benessere diminuendo i consumi



da unità.it

 05.01.2004

La sinistra scoprirà la società della decrescita?

di Pietro Greco

Con le sue attività ciascun italiano emette nell'atmosfera più di 10
tonnellate, in media, di anidride carbonica l'anno. Ciascun abitante degli
Stati Uniti ne emette, in media, 20 tonnellate l'anno. Se tutti gli uomini
si comportassero come gli italiani, ogni anno le emissioni globali di
anidride carbonica sarebbero superiori a 60 miliardi di tonnellate. E se
tutti si comportassero come i nord-americani, le emissioni annue sarebbero
superiori a 120 miliardi di tonnellate.
Ma gli oceani e le terre emerse riescono ad assorbire dall'atmosfera solo 13
o 14 miliardi di tonnellate di anidride carbonica ogni anno. L'accumulo di
quel gas in atmosfera comporta un aumento della temperatura media del
pianeta. Cosicché il nostro stile di vita non è sostenibile per la stabilità
del clima. E ancor meno lo è quello dei cittadini Usa. Se noi occidentali
accettiamo il principio di democrazia ambientale (ogni uomo ha il medesimo
diritto a utilizzare le risorse naturali del pianeta) e vogliamo evitare il
riscaldamento planetario, non possiamo fare altro che ridurre le emissioni
di anidride carbonica e, quindi, modificare i nostri stili di vita.

Il clima come metafora.

Il clima è un esempio (il principale esempio) e insieme una metafora del
rapporto tra economia dell'uomo ed economia della natura. Cosicché, se
provate a estendere le medesime considerazioni all'insieme delle attività
umane risulta, come sostiene Wolfgang Sachs, che noi, abitanti dei paesi
industrializzati, dovremo ridurre di dieci volte i nostri livelli di consumo
entro i prossimi cinquant'anni (Ambiente e giustizia sociale, Editori
Riuniti).
Il motivo è banale. Il nostro pianeta, per quanto grande, è finito. E le
attività dell'uomo hanno raggiunto la capacità di incidere sui grandi
processi globali della biosfera. L'uomo, dicono gli esperti, è diventato un
attore ecologico globale. Siamo al limite (qualcuno dice siamo già oltre il
limite) della possibilità di crescita di queste attività. Una crescita
ulteriore non è ecologicamente sostenibile.
Tuttavia mai, come in questo momento, nel mondo c'è stata tanta differenza
tra ricchi e poveri. E mai questa differenza è aumentata a un ritmo così
rapido. Questo sviluppo non è socialmente sostenibile.
Sono questi i grandi temi con cui la sinistra (italiana, europea, mondiale)
dovrà misurarsi, volente o nolente, nel secolo appena nato. E, per farlo,
dovrà - come ha scritto Sergio Latouche sul numero di novembre di Le Monde
Diplomatique - decolonizzare il suo immaginario. Abbandonare l'idea che
maggiori beni materiali significano maggiore benessere. E costruire la
«società della decrescita».
«Décroissance!», sosteneva a tutta pagina il quotidiano francese Liberation
presentando, il 12 novembre scorso, il Social Forum di Parigi dove uno dei
seminari più affollati si chiedeva: «Ha ancora senso lo sviluppo?».

Il programma delle 6 R.

