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telecomunicazioni, fallimenti
- Subject: telecomunicazioni, fallimenti
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 22 Sep 2003 11:50:19 +0200
LE MONDE diplomatique - Luglio 2003 INNOVAZIONE TECNOLOGICA, MAREMOTO SPECULATIVO Telecomunicazioni, fallimento di una rivoluzione Esplosione della bolla Internet, affare Enron, indebitamento record di France Télécom: le imprese di telecomunicazione sono ormai travolte dalle urgenze dell'economia mondiale. Con le privatizzazioni che subentrano agli investimenti pubblici, la frontiera del capitalismo di questo inizio secolo si vede assalita da sovrapproduzione e concorrenza devastante, vecchi flagelli dell'economia. Dipendenti, utenti, contribuenti cominciano a pagarne il prezzo. Dan Schiller Negli Stati uniti, nel corso degli ultimi due anni sono fallite decine d'imprese del settore delle telecomunicazioni. Nell'ottobre 2002, Lucent Technologies, la più grande industria di componenti per telecomunicazioni, nata come divisione di At&t, aveva già dieci trimestri consecutivi di deficit e denunciava una perdita esorbitante di bilancio. I licenziamenti - che ammontavano a più di mezzo milione già nell'agosto 2002, e che proseguono - hanno distrutto più posti di lavoro di quanti non ne siano stati creati dal 1996. Nel resto del mondo, la situazione non è certo più rosea. Il fallimento di operatori come Viatel o Kpn Qwest è indicativo delle convulsioni dei mercati europei, dove la capitalizzazione in borsa delle imprese di telecomunicazione è crollata di 700 miliardi di dollari tra il marzo 2000 e il novembre 2002 e dove il debito accumulato dai sette maggiori operatori «supera il prodotto nazionale lordo del Belgio (1)». Le perdite appena annunciate dalla Deutsche Telekom sono le più ingenti nella storia della Germania. Quanto a France Télécom, solo una massiccia - e controversa - iniezione di fondi da parte del governo francese ha potuto salvaguardarne la stabilità finanziaria. L'ambizioso operatore giapponese di telefonia mobile Ntt DoCoMo, presente in tutto il mondo, ha visto la sua capitalizzazione in borsa decurtata di 180 miliardi di dollari tra febbraio 2000 e dicembre 2002. Come si è arrivati a tanto e quali sono le prospettive? Fino a tempi recenti, i servizi di telecomunicazione erano per lo più forniti da monopoli, mentre la concorrenza era relegata ai margini del sistema. Eppure, per strano che possa sembrare, c'erano responsabili di agenzie di controllo americane che ne denunciavano il carattere «rovinoso» e «generatore di sprechi» (2). I monopoli si erano costituiti per strade diverse e sotto varie forme. Negli Stati uniti, il ruolo regolatore dello stato nel settore è sempre stato strettamente legato al potere politico ed economico dell'operatore tradizionalmente dominante, At&t. In Europa invece, i ministeri delle poste e telecomunicazioni (telegrafia e telefonia) (Ptt) erano stati realizzati all'interno di una tradizione di sviluppo economico promosso dallo stato, soprattutto grazie al ruolo centrale svolto dalle reti di telecomunicazione nell'amministrazione dei lontani imperi coloniali. Dopo la seconda guerra mondiale, la politica degli Stati uniti, che puntava ad «arginare» il socialismo alla sovietica, vede nelle telecomunicazioni un baluardo da rafforzare il più velocemente possibile per respingere la minaccia rossa. Sotto l'occupazione militare americana, i sistemi tedesco e giapponese sono perciò ricostruiti, non come imprese private (come si poteva pensare), ma come riedizione dei Ptt di un tempo. In molti paesi asiatici e africani diventati indipendenti, ma anche in America latina, gli operatori nati per servire gli interessi stranieri vengono trasformati in monopoli pubblici che danno introiti finanziari. Il recupero del controllo delle telecomunicazioni da parte dello stato - sia pure in situazioni assai diverse tra loro come