, con i redditi della metà più povera
della popolazione che aumentavano anche più della metà più ricca in alcuni
periodi, producendo una leggera compressione delle differenze di reddito
(cioè una tendenza verso una maggiore eguaglianza).
Naturalmente anche nel momento di maggior eguaglianza del dopoguerra gli Usa
rimasero una società polarizzata, ma c'era ancora la diffusa opinione che
fosse cambiato qualcosa che rendeva la nuova situazione permanente. Nel 1955
Simon Kuznets pubblicò la sua famosa teoria dell'evoluzione del capitalismo,
la teoria dell'«U invertito», secondo la quale la disuguaglianza dei redditi
cresce nei primi stadi di sviluppo e diminuisce quando l'economia diventa
matura. Gli economisti arrivarono a considerare ciò come un dato della loro
«scienza» e gli specialisti dello sviluppo alla Banca Mondiale e nelle
università ancora ne parlano per giustificare il grande aumento di
disuguaglianza nel Terzo Mondo negli ultimi quindici anni. La recente
esperienza americana suggerisce che l'«U» di Kuznets debba raccontare
un'altra storia.
La disuguaglianza dei redditi è tornata a salire dalla fine degli anni
Sessanta in poi. Secondo la teoria economica, il divario di reddito tra i
Paesi ricchi e quelli poveri è destinato a diminuire con il tempo, poiché i
ritardatari raggiungeranno i Paesi leader. Gli esponenti di tali teorie
ritengono che la tecnologia sia la forza motrice che sta dietro allo
sviluppo economico; quando la tecnologia si diffonderà nel mondo, il
vantaggio goduto dai Paesi più avanzati dovrebbe svanire.
La realtà ha costantemente dimostrato l'erroneità di questa compiacente
teoria. Tutte le regioni in via di sviluppo sono molto più indietro degli
Usa di quanto non lo fossero nel XIX secolo. Per quasi tutti - con la grossa
eccezione dell'Asia Orientale - gli ultimi due decenni sono stati anni di
retrocessione, non di progresso. L'Europa orientale, regione dominata dalla
Russia, è riuscita a ricuperare un po' negli anni tra il 1929 e il 1973
(cioè durante il periodo «socialista», ora universalmente considerato con
derisione fallimentare), un progresso che da allora si è trasformato in un
notevole regresso. Il Giappone ha fatto un impressionante salto in avanti
tra il 1950 e la fine degli anni Ottanta, ma da allora si è fermato. Si
potrebbe dire pressappoco la stessa cosa della Corea del Sud. La Gran
Bretagna, alla fine del XIX secolo, è rimasta indietro rispetto agli Usa e
non si è più mossa da quella posizione; il resto dell'Europa occidentale ha
recuperato leggermente nei primi 35 o 40 anni dopo la seconda guerra
mondiale, ma quella crescita da allora si è appiattita. La Cina sta
compiendo rapidi progressi, ma ha ancora molta strada da fare.
In che modo può essere paragonata la distribuzione del reddito negli Usa
rispetto a quella di altri Paesi ricchi industrializzati? Fortunatamente non
c'è bisogno di complicate analisi comparate di dati per rispondere a questa
domanda. Come mostrano i dati, gli Usa primeggiano negli estremi: dopo la
Russia, hanno il maggior numero di poveri e di ricchi (definiti
relativamente), e la più limitata popolazione a reddito medio. Un fatto del
genere dovrebbe modificare l'idea che l'America ha di se stessa come di un
Paese dominato dal ceto medio - sono, invece, le tanto disprezzate
democrazie sociali ad avvicinarsi maggiormente a quel modello. Chiaramente è
necessario un meccanismo di ridistribuzione promosso dallo Stato per
contrastare le tendenze naturali del capitalismo alla polarizzazione.
L'ex vice ministro delle finanze del Giappone, Eisuke Sakakibara, noto
universalmente come il signor Yen, ha detto che il mondo è entrato in una
nuova era di deflazione, con il Giappone a far da guida a questa tendenza.
«Alan Greenspan non ha mai usato la parola deflazione. L'ha chiamata aumento
di produttività. Ma è la stessa cosa». A mio avviso l'aumento di
produttività è assai più problematico di quanto pensino Greenspan o
Sakakibara, ma il signor Yen ha avuto ragione a indicare il legame tra i due
fenomeni. Proprio come l'inflazione era un sintomo economico
dell'indisciplina sistemica, la deflazione è la malattia che accompagna
l'eccessiva disciplina, l'intensificarsi della competizione e l'attacco
selvaggio alle protezioni sociali degli ultimi venticinque anni.
È allettante leggere la New Economy come l'apogeo estatico del
neoliberalismo, quella ristrutturazione politica del mondo che ebbe inizio
con i regimi di Thatcher e Volcker nel 1979 (anche se la liberalizzazione
dei trasporti dell'era Carter ne rappresentò una notevole premessa), che
ebbe un ulteriore sviluppo con la rivoluzione reaganiana, e fu fortificata
dalla trasformazione che rese la maggior parte dei partiti politici di
sinistra favorevoli al mercato. Ebbe molti trionfi - l'uso delle crisi dei
paesi debitori per ristrutturare decine di economie del Sud, attacchi allo
welfare del Nord, la morte apparente di qualsiasi alternativa ideologica o
politica di qualche peso al dominio del capitale.
La New Economy doveva rappresentare la lauta ricompensa della rivoluzione
neocapitalista. Ha funzionato negli Usa, per un po', ma ora si sono dovuti
tralasciare molti dividendi. Fuori degli Usa le prospettive dell'economia
globale non sembrano brillanti.
La politica economica corrente non sembra in grado di porre rimedio alla
situazione. I massicci tagli alle tasse dei molto ricchi - pressappoco
l'unico intervento dell'amministrazione Bush - possono fornire un piccolo
incoraggiamento fiscale, ma non riusciranno a far fronte alle patologie a
lungo termine dell'economia statunitense, come la polarizzazione,
l'insicurezza, e la massiccia dipendenza dal flusso di capitale estero.
Tuttavia le cose non sono affatto senza speranza.
Quattro o cinque anni fa il confronto ideologico-politico sembrava
praticamente chiuso. Ma negli ultimi anni si è sviluppato un movimento
globale che a volte si definisce anticapitalista. Nei mesi precedenti alla
guerra degli Usa all'Iraq, milioni di persone hanno riempito le strade di
tutto il mondo per protestare, in un movimento che a volte si definisce
antimperialista. Sono fatti importanti.
(Traduzione di Maria Sepa)

