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economia e proprietà intellettuale
- Subject: economia e proprietà intellettuale
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 28 Nov 2003 06:47:27 +0100
il manifesto - 05 Novembre 2003 L'intelletto senza logo Copyright, brevetti e economia mondiale in un prossimo summit dell'Onu Dalle telecomunicazioni all'informatica, dall'intrattenimento fino alla mappatura del Dna, la legislazione sulla proprietà intellettuale è stato lo strumento attraverso il quale gli stati-nazione hanno spesso cercato di governare lo sviluppo economico. Ora con leggi draconiane, ora con norme flessibili per favorire la diffusione dell'innovazione tecnologica nell'attività produttiva. Per questo, si moltiplicano gli studi di economisti e giuristi attorno a questo tema. E sono sempre più insistenti le pressioni che organismi sovranazionali per un'armonizzazione a livello internazionale delle diverse leggi nazionali BENEDETTO VECCHI La sigla è oscura ai più, ma dietro di essa si nascondono molte ambizioni. Già, perché il Wsis, questo il misterioso acronimo, che sta per World Summit on Information Society, cioè l'incontro internazionale che si terrà il prossimo dicembre a Ginevra, è stato proposto in un contesto internazionale in cui il multilateralismo dominava le relazioni interstatali e dove la necessità di una riforma degli organismi sovranazionali era già all'ordine del giorno. Correva l'anno 1998 e durante una riunione della International Telecommunication Union in corso a Minneapolis fu approvato un documento in cui si chiedeva alle Nazioni unite di organizzare un summit mondiale sulla società dell'informazione. Nel giro di pochi mesi, l'assemblea dell'Onu fece sua l'indicazione e propose di dedicare due incontri al tema - il primo appunto a Ginevra, e il secondo a Tunisi nel 2005 - con un'avvertenza: coinvolgere la società civile nella loro preparazione. In un documento del segretario delle Nazioni unite Kofi Annan - consultabile nel sito www.wsis.org - si legge infatti che la riuscita del summit ci sarà solo in presenza di un diretto coinvolgimento non solo dei governi, ma di tutta la «società civile» nello stilare una «carta dei diritti universali alla comunicazione». Il primo problema da affrontare era la definizione di «società dell'informazione». Ragion per cui centri studi, lobby, enti governativi hanno stilato memorandum, inviato studi e ricerce che partivano tutti da un unico presupposto: le tecnologie digitali stanno cambiando la vita associata in tutte le parti del mondo, facendo diventare l'informazione il motore dell'economia mondiale, mentre i media sono diventati il luogo deputato alla formazione e all'espressione dell'opinione pubblica. E tuttavia il pieno dispiegarsi della società dell'informazione trova non pochi ostacoli. Infatti, anche nell'era della informazione vige la regola che un quinto della popolazione mondiale detiene l'ottanta per cento della ricchezza: l'ottanta per cento dei computer, dei telefoni e delle televisioni esistenti al mondo sono venduti nel Nord del pianeta, l'ottanta per cento dei cybernauti - circa settecento milioni - abita nei paesi maggiormente sviluppati - la famose triade: Stati uniti, Europa e Giappone a cui si aggiungono l'Australia e la Nuova Zelanda. Stesso discorso vale per la diffusione del telefono: su tre telefoni installati, due sono nel Nord e uno nel Sud del pianeta. A ciò corrisponde però l'asimmetria della popolazione: l'ottanta per cento degli abitanti del pianeta vivono nei cosiddetti paesi in via di sviluppo o in quelli di recente industrializzazione, mentre il restante venti per cento nei paesi maggiormente sviluppati. Infine, gran parte della produzione di hardware e software nelle telecomunicazioni, nell'informatica e nell'intrattenimento sono concentrati nella mani di una manciata di grandi imprese transnazionali che hanno sede a Parigi, Londra, Seattle, Los Angeles e Tokyo. Che le cose non vadano ottimamente lo sanno quindi tutti, ma bastano solo alcuni, piccoli