energia regole e futuro



da repubblica di lunedi 29 settembre 2003


Le regole tradite
di GIOVANNI VALENTINI

Nel buio psicologico in cui il nostro Paese sta progressivamente scivolando
sotto la guida del centrodestra, quest'ultimo blackout diventa un'allegoria
dell'impotenza e dell'inettitudine di un governo che aveva promesso agli
italiani un altro miracolo economico e invece rischia giorno dopo giorno di
trascinarlo al collasso. È stato, quello di ieri, un megaspot
sull'incapacità di gestire i problemi elementari di una società moderna, di
affrontare gli imprevisti quotidiani, di risolvere gli incidenti tecnici più
banali. Non solo per i pesanti disagi e i disservizi a cui ha sottoposto
milioni di persone da un capo all'altro della Penisola.

Il thriller domenicale ha contribuito soprattutto ad alimentare quel senso
diffuso di precarietà, d'insicurezza, d'inquietudine che contagia come un
"male oscuro" fasce sempre più ampie di cittadini: una sindrome dal
malgoverno che si propaga ormai con la velocità di un virus.

Il grottesco ping-pong delle responsabilità con i nostri vicini d'Oltralpe
ha messo a nudo l'inadeguatezza delle autorità nazionali anche di fronte
all'ordinaria amministrazione. Prima le accuse alla Francia e le conseguenti
smentite, poi le reazioni sdegnate della Svizzera, hanno rivelato una
mancanza di organizzazione e di coordinamento che francamente lascia
sbigottiti: sarebbero stati sufficienti pochi secondi per riparare il guasto
e ripristinare la fornitura di corrente elettrica. Nel frattempo, però, era
già partito il consueto gioco dello scaricabarile, con la pretesa di
addebitare retrospettivamente tutte le colpe ai governi di centrosinistra e
rilanciare in grande stile la campagna a favore dell'energia nucleare.

In realtà non era accaduto nulla di così eccezionale o drammatico da
giustificare una tale paralisi elettrica. Nella notte tra sabato e domenica,
non faceva né troppo caldo né troppo freddo per determinare un aumento
improvviso dei consumi. E infatti, in questo week-end di settembre, risulta
che la domanda di energia è stata inferiore alla metà di quella abituale
giornaliera. A quanto pare, è bastata la caduta di un albero su un cavo ad
alta tensione, durante un temporale, per fermare tutta l'Italia e per
diverse ore.

Almeno in questo caso, dunque, il problema non attiene al fabbisogno di
corrente elettrica, al deficit di produzione o alla nostra dipendenza
energetica dall'estero. Qui tutto deriva da una cattiva gestione della rete
di distribuzione, da una carenza di strutture, da un'impreparazione tecnica
che non hanno nulla a che fare con la necessità di nuove centrali, magari
nucleari, come reclama una lobby sempre più agguerrita.

Eppure, all'indomani del blackout estivo di New York, proprio in
un'intervista a Repubblica del 17 agosto scorso, il presidente dell'ente
gestore nazionale Bollino aveva assicurato che in Italia "incidenti del
genere non potrebbero accadere" e che "i nostri impianti sono migliori di
quelli americani".

La verità è che ormai sono passati due anni e mezzo dall'avvicendamento alla
guida del Paese, ma la nuova maggioranza "amica degli industriali" ha fatto
poco o nulla per realizzare un Piano energetico e impostare una politica
energetica adeguata. In un settore così nevralgico per l'economia, per la
produzione e per lo sviluppo, l'Italia - è proprio il caso di dirlo -
procede al buio, senza regole certe e obiettivi chiari.

Per individuare le cause più remote di questa situazione, forse bisogna
risalire alla logica tutta finanziaria di una privatizzazione a cui non è
seguita un'effettiva liberalizzazione del mercato, con ciò che un tale
processo comporta in termini di concorrenza, di investimenti e di
innovazione. E poi, si può discutere anche di nuove centrali, di fonti
alternative, di risparmi energetici. Sarebbe già tanto, però, se nel
frattempo si riuscisse ad assicurare la regolarità della fornitura elettrica
in condizioni ordinarie come quelle di un tranquillo week-end di settembre.