CONTROCANTO

Bernabè: «La bolla è scoppiata, ma Reagan non c'entra»

INTERNET

«No, non credo si possa dire che la New Economy fosse figlia della signora
Thatcher e di Ronald Reagan. E, in fondo, non si può nemmeno parlare di
Nuova Economia. Direi piuttosto che abbiamo assistito a una lunga fase,
quella che Henwood chiama neoliberalismo, terminata con una bolla reale e
finanziaria: le circostanze hanno voluto che la bolla fosse legata a
Internet ma probabilmente avrebbe potuto essere legata a qualsiasi altra
cosa». Franco Bernabè - ex amministratore delegato di Eni e di Telecom
Italia, oggi presidente della Biennale di Venezia e vicepresidente di
Rothschild Europa - gli anni ruggenti del neocapitalismo e poi di Internet
(1982-2000) li ha vissuti in prima fila; poi, da economista, li ha studiati.
Del saggio di Doug Henwood (che è pubblicato sopra) dà una lettura piuttosto
originale. Dottor Bernabè, anche lei un critico della New Economy?
«Niente affatto. Solo che secondo me è limitativo chiamarla New Economy: si
tratta di una rivoluzione molto più sottile, qualcosa di pervasivo che va
decisamente al di là dell'economia. E' rivolta soprattutto all'utilizzo
della conoscenza e riguarda l'organizzazione della società. E' qualcosa che
influisce sulla politica, sull'organizzazione sociale, sui media, sull'uso
dell'intelligenza. E solo in misura minore ha un effetto sull'economia. Da
questo punto di vista, è molto diversa dalle altre rivoluzioni del
capitalismo, il suo impatto macro-economico è molto minore».
Quali altre rivoluzioni?
«Il saggio di Henwood mi ha fatto venire alla mente uno studio realizzato da
Angus Maddison per l'Ocse sui cambiamenti di lungo periodo nell'economia del
mondo. Anch'egli, sorprendentemente, arriva alla conclusione che negli
ultimi decenni c'è stata una decelerazione del progresso tecnologico.
Maddison individua tre fasi di successo del capitalismo. La prima, che
chiama «ordine liberale», va dal 1870 al 1913 e in essa il prodotto interno
lordo pro capite cresce dell'1,3% all'anno a livello mondiale. La seconda,
che chiama "età dell'oro", va dal 1950 al '73 e vede una crescita globale
del Pil pro capite del 2,9%. E la terza, chiamata "ordine neoliberale", va
dal 1973 al '98 e registra una crescita dell'1,3%».
Non staremmo insomma vivendo niente di straordinario.
«Dal punto di vista della crescita, no. I grandi fattori tecnologici che,
per esempio, hanno provocato la rivoluzione economica a cavallo tra '800 e '
900 oggi non sembrano esserci. Mi pare che anche l'evidenza empirica lo
confermi: i redditi sono cresciuti solo per coloro che hanno un potere
monopolistico che permette loro di determinarli; una parte minima della
società. Per il resto, le diseguaglianze sono aumentate. E qui veniamo all'
altro punto importante del saggio: la questione dell'equità».
Su questo versante, Henwood è oltremodo critico della fase «neoliberale». E
nello scoppio della bolla della New Economy ne vede la conclusione
inevitabile.
«Separerei le due cose. C'è stata una fase neoliberista riconducibile alla
signora Thatcher e a Reagan, caratterizzata da privatizzazioni e
liberalizzazioni. Ed è una fase che tutti i dati indicano essere segnata
dall'aumento delle diseguaglianze nei redditi. Poi, è vero che la fase è
finita in una bolla finanziaria. Ma sono le caratteristiche stesse di questa
fase che probabilmente lo esigevano: non è questione di Internet, l'epilogo
sarebbe stato quello comunque, indipendentemente dalla scusa attorno alla
quale è stata creata la bolla».
Secondo lei, dunque, la cosiddetta rivoluzione di Internet non è stata una
bolla. E' finita o va avanti? Ed è stata una vera rivoluzione?
«E' stata ed è una rivoluzione, senza dubbio alcuno. Ed è più che mai viva:
sta andando avanti in modo estremamente diffuso, pervasivo in moltissimi
campi della vita, dell'organizzazione sociale, della conoscenza. Da questo
punto di vista, è qualcosa di molto importante, anche se non può essere
considerata una rivoluzione con un impatto direttamente economico come lo
sono state la rivoluzione del vapore a fine '800 o la motorizzazione di
massa nel secondo dopoguerra».

Danilo Taino