accorgimenti e anche il resto del mondo potrà partecipare al gran banchetto. Basta cioè che la deregulation non trovi ostacoli sul suo cammino e il gioco è fatto. C'è il digital divide, inutile negarlo. Per colmare il divario basta aprire le frontiere al libero mercato è tutto è risolto. C'è una micidiale concentrazione della produzione e diffusione dell'informazione. Anche qui un po' di sano realismo: è il mercato il migliore allocatore delle risorse. Questo è il mantra che accompagna la partecipazione alla preparazione del summit da parte delle corporation, di molti governi nazionali e del G8. In risposta, le organizzazioni non governative hanno lanciato, da parte loro, la campagna per i diritti alla comunicazione (www.cris.org). La storia non è stata però benigna per gli organizzatori del summit. Da 1998 in poi molta acqua è passato sotto i ponti e oramai l'Onu è ridotto all'ombra di se stesso, mentre altri organismi sovranazionali hanno messo serie ipoteche su come sarà affrontato il digital divide. Particolarmente attivo è stato il Wto che, in nome della difesa della proprietà intellettuale, ha chiesto più volte una revisione e un'armonizzazione delle diverse leggi nazionali sulla falsariga dei Trips, cioè i Trade Related Intellectual Proprierties. A fare da apripista sulla revisione delle leggi nazionali su brevetti, copyright e difesa dei loghi sono stati gli Stati uniti. Infatti, nell'arco di dieci anni gli Usa hanno «aggiornato» più volte la loro legislazione sulla proprietà intellettuale, fino al momentaneo epilogo del Digital Millennium Copyright Act. Non da meno è stato l'azione della Wipo, la World Intellectual Proprierty Organitation, un vero e proprio think thank in materia da sempre sensibile alle motivazione delle grandi imprese. In una serie di documenti preparati in vista anche del Wsis - di particolare interesse è quello che porta il titolo Intellectual Property on the Internet: a Survey of Issues (http://ecommerce.wipo.int) -, questa organizzazione considera l'uniformità delle leggi sulla proprietà intellettuale come la conditio sine qua non di un'efficace strategia volta a legittimare l'appropriazione privata di un bene comune come sono la conoscenza e il sapere. Recentemente, ad esempio, ha pubblicato un promemoria sui brevetti applicati sia al software che alla mappatura del Dna in cui prendeva atto del fallimento del vertice di Cancun del Wto, ma considerava comunque essenziale che nell'agenda politica mondiale l'armonizzazione della legislazione sui brevetti diventasse uno dei argomenti principali degli organismi sovranazionali e per questi motivi l'organizzazione chiamava i rappresentanti dei paesi membri e delle grandi corporation ad avviare un negoziato per definire le linee guida di una strategia globale sui brevetti (www.grain.org/pubblications/wipo-splt-news-2003-en-cf ). Per la Wipo, però, il panorama internazionale si è arricchito di un nuovo attore che costringe nuovamente a modificare a livello globale le politiche legislative sulla proprietà intellettuali. Si tratta dei «paesi di recente industrializzazione» che chiedono di poter contare sul piano mondiale anche su questo specifico problema. Nel recente vertice di Cancun, il cosiddetto gruppo chiamato G20 - e che poi è diventato G21, G22 e, infine, G22plus - ha posto con forza anche il problema della proprietà intellettuale, prospettando la possibilità da parte di alcuni paesi di violare proprio i Trips. Tra i paesi fondatori del G20 c'era il Brasile del presidente metalmeccanico Lula e l'India, da sempre paesi molto sospettosi nei confronti della legislazione internazionale su brevetti e copyright. Per il Brasile, infatti, in alcuni casi si può applicare l'articolo 21 del trattato che ha istituito il Wto, dove si legge che in caso di «emergenza nazionale» un paese che fa parte dell'Organizzazione mondiale del commercio può sospendere qualsiasi trattato sottoscritto sul libero commercio. E il paese latinoamericano ha minacciato di applicarlo nel caso della produzione dei