Già, decrescere. Diminuire la produzione e i consumi. Facile a dirsi. Ma
come realizzarlo? Come far diminuire la produzione senza scatenare una
rivolta sociale? E, prima ancora, come proporre una diminuzione dei consumi
senza farsi ridere dietro, ovvero acquisendo il consenso sociale?
Occorre ispirarsi alla carta di Rio (la Carta della Terra elaborata a Rio de
Janeiro nel 1992, nel corso della Conferenza della Nazioni Unite su Ambiente
e Sviluppo) e realizzare, sostiene Sergio Latouche, il «programma delle 6R»:
Rivalutare, Ristrutturare, Ridistribuire, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare.
Ovvero avviare un circolo virtuoso di decrescita «serena, conviviale e
sostenibile» dei nostri consumi di beni materiali.
Un mondo diverso è possibile, sostiene Carla Ravaioli in un libro (Un mondo
diverso è necessario, Editori Riuniti) il cui titolo ci ricorda
l'ineluttabilità della scelta. Basta passare da un mondo centrato sulla
quantità a un mondo centrato sulla qualità. Da un mondo in cui l'economia è
un fine a un mondo in cui l'economia è un mezzo.
L'insieme di queste posizioni, che si accompagnano al filone americano della
«ecological economics» di Herman Daly o di Robert Costanza, sembra
dimostrare che nella sinistra europea stia crescendo la consapevolezza
dell'importanza decisiva del tema ecoeco (ecologico ed economico) e sia
cominciata la «decolonizzazione dell'immaginario», con il conseguente
disaccoppiamento tra il concetto di crescita economica e il concetto di
benessere.
Tuttavia per creare la «società della decrescita» non basta decostruire un
immaginario, occorre anche costruirne uno nuovo. Detto in altri termini,
occorre iniziare a fondare il futuro sostenibile. E a indicare un percorso
politico capace di coagulare consenso diffuso.
Allora un primo concetto da ribadire è che, quando si parla di decrescita o
di riduzione dei consumi, si intende di beni che comportano un consumo
insostenibile di materia e/o energia. E che questo tipo di decrescita è del
tutto compatibile con un processo di sviluppo del benessere immateriale e
persino dei beni di consumo virtuali. Paolo Sylos Labini ha provato a
immaginare un percorso di sviluppo del benessere in presenza di decrescita
dei beni materiali. In primo luogo si tratta di assicurare a tutti la
soddisfazione delle esigenze materiali fondamentali: alimentazione, diritto
a vivere in un ambiente dignitoso. E poi di perseguire lo sviluppo umano
attraverso la ricerca incessante di una condizione immateriale di benessere:
salute, cultura, qualità della vita. In altre parole si tratta di realizzare
quello che nella Grecia classica veniva definito uno stato di eudenomia.

Mercato e politica.

Per realizzare questa condizione dobbiamo modificare profondamente
(rivoluzionare, si sarebbe detto una volta) il nostro sistema produttivo?
No, sostengono molti economisti. Perché il processo di smaterializzazione e
di de-energizzazione dell'economia è connaturale all'economia di mercato.
Nei paesi più avanzati l'impatto ambientale per unità di ricchezza prodotta
tende a diminuire e l'eudenomia è l'approdo sicuro cui ci condurrà
l'economia di mercato se lasciata libera di svilupparsi. Compito della
politica (della sinistra) è quello di redistribuire il benessere, materiale
e immateriale, in modo che l'eudenomia diventi una condizione diffusa e
stabile.
Ipotesi piuttosto lontana dalla realtà, replicano in molti. Perché, come
rileva Sergio Latouche, se è vero che la «nuova economia» tende a essere più
immateriale, essa non sostituisce, ma completa la «vecchia economia». E
quindi, fatti i conti, vediamo, come sostiene Mauro Bonaiuti presentando
Bioeconomia di Nicholas Georgescu-Roegen pubblicato di recente in italiano
dalla Bollati Boringhieri, che l'impatto ambientale complessivo
dell'economia umana tende ad aumentare.
Per tornare al nostro esempio climatico: senza controllo politico forte, le
emissioni di anidride carbonica negli ultimi tre lustri sono aumentate sia
nelle economie avanzate (Usa, Giappone, gran parte dei paesi europei), sia
nelle economie emergenti (Cina, India, Asia sud-orientale), sia nelle
economie stagnanti (Africa).
Se vogliamo una «società della decrescita» e del benessere immateriale,
occorre dunque un cambiamento profondo del nostro modo di produrre centrato
sul mercato e ormai globalizzato nel senso stigmatizzato di recente da
Joseph Stiglitz (La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi), il premio
Nobel per l'economia già consigliere economico di Bill Clinton. Una
globalizzazione senza regole, fondata non sul potere delle istituzioni
democratiche ma sulla forza delle multinazionali, dove crescono insieme la
ricchezza prodotta, l'attacco all'ambiente e la disuguaglianza sociale.
Nessuno pretende che la sinistra italiana, europea e mondiale abbia già una
ricetta per costruire l'immaginario dello sviluppo sostenibile. Ma che
l'esigenza di costruirlo questo immaginario sia al centro della discussione
politica, questo sì dobbiamo pretenderlo.