quelle dell'Argentina del 1946, della Cina del 1949 e del Messico tra il 1940 e il 1972 - si realizza all'interno di un contesto globale di nazionalismo antimperialista. Nella Cuba di Fidel Castro e nel Cile di Salvador Allende, la risoluzione delle concessioni di sfruttamento del mercato interno detenute da operatori americani ha rappresentato un atto fondante della sovranità nazionale - atto che Washington non ha mai perdonato. Le telecomunicazioni diventano così industrie dai limiti ben definiti, con un modus operandi rigorosamente controllato. Sono regimi monopolistici, ma non funzionano tutti allo stesso modo. Nel corso della seconda metà del XX secolo, nelle economie di mercato più sviluppate gli operatori facilitano l'accesso delle famiglie alla rete abbassando i prezzi e creano posti di lavoro ben remunerati, protetti dai sindacati. Nei paesi poveri, le cose vanno molto diversamente. In Asia, in Africa e in America latina il telefono resta un lusso, mentre l'accesso alla rete è assolutamente insufficiente, soprattutto fuori dai centri urbani; anche le famiglie della classe media spesso devono iscriversi ad interminabili liste d'attesa e pagare prezzi proibitivi per allacciamenti e abbonamenti. In compenso, questi monopoli di stato consentono spesso di creare posti di lavoro relativamente stabili, protetti da convenzioni collettive. A volte poi, come ad esempio in India o in Brasile, le Ptt contribuiscono ad iniziative economiche di sostituzione delle importazioni. Ma, fin dalla fine degli anni '50, il sistema è percorso da fremiti che preannunciano i futuri cambiamenti. Nel corso del decennio successivo, guadagna terreno l'idea che in seguito diventerà fondamentale nella critica ai monopoli. Nel 1968, negli Stati uniti, la commissione sulla politica delle telecomunicazioni, istituita dal presidente democratico Lyndon Johnson, testimonia di un'inversione di rotta di 180 gradi: la «concorrenza» diventa la politica ufficiale che gestisce il settore (3). Tutte le amministrazioni seguenti, repubblicane o democratiche, concordano sul fatto che la regolamentazione in materia di telecomunicazioni deve essere soltanto l'eccezione. E, da decenni, schiere bipartisan di autorità delle telecomunicazioni non perdono occasione per vantarsi del loro ruolo d'avanguardia nella liberalizzazione del sistema. Potenti forze strutturali hanno pilotato questa evoluzione. Sul versante della domanda, decenni di crediti federali per la difesa, nei settori dell'elettronica, della ricerca aerospaziale e dell'informatica, hanno permesso di finanziare una miriade di tecnologie emergenti di gestione di reti e di trattamento dell'informazione, incluso Internet. Imprese molto potenti come Ibm o General Electric decidono quindi di confrontarsi con At&t sul mercato delle attrezzature e dei servizi di telecomunicazione. Sempre sul versante della domanda, gli utenti che utilizzano in modo professionale attrezzature e servizi di rete svolgono un ruolo ancora più importante nella destabilizzazione dei monopoli. Ben presto, gruppi sempre più organizzati di clienti di grandi aziende attaccano il regime di monopolio «generalista». Spiegano che la dipendenza funzionale delle loro imprese dai sistemi e servizi in rete cresce rapidamente, ma è ostacolata da prezzi troppo alti e da offerte di servizi non sufficientemente specializzate. Negli anni '70, a fronte di un rallentamento complessivo dei profitti, gli utenti delle maggiori aziende esigono lo smantellamento del monopolio e premono affinché lo sviluppo dei sistemi di rete diventi un'attività commerciale. In modo certo un po' ambiguo, inducono nei responsabili l'idea che gli Stati uniti si trovino di fronte ad un'opportunità da non perdere: una nuova fase di espansione del processo di accumulazione capitalistica. Deificando il principio della liberalizzazione dell'accesso al mercato commerciale e della rapidissima costruzione di sistemi