navalmeccanica, prospettive



da liberazione.it 
domenica 28 settembre 2003

        
      Fincantieri non è un carrozzone da smembrare per giochi di potere 
      Navalmeccanica, il futuro è nel mare 
     
     
      Che l'industria italiana sia in crisi non lo dicono solo i lavoratori ma si è fatto senso comune. Non lo è diventata ancora (senso comune) la consapevolezza che un paese che si avvia, come l'Italia, alla deindustrializzazione totale, dovrà comperare tutto esportando solo, come già oggi, moda, design e prodotti a basso valore aggiunto. E il declino ci fa colonia. 
      Un programma economico, di svolta perché dovrà contenere invece un'ipotesi di rilancio industriale, dovrà essere l'asse portante di quel programma di alternativa che oggi si propongono quanti, dall'opposizione, vogliono cacciare il governo Berlusconi. Ma l'uscita dalla crisi industriale è possibile impugnando grandi idee e, fondamentale, già salvaguardando i settori che tuttora resistono. La navalmeccanica è uno di questi. Uno dei pochissimi. 

      In Italia la navalmeccanica è da intendersi come una rete di cantieri navali, pubblici e privati, che progetta e costruisce navi passeggeri, traghetti e navi mercantili, navi militari. Ben 50mila sono i suoi addetti che, con l'indotto, possono essere addirittura triplicati. E' un settore che ruota attorno agli stabilimenti di Fincantieri (non tragga in inganno quel Fin, si tratta di veri e propri cantieri navali) che occupano più di 9mila lavoratori, 30mila nell'indotto, concentrati in 8 siti produttivi collocati in Liguria, Campania, Sicilia, Marche e Friuli. E' su Fincantieri (pubblica per l'83% e con il 17% controllato da un pool di banche) che oggi si gioca la partita di tutta la navalmeccanica italiana, e il suo stesso ruolo in Europa e nel mondo. Con una premessa: nel mercato mondiale è oggi in calo la domanda di navi, ma tutti gli indicatori parlano di assestamento momentaneo che prefigura, prima o poi, il rilancio dell'"economia del mare". L'economia del mare è il futuro. Bisogna attrezzarci per essere protagonisti in questa possibile ripresa dotandoci, in Italia e in Europa, di una politica: che finora non c'è. Permanendone l'assenza, nel settore e anche in Italia penetrerebbero come lama nel burro le produzioni navali della Corea del Sud che, sospinta da spregiudicate pratiche di "dumping" sui prezzi, è già leader mondiale con il 50% del mercato, e della Cina che si propone di arrivare al 25%. E la Cina opera anche sulla qualità. Nessun dazio li fermerà. L'Italia del mare, finora, ha retto, anche se alcuni cantieri navali che avevano fatto la sua storia sono costretti ad uscire dal mercantile e riconvertirsi: come i cantieri Ferrari-Signani di Spezia, Oram di Spezia e Morini di Ancona, i Fratelli Orlando di Livorno, cantiere simbolo della lotta operaia passato ad Azimut (dopo, duole dirlo, il travaglio della Cooperativa). Il rischio incombe soprattutto per i cantieri privati italiani che, o si rifugiano nel super-lusso o sono cannibalizzati. Fincantieri pubblica regge però sullo slancio inerziale di vecchie commesse civili, ma si lavora al di sotto della potenzialità, e di un buon portafoglio di ordini militari assemblato con la cooperazione della Marina Francese. Non è certo un carrozzone, ma presenta un limite nella committenza assolutamente prevalente che le assegna, nella croceristica di cui resta leader mondiale, il cliente di riferimento "Carnival", quasi un azionista di maggioranza anomalo. Regge ma non c'è una direzione, il Governo non sa nemmeno cosa sia la navalmeccanica. Regge ma fino a quando? E nella latitanza dei Ministri si agitano taluni manager. Si agitano per loro, non certo per il Paese. Infatti su Fincantieri (e Finmeccanica) sono in corso d'opera dei "giochi di potere". L'attuale Amministratore Delegato, Bono, considera Fincantieri non come società di ingegneria ma come una Holding (ne ha oltretutto spostato il centro delle decisioni da Trieste, sede naturale, a Roma) in cui vadano separate quelle funzioni, civile e militare, che convivendo, avevano invece consentito la tenuta a fronte delle oscillazioni della domanda. Per Bono l'unità del gruppo non è più un fattore strategico. Sbagliato e miope. Oltretutto in Europa nessuno muove in questa direzione. E' solo la grande dimensione, come massa critica competitiva, e la sua polifunzionalità che consentono la tenuta. Ma Bono non ci crede. Il Governo dal canto suo già indicò, nel Dpf del 2002, Fincantieri quale società addirittura da dismettere per fare cassa. Ora la cosa non si pone più così frontalmente ma la mossa oggi annunciata (quella separazione e l'invenzione di nuovi contenitori) è parimenti insidiosa. L'attacco si fa doppio: su Fincantieri, scorporando la parte civile da quella militare, che si comporrebbero, con la parte civile (in un Fincantieri 2) e quella militare di Finmeccanica; e su Finmeccanica. Finmeccanica, l'altro soggetto in campo è, a differenza di Fincantieri, una conglomerata privata che il pubblico controlla con la "golden share", ed è, anche e soprattutto, l'unico strumento a disposizione dell'Italia per fare politica industriale e orientarne gli asset di energia, cantieristica, telecomunicazioni, informatica, aerospazio, industria della difesa. E' lo strumento di quella programmazione che non si pratica ma deve entrare in un programma di alternativa. L'operazione invece che si affaccia, fondata appunto su una finanziaria che raggruppa le attività civili, ha in sé forti elementi di pericolo: essa espone alcuni cantieri navali a rischio (che ne pensano Jilly e Bassolino del futuro degli stabilimenti di Trieste, già depotenziata anche della siderurgia, e Castellammare di Stabia?); colloca il civile, così accorpato, senza prospettiva e quindi in un parcheggio temporaneo in attesa di vendita; abbatte la massa critica duale, articolata e competitiva, indispensabile per ricerca, per interscambio di informazioni, compensazioni ed economie di scala; e, soprattutto, intacca la potenzialità dello strumento Finmeccanica, ove sarebbe grave errore cedere Ansaldo Europa, Elsag e Ansaldo Breda. E' così che si regala il mercato alla Corea. In cambio, Bono e la sua lobby, acquisirebbero maggior potere scalandolo proprio a Finmeccanica. Nessuna visione mondiale, europea, nazionale. Un gioco di potere locale. Non va bene, ha ragione la Fiom nel contestare l'intento. Questo intento va combattuto. Ragioniamo di politica non di contenitori. 

