precariato due facce di una legge



il manifesto - 01 Novembre 2003

Il precariato a due facce della legge 30

LUIGI CAVALLARO

Il precariato a due facce della legge 30

Intervista a Pietro Ichino sugli effetti delle legge che precarizza
completamente il mercato del lavoro. Il caso limite della trasformazione dei
co.co.co. in «assunzioni a progetto»: premessa per l'assunzione o
destabilizzazione dei posti a tempo indeterminato?

LUIGI CAVALLARO

Pietro Ichino è fra i massimi giuslavoristi italiani. Già responsabile dei
servizi legali della Camera del Lavoro di Milano, deputato del Pci dal 1979
al 1983, attualmente è ordinario di Diritto del lavoro all'Università
Statale di Milano e direttore responsabile della Rivista italiana di diritto
del lavoro. Editorialista del Corriere della sera e autore, da ultimo, di
una monumentale monografia sul contratto di lavoro, da molti anni denuncia
le storture legate al dualismo del nostro mercato del lavoro, sostenendo che
la legge e il sindacato non dovrebbero proteggere i lavoratori dal mercato
ma metterli in condizione di competere efficacemente nel mercato. Lo abbiamo
intervistato a proposito di una norma contenuta nella cosiddetta «riforma
Biagi» che potrebbe avere un effetto dirompente sulle famigerate
«collaborazioni coordinate e continuative»

Hai scritto più volte in questi mesi che la nuova norma sulle collaborazioni
autonome contenuta nella legge n. 30 è una norma giacobina. Prima di
spiegare perché, puoi dirci di cosa si tratta?

È la norma per cui d'ora in poi sarà vietato ingaggiare un lavoratore per
una collaborazione autonoma a tempo indeterminato: lo si potrà fare soltanto
per un «lavoro a progetto», con un contratto a termine. In tutti i casi in
cui, invece, la collaborazione avrà carattere continuativo e non
occasionale, la si considererà automaticamente come lavoro subordinato. Sono
esclusi da questa regola solo i titolari di pensione di vecchiaia, gli
iscritti a un albo professionale e coloro che lavorano per enti pubblici.

Molti pensano che sarà facile eludere la norma: basterà far apparire che la
collaborazione sia autonoma per postularne il legame con un qualche
«progetto».

Ma in moltissimi casi l'operazione sarebbe rischiosa per l'impresa: come si
fa a fingere un «progetto» per un correttore di bozze, un pony express, un
addetto a call center, una segretaria di redazione di rivista, un
merchandiser che dispone i prodotti sui bancali del supermercato per
incarico della ditta produttrice, un taxista, un operaio impiantista? E poi,
che cosa accadrà quando un giudice del lavoro si vedrà sottoporre una
collaborazione improvvisamente trasformata «a progetto» dopo anni in cui si
è svolta a tempo indeterminato? Oppure una serie di tre, quattro, cinque
collaborazioni formalmente «a progetto» ma sostanzialmente di routine,
sempre uguali a se stesse, senza soluzione di continuità, tutte correlate
alla normale attività aziendale?

Quelli che hai menzionato sono per lo più casi nei quali l'autonomia della
prestazione è più simulata che reale. Tu stesso, del resto, hai sostenuto
che i «co.co.co.» hanno più o meno le stesse esigenze di protezione del
lavoratore subordinato.

Sì, è da almeno quindici anni - e per almeno dieci anni nel silenzio
generale, anche a sinistra - che sostengo la necessità del superamento della
divisione dei lavoratori sostanzialmente dipendenti da un datore di lavoro
in lavoratori «di serie A» e «di serie B». E sostengo pure che questa
divisione ha fatto comodo ai lavoratori stabili regolari, scaricando tutto
il peso della flessibilità di cui il sistema produttivo aveva bisogno sugli
altri: non solo i «parasubordinati», ma in generale tutti i precari e gli
irregolari. Sono molti milioni.

Perché allora critichi una norma come questa, che di fatto comporterà
l'assorbimento di una parte consistente di questi lavoratori nell'area di
applicazione delle tutele del diritto del lavoro?

Perché temo che l'operazione, fatta in questo modo, non sortisca
quell'effetto. La trasformazione della collaborazione autonoma in lavoro
subordinato comporta per l'impresa un aumento di costo orario diretto pari
circa a un terzo, oltre all'applicazione di tutti i vincoli propri del
lavoro subordinato, che si traducono in costi indiretti notevoli. In tutti i
casi - e temo che saranno centinaia di migliaia - in cui l'impresa non potrà
o non vorrà assumersi questi maggiori costi e vincoli, vedo il rischio della
perdita di occupazione o di aumento del lavoro nero.

È per questo che il sindacato è stato relativamente tiepido nei confronti di
questo aspetto della riforma, che pure è «oggettivamente» - come si sarebbe
detto una volta - progressista?