Suonavano a tutto spiano ieri le sirene degli impianti antifurto, alimentati
dalle batterie, ma il vero allarme riguarda un governo che non governa, una
maggioranza che non legifera se non nelle materie che toccano direttamente
gli interessi, aziendali o giudiziari, del presidente del Consiglio e dei
suoi sodali. Anche se la luce finale finalmente è tornata, il nostro futuro
resta quantomai incerto e oscuro. Sì, ieri sera è stata ripristinata la
normalità sulla rete elettrica, ma questo non è ancora un Paese normale.

(29 settembre 2003)


Il mondo che ci aspetta

di FEDERICO RAMPINI
"LA QUESTIONE non è se, ma quando, il prossimo grande collasso elettrico
colpirà" (North American Electric Reliability Council, 2001). Chiunque creda
in Italia d'aver subìto ieri una calamità eccezionale, s'illude: ha solo
vissuto una prova generale di quel che sarà il nostro futuro "normale". Il
mondo intero corre ciecamente verso la catastrofe energetico-ambientale,
foriera a sua volta d'inaudite tensioni geopolitiche, conflitti sociali e
avventure militari. L'Italia corre nella stessa direzione, a modo suo: cioè
mescolando eccessi postmoderni e debolezze premoderne, con in più quel
sovraccarico di malafede e sguaiata rissosità interna che rende ancora più
difficile al paese capire e affrontare una terribile emergenza. È questo il
problema centrale dell'epoca contemporanea.
Continuando a sottovalutarlo, le nostre generazioni e le classi dirigenti
che ci governano si macchiano di colpe incancellabili verso l'umanità
futura.

Per chi ha vissuto i blackout americani degli ultimi quattro anni,
innanzitutto balzano agli occhi le sconcertanti anomalie di quello italiano.
Primo. Queste crisi altrove esplodono di giorno perché coincidono con punte
massime di consumi energetici (sia industriali che domestici), spesso in
circostanze meteorologiche anomale (per esempio ondate di caldo che spingono
al massimo l'uso dei condizionatori). È raro invece che un blackout inizi a
notte fonda e con consumi bassi com'è avvenuto ieri in Italia, e ciò rivela
una fragilità inquietante del sistema elettrico nazionale. Secondo. Il fatto
che l'origine di questa crisi sia da cercarsi nelle nostre reti di
importazione - dalla Svizzera o dalla Francia non importa - ricorda
l'ulteriore vulnerabilità di una nazione non autosufficiente. Non solo, come
altri paesi, dobbiamo importare petrolio e gas per far funzionare le
centrali elettriche sul nostro territorio; ma poiché l'energia generata
nelle centrali italiane è largamente al di sotto dei nostri consumi, abbiamo
un bisogno vitale di importare grandi quantità di corrente da Francia,
Svizzera, Austria.

E di importarla ogni giorno, a ogni ora del giorno e della notte: perché
l'energia elettrica non si può depositare in magazzini, è un flusso
permanente dal produttore al consumatore. La terza anomalia italiana è che
il blackout ha paralizzato l'intero paese, una nazione di 57 milioni di
abitanti che si ritiene sia la settima potenza industriale del pianeta: non
era mai accaduto prima. Nella teoria matematica del caos, il battito d'ali
di una farfalla in Giappone può provocare un ciclone dall'altra parte del
mondo; abbiamo assistito alla variante in cui un albero che cade in Svizzera
può gettare nell'orrore la Sicilia. Viviamo in un mondo dominato da una
crescente interconnettività dei sistemi, le grandi infrastrutture di
distribuzione elettrica non sono diverse dalla rete Internet.

Un tempo la corrente veniva prodotta e consumata localmente: era una
soluzione inefficiente, perché se una centrale elettrica romana alimenta
Roma, e una milanese alimenta Milano, queste centrali devono essere
sovradimensionate per poter rispondere alle punte dei consumi, e il resto
del tempo sono sottoutilizzate (quindi troppo costose). Il guadagno di
efficienza che si è avuto costruendo dei mercati energetici sempre più
integrati, a livello addirittura sovranazionale, si è tradotto in
altrettanta vulnerabilità: il batter d'ali della farfalla, un incidente in
una periferia remota del sistema, si propaga a velocità incontrollabile fino
all'infarto mortale.