      Se oggi il settore è senza governo, si impedisca almeno che scivoli, dividendosi, fuori mercato, e si guardi avanti: non a Fincantieri 2 ma alla navalmeccanica italiana tutta che resta un patrimonio tuttora eccellente. Non si rompa perciò l'integrità di Fincantieri ma, all'opposto, Fincantieri entri unita in Finmeccanica, e, insieme, attivino sinergie, scambi oltretutto con una base finanziaria più forte, indispensabile per questo mercato a rischio alto e a redditività medio-bassa. E il militare e il civile stiano insieme per tornare ad assumere un grande ruolo in Europa. Anche in Europa, infatti, il futuro della cantieristica, si guardi alla piattaforma "Leader Ship 2015", è assegnato proprio alla dualità di funzioni. Il "duale" è assolutamente decisivo, la diarchia è nociva. Oggi è forse il militare stesso che lo chiede. La ripresa si può avvicinare, la partita è aperta, nel Governo c'è incertezza, pure Mediobanca, advisor dell'operazione, appare perplessa. Facciamo apparire subito la proposta netta che valorizzi insieme Finmeccanica e Fincantieri (la loro unificazione può anche sottrarre Finmeccanica all'influenza anglo-americana verso cui la spinge il Governo). E si ripotenzi la navalmeccanica, il lavoro ed i lavoratori, anche dei piccoli e medi cantieri. Non ci si rifugi nella illusoria difesa del territorio, quale sia la città o la regione che apparentemente ne trarrebbe vantaggio a scapito di altre, non si ripeta l'errore di quel conflitto apertosi tra territori che, quasi trentanni fa, in elettromeccanica pesante portò alla sconfitta di tutti e di un settore industriale allora all'avanguardia e poi dequalificato dalla committenza garantita dell'Enel. Approfondiamo, discutiamo e, come Rifondazione Comunista, organizziamoci per far circolare meglio le idee. 

      Bruno Casati  


     

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