In molte imprese, anche di grandi dimensioni, senza quel polmone di
flessibilità e di lavoro a basso costo il vecchio equilibrio aziendale
scricchiolerebbe. Se davvero si dovessero aprire d'un tratto le porte della
cittadella del lavoro regolare a tutti quegli «atipici», l'impresa
presenterebbe il conto anche ai regolari. E in qualche caso sarebbero gli
attuali regolari a rischiare il posto, o un peggioramento dello standard di
trattamento, più degli attuali atipici, perché questi ultimi sono più
produttivi. Cgil, Cisl e Uil oggi di fatto rappresentano quasi
esclusivamente i regolari; si capisce, dunque, perché di fronte a questa
norma esse non prendano l'iniziativa di rivendicarne la rigorosa
applicazione, ma tacciano imbarazzate, non sappiano che pesci pigliare. Per
la Cgil, poi (come ho scritto sul Corriere qualche tempo fa e come conferma
l'articolo di Claudio Treves sulla prima pagina di Rassegna Sindacale dello
stesso giorno), c'è un problema aggiuntivo: rivendicare l'applica - zione di
questa nuova norma significherebbe riconoscere che nella «legge Biagi» c'è
anche qualche cosa di buono.

Ritorna qui la contrapposizione fra insiders e outsiders che tanto fa
disperare i sindacalisti di mezza Europa. Ma da dove nasce, secondo te, il
dualismo del nostro mercato del lavoro?

Io lo vedo come la conseguenza di una scelta compiuta negli ultimi
cinquant'anni dal nostro legislatore e dal nostro movimento sindacale,
secondo un modello comune a tutta l'Europa meridionale: si è parlato in
proposito di «modello mediterraneo». La scelta di imperniare la protezione
dei lavoratori esclusivamente sulla stabilità del posto di lavoro regolare,
invece che su di un mix equilibrato di protezioni in azienda e nel mercato
del lavoro, secondo il modello nord-europeo. Detto questo, non sono affatto
un fautore del pensiero unico e sono sempre interessato a spiegazioni
alternative.

Non si potrebbe dire, per esempio, che la divisione del mercato del lavoro
fra insiders e outsiders è il frutto (marcio) di vent'anni di politiche
dell'offerta, che hanno scaricato sui salariati il peso della progressiva
contrazione della domanda effettiva, peraltro enfatizzata nell'ultimo
decennio dalle politiche di rientro dal debito pubblico? E che buona parte
della responsabilità di aver ingigantito la frattura fra insiders e
outsiders andrebbe assegnata all'Ulivo - penso al pacchetto Treu?

Si può vedere la cosa anche così. Io la vedo in un altro modo. Non credo né
che basti una politica di robusto aumento della domanda a evitare i fenomeni
di esclusione o di segmentazione del mercato del lavoro, né che siano state
le politiche governative dell'offerta a causare il grave dualismo del
tessuto produttivo italiano. D'altra parte, le «politiche dell'offerta» a
cui ti riferisci sono quelle che ci indica come politiche positive l'Unione
Europea; e abbiamo l'esempio dei sistemi nord-europei, che per primi le
hanno sperimentate e che sono perfettamente in grado di reggere la
competizione internazionale rispettando i vincoli di politica economica
comunitari, ma al contempo continuando a garantire alla generalità dei
lavoratori standard di sicurezza e di benessere elevati, e senza creare al
proprio interno una classe di paria, come è da noi quella dei precari, degli
atipici, dei co.co.co., degli irregolari.

Veramente, se alludendo ai sistemi nord-europei ti riferisci anche a quelli
scandinavi, le cose non stanno esattamente come dici, nel senso che
l'introduzione di politiche dell'offerta lì si è accompagnata non già a una
riduzione ma a un aumento del ruolo dello Stato nelle politiche di
allocazione, stabilizzazione e ridistribuzione. Che invece è proprio ciò che
l'Unione Europea aborrisce, e l'Ulivo si guarda bene dal rivendicare.

Se l'aumento del ruolo dello Stato - quindi anche dell'imposizione fiscale e
della spesa sociale - è orientato nella direzione in cui lo è in Svezia,
Norvegia e Danimarca, io sono nettamente favorevole. Sul come quel modello
possa essere imitato e reinterpretato nel nostro Paese, la parola spetta più
a economisti e sociologi che a noi giuristi. Sono convinto, comunque, che
nessuno schema o modello colga per intero una realtà complessa e articolata
come quella del mercato del lavoro in una società sviluppata come la nostra.
Ogni schema, ogni spiegazione ne coglie un aspetto, una parte. Tutto sta a
studiare la questione con spirito laico, quindi soprattutto attraverso la
comparazione internazionale, cercando di capire qual è lo schema concettuale
che coglie la parte più importante e più utile per cambiare le cose in
meglio.