In un sistema altamente complesso e sofisticato l'Italia è l'anello debole:
iperdipendente dalla modernità degli altri, premoderno per la sua rete
distributiva che l'Enel ha mantenuto deliberatamente sottosviluppata (il
Mezzogiorno convive da sempre con blackout a scacchiera che sono la
maledizione per le sue imprese; le strozzature ai confini con Francia e
Svizzera sono funzionali per mantenere la posizione dominante del
monopolista).

L'estrema patologia italiana non deve occultare però la dimensione mondiale
del fenomeno. Estati del 2000 e 2001 in California, 14 agosto 2003 sulla
East Coast americana (New York e Detroit, Cleveland e Toronto), 28 agosto
2003 a Londra, 23 settembre 2003 in Danimarca: il bollettino delle
emergenze-blackout segna un'accelerazione impressionante. Ovunque, le reti
di distribuzione sono le prime a saltare: essendo infrastrutture di
interesse collettivo, sono state le più trascurate da chi (monopoli
pubblici, monopoli privatizzati, oligopoli privati) sul mercato cerca
redditività a breve termine. Ma anche la decrepitudine delle infrastrutture
di trasporto è solo la punta dell'iceberg.

Dietro c'è un problema ben più drammatico: la crescita esponenziale dei
nostri consumi d'energia, e il modo dissennato con cui soddisfiamo i
bisogni. Altro che dare la colpa agli ambientalisti "che non ci lasciano
costruire le centrali" (menzogna usata sia da Marzano che da Bush).
Dimenticando quel tremendo segnale premonitore che fu la crisi energetica
degli anni Settanta, i paesi industrializzati hanno rapidamente girato le
spalle alle energie pulite e rinnovabili (sole, vento, maree, biomasse) e
sono tornati a privilegiare gli idrocarburi: petrolio, carbone e gas sono le
fonti di gran lunga prevalenti dell'energia elettrica generata dalle nostre
centrali.

Anche quando infiliamo la spina del computer nella presa della corrente, il
più delle volte è come se mettessimo in moto l'automobile: alla fine andiamo
sempre a pescare nei giacimenti di petrolio, gas e carbone. Risorse che un
giorno si esauriranno.
Risorse inquinanti; avvelenano l'aria che respiriamo; attraverso l'effetto
serra surriscaldano il clima del pianeta (generando in un circolo vizioso
ulteriori consumi d'energia: dopo i 15.000 anziani morti quest'anno, entro
l'estate prossima tutta Parigi avrà i condizionatori d'aria).

Risorse che hanno concentrato in un angolo del pianeta - il Medio Oriente e
il Golfo Persico - un deposito inesauribile di rendite opulente,
diseguaglianze sociali, dittature medievali, fanatismi religiosi, odio
antioccidentale, terrorismi e interventi militari americani. Gli scienziati
del progetto Redefining Progress hanno organizzato sul sito earthday. net un
geniale questionario, Ecological Footprint Quiz: con poche semplici domande
sul nostro stile di vita e di consumi, misurano immediatamente l'impatto
energetico-ambientale di ciascuno di noi. La risposta nel mio caso è questa:
se i due miliardi e mezzo di cinesi e indiani e tutti gli altri abitanti del
mondo s'adoperano per raggiungere il tenore di vita che ho io,
rappresentante medio della civiltà occidentale, ci occorrono sette
pianeti-terra da sfruttare.

Nonostante consumi energetici ancora esigui rispetto ai nostri, a Pechino e
a Città del Messico l'aria è ormai una densa nube tossica, in India i
blackout sono un evento quotidiano. Quel che è accaduto ieri in Italia
indica da che parte sta il nostro futuro.


(29 settembre 2003)

Dagli choch degli anni '70 alla svolta filonucleare: ma è
una stagione breve. Oggi compriamo elettricità all'estero
Dal nucleare al grande buio
quarant'anni di sfide perdute
di ETTORE LIVINI

MILANO - Lo stato di salute un po' precario del settore elettrico in
Italia - causa non secondaria del black-out di ieri - affonda le sue radici
nella tormentata storia del settore dal dopoguerra ai giorni nostri. Un
percorso un po' schizofrenico, condizionato da decisioni di carattere
puramente politico (come fu la nazionalizzazione del 1962) o da scelte fatte
a furor di popolo (come l'addio al nucleare nel 1987). Ma soprattutto
plasmato spesso dagli enormi interessi finanziari e lobbistici che girano
attorno al business della produzione di energia.