cosiddetti medicinali «salva vita». Lo stesso ha fatto l'India, subito dopo che il Sudafrica di Nelson Mandela fu portato in tribunale dalle multinazionali farmaceutiche per aver cominciato a produrre dei medicanali per affrontare e contrastare la devastante diffusione dell'Aids. Per la Wipo, la strada di una unica legge per tutto il mondo non è più granché percorribile, come dimostra il fallimento del vertice di Cancun. In particolar modo, bisogna prevedere delle «eccezioni» per paesi, come il Brasile e l'India, che nelle ultime decadi hanno conosciuto significati processi di industrializzazione. In altri termini, se l'applicazione dei Trips deve essere rigida per i paesi in via di sviluppo, per quelli di «recente industrializzazione» va usata una mano di velluto in direzione di una stabilizzazione delle relazioni interstatali, evitando così l'acuirsi dei conflitti tra Nord e Sud del mondo. Conflitti che avevano visto manifestarsi anche un altro inatteso ospite, il «movimento dei movimento», che aveva occupato la scena politica globale proprio durante in una riunione del Wto dove si discuteva anche di proprietà intellettuale. Che il clima internazionale sia cambiato lo testimonia il lavoro di una commissione «indipendente» voluta dal governo laburista di Blair - Integrating Intellectual Property Rights and Development Policy (www.iprcommission.org) - che nel documento finale consiglia una politica «dell'attenzione» nei confronti dei paesi di recente industrializzazione, che hanno conosciuto uno sviluppo della capacità produttiva nei settori «sensibili» alla proprietà intellettuale. Il riferimento implicito è proprio al Brasile e all'India, rispettivamente paesi emergenti nell'industria farmaceutica e nell'high-tech, nonché naturali e enormi bacini di biodiversità, il «vivente» che molte imprese vorrebbero mettere sotto brevetto. Dello stesso tenore è anche il rapporto francese del Conseil d'analyse économique - www.cae.gouv.fr -, nel quale un gruppo di economisti e giuristi, in nome della difesa del diritto d'autore, invita a essere pragmatici e realisti: una legislazione draconiana all'interno limiterebbe le capacità innovative delle imprese e del «sistema-paese», mentre l'applicazione a livello internazionale del sistema dei brevetti e del copyright aumenterebbe le tensioni e i conflitti a livello globale e favorirebbe la saldatura politica tra paesi di recente industrializzazione e paesi in via di sviluppo, come è appunto accaduto al vertice del Wto tenuto a Cancun. La tripartizione del mondo che emerge dalle analisi degli organismi sovranazionali è certamente una delle rappresentazioni della crisi di un ordine mondiale basato sul libero mercato. E tuttavia i temi realtivi alla brevettabilità del vivente, del copyright e dell'economia del logo quando sono affrontati dal movimento di critica alla globalizzazione economica rivelano la loro valenza politica più che economica in senso stretto. L'animatore della mailing list nettime nonché teorico dei new media Geert Lovink, nel presentare i materiali prodotti da gruppi di base e da economisti «alternativi» in vista dell'appuntamento del Wsis, sostiene che quello di Ginevra deve essere un evento nel quale tutto il «movimento dei movimenti» deve far sentire con forza la sua voce. Tra questi spicca, per capacità di sintesi, quello dell'attivista Alan Toner, di cui esiste anche una versione tradotta in italiano scaricabile dal sito italiano di indymedia (http://italy.indymedia.org). Il suo limite sta semmai nel considerare la proprietà intellettuale solo come un impedimento alla libera circolazione delle informazioni e un ostacolo allo sviluppo di media alternativi. In uno degli studi più interessanti sul rapporto tra brevetti, innovazione e sviluppo economico, la ricercatrice statunitense Petra Moser ha documentato come il diritto d'autore, e i brevetti in particolare, abbia molto più a che fare con la produzione di ricchezza che non con l'astratta difesa di un'opera di ingegno (How Do Patent Laws Influence Innovation? Evidence