Dopo la seconda guerra mondiale l'elettricità italiana è in mano a una sorta
di monopolio "regionale" privato. Con la Edison (che ha costruito la prima
centrale d'Europa a Milano nel 1883) al Nord, la Sade nel Veneto e in parte
dell'Emilia, la Sip nel Piemonte, la Centrale in Toscana, Lazio e Sardegna,
la Sme nel Sud e in Sicilia. La rinascita industriale del Paese decolla con
l'energia di queste aziende, che in meno di un decennio diventano
potentissime macchine da soldi. Troppo potenti per i Governi del
centro-sinistra di inizio anni '60 che dopo un feroce dibattito arrivano nel
1962 a una decisione drastica: la produzione di elettricità va
nazionalizzata. Fondendo in un'unica realtà (la neonata Enel) oltre 1500
aziende. E gratificando i loro ex azionisti con indennizzi faraonici per
consentir loro di "rifarsi" una vita imprenditoriale.
A pagare il prezzo più alto sono invece i piccoli soci delle 24 aziende che
vengono cancellate dalla Borsa (con titoli a picco) per finire nelle braccia
del neonato monopolio pubblico.

Su queste fondamenta (con i soldi statali) la grande finanza meneghina dà i
natali alla Montedison, mentre l'Enel raccoglie l'eredità finanziaria (e di
rendita di posizione) dei privati. La base di partenza è ancora
relativamente bassa. L'Italia consuma un terzo dell'elettricità di Svizzera
e Gran Bretagna, il 40% meno della Francia. Il pressing dei petrolieri fa
trionfare il greggio come combustibile per le centrali e il modello
idroelettrico perde poco alla volta il suo antico peso, scendendo nel '66
sotto il 50% del totale. Gli anni successivi sono quelli del boom italiano
ma anche degli choc petroliferi. La produzione di energia decolla (si
decuplicherà tra il 60 e l'84).

Ma nel 1973 arriva la prima svolta. La guerra dello Yom Kippur fa volare i
prezzi del petrolio e l'Enel lancia il piano di emergenza che prevede per la
prima volta la costruzione di due centrali nucleari. Una scelta timida,
visto che nello stesso periodo l'Edf in Francia decideva di puntare solo sul
nucleare.

Il colpo d'acceleratore su questo fronte prova a darlo Carlo Donat Cattin
con il suo Piano energetico nazionale del '75 che comprende centrali
nucleari per 20mila Megawatt. Il progetto stenta a decollare da subito.
Incontra problemi finanziari e legislativi. Non parte nemmeno con il secondo
schock petrolifero del '79. Anzi. Negli anni successivi, complici gli
incidenti di Three Mile Island negli Usa e quello di Chernobyl in Russia,
cresce in Italia l'opposizione all'atomo. Bocciato poi del tutto con il
referendum del 1987.
L'Enel intanto rivede le fonti produttive. Fatica a sfondare nel carbone, fa
più uso di centrali a ciclo combinato.

Ma con il petrolio in forte calo l'enfasi torna sul fronte societario. Nel
'92 l'Ente nazionale per l'energia elettrica diventa una società per azioni.
Nel '99, con Bruxelles che chiede a tutta Europa di liberalizzare il
settore, l'Italia approva l'apertura del mercato ai privati. Riparte alla
grande la Edison (in cui tra l'altro oggi è presente il colosso pubblico
francese Edf) mentre l'Enel sbarca in Borsa con un collocamento di una quota
di minoranza (lo Stato ancor oggi ha in portafoglio il 68%) che regala al
ministero del Tesoro 30mila miliardi di lire.

Il resto è storia di oggi. Con un mercato che si apre al rallentatore (e le
tariffe che faticano a scendere), l'Enel ancora in un ruolo dominante in
Italia ma quasi assente all'estero e l'apertura totale del mercato europeo
rimandata dopo un braccio di ferro con Parigi. E con l'elettricità italiana
liberalizzata ma paradossalmente dipendente dalle forniture (a prezzo più
conveniente) delle importazioni del gigantesco monopolio transalpino.


(29 settembre 2003)