from Nineteeth-Cenury World Fairs, www.nber.org/papers/w9909). Di questo lavoro ne ha già riferito Franco Carlini sulle pagine di questo giornale il 5 ottobre, ma è altresì importante notare come la ricercatrice americana testimoni come l'assenza di una legislazione non rigida non ostacoli l'innovazione, ma che anzi favorisca la ricerca scientifica di base, mentre la presenza di una legge garantisca tutt'al più una circolazione e una diffusione rallentata di quella che l'economista statunitense Nathan Rosenberg ha chiamato «innovazione incrementale». In altri casi, come ha documentato lo storico dell'impresa Alfred Chandler nel volume La rivoluzione elettronica (Università Bocconi Editore), il diritto d'autore è uno strumento flessibile per il governo politico del mercato e che è stato di conseguenza usato, alternativamente, in maniera blanda quando si trattava di «costruire un mercato», oppure per favorire, attraverso la costruzione di robuste «barriere d'entrata», la posizione predominante di alcune imprese che hanno già conseguito un «margine competitivo» rispetto a possibili concorrenti. Per tornare alla ricerca di Petra Moser, l'economista del Mit è molto attenta a non giungere a conclusioni così drastiche, ma le sue ricerche condotte all'interno della Sloan School Of Management, cioè uno dei tempi sacri a favore del libero mercato, lasciano ben pochi margini di dubbio. La proprietà intellettuale è quindi da considerare lo strumento attraverso il quale le imprese vogliono, da una parte mantenere i loro margini di profitto, dall'altra usarlo per «appropriarsi» di un sapere diffuso e da sempre proprietà comune. Rispetto a questa concezione della proprietà intellettuale come diritto proprietario delle imprese, Internet rappresenta un'anomalia, perché la Rete è cresciuta in un regime di diritto d'autore ai minimi termini: e questo grazie proprio a un'attenta regia della National Science Foundation e del Pentagono, che hanno favorito libera circolazione e condivisione della conoscenza all'interno della comunità scientifica e hanno promosso la diffusione dei risultati della ricerca scientifica nella realtà produttiva degli Stati uniti. Ma Internet è anche il luogo dove questa alterità rispetto alle leggi sulla proprietà intellettuale ha dato vita ai movimenti dell'open source e del freesoftware. In una ricerca condotta dai due giovani economisti americani Josh Lerner e Jean Tirole - The Simple Economics of Open Source, www.nber.org/papers/w7600 - viene descritto, attraverso lo studio dello sviluppo dei software Apache, Sendmail e del linguaggio di programmazione Perl, di il percorso che ha condotto decine di migliaia di programmatori dalla critica alla proprietà intellettuale a sviluppare attività economiche di tutto rispetto. Per Lerner e Tirole, i tre case studies dimostrano che c'è innovazione quando esiste condivisione della conoscenza e che qualsiasi gabbia che vuol richiudere e privatizzare il sapere sociale ostacola lo sviluppo economico. Conclusioni condivisibili e convincenti, ma che sono condotte proprio in nome della libera concorrenza e della critica delle posizioni di monopolio che alcune delle major dell'informatica hanno nella produzione di software. E uno dei compagni di strada che i mediattivisti incontreranno durante la riunione del Wsis saranno proprio i programmatori del software libero. Come questo incontro possa tradursi o meno in una ricchezza reciproca non è dato sapere. E' indubbio che l'open source e il freesoftware sono una realtà economica che usa un linguaggio libertario e antimonopolista, ma rappresentano al tempo stesso un modello di autorganizzazione sociale che fa leva proprio sull'informazione e sulla conoscenza come bene comune. Cioè le caratteristiche proprie tanto del «movimento dei movimenti» che dei mediattivisti, che il regime della proprietà intellettuale vuole ricondurre alla ragione economica. Quella stessa ragione che trasforma il sapere e la conoscenza in merce.
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