e servizi destinati a gruppi di utenti privilegiati, i responsabili americani hanno dato grande potere ad alcune migliaia di gigantesche corporazioni e alle loro équipe tecniche e gestionali, oltre che ad un numero crescente di fornitori di servizi e di sistemi di rete ad alta tecnologia. Privatizzazioni per 224 miliardi di dollari Nei successivi trentacinque anni, si assiste ad una ridefinizione radicale dell'orientamento e delle caratteristiche di sviluppo del sistema delle telecomunicazioni negli Stati uniti. Mentre ricercatori universitari e analisti del mondo degli affari annunciano a gran voce una pretesa «rivoluzione dell'informazione», nuovi fornitori propongono inediti cicli di sviluppo del mercato, cui si accompagnano impegni finanziari sempre più consistenti nelle reti. Gli investimenti delle imprese, e quelli dei militari, accelerano e amplificano la rivoluzione tecnologica fondata sulle telecomunicazioni (4). I cambiamenti organizzativi e tecnici permeano a loro volta le grandi imprese, dall'agricoltura all'industria, dalla vendita al dettaglio ai servizi. Un rapporto pubblicato nel 1990 evidenzia che le spese annue dei cento più grandi clienti di telecomunicazioni «si posizionano in una forbice che va dai 20 milioni a 1 miliardo di dollari, mentre le spese medie variano da 50 a 100 milioni di dollari» (5). La lista dei dieci maggiori utenti privati nel 1989 mostra la crescente diversità delle applicazioni delle reti: General Motors, General Electric, Citicorp, Ibm, American Express, Westinghouse, McDonnell Douglas, Sears, Ford e Boeing (6). Gli investimenti realizzati sono colossali: si calcola che nel 2000 - l'anno di massima espansione - le spese per le telecomunicazioni delle industrie americane si siano aggirate sui 258 miliardi di dollari (7). Le applicazioni si moltiplicano: sistemi informatizzati di prenotazione, trasferimenti elettronici di fondi e distributori automatici di biglietti, inventari «just-in-time», «computer-aided design» (Cad), telemarketing e numeri gratuiti per la vendita al dettaglio, agenzie governative e fornitori di servizi sanitari e assicurativi. Le «applicazioni aggressive» interessano molto gli strateghi del complesso militar-industriale, che si appropriano di concetti quali campo di battaglia elettronico e guerra informatica. I servizi in rete entrano nel mondo del lavoro e, in un tempo brevissimo, anche nell'universo domestico. Nel 2002, negli Stati uniti, ogni giorno si effettuano 104 milioni di chiamate telemarketing e la cifra di affari annua del settore ammonta a 600 miliardi di dollari. Il capitalismo digitale si appoggia sempre più alle reti per il suo funzionamento quotidiano, e tende ad introdurre meccanismi di mercato in tutti quei settori, il cui numero è in costante aumento, che presentano una forte richiesta di informazione: dai servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche fino alle biotecnologie, passando per l'istruzione. Dato che i principali consumatori di telecomunicazione sono per lo più aziende transnazionali, le pressioni per generalizzare il modello americano si moltiplicano con rapidità (8). Nello stesso periodo, governo americano, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e altre grandi organizzazioni tentano con ogni mezzo di imporre il modello liberista. Man mano che cresce la sicurezza di sé dei gruppi di potere americani, essi impongono la loro prassi ai negoziati bilaterali, alla legislazione commerciale degli Stati uniti e alle iniziative multilaterali. Bisognerà però attendere gli sconvolgimenti mondiali della fine degli anni '80 e del decennio successivo - con il crollo del socialismo sovietico e la conversione della Cina al capitalismo - perché il capitalismo transnazionale in rete si sviluppi su scala realmente planetaria. A quel punto si assiste ad un'impressionante esplosione di fusioni e acquisizioni transfrontaliere. L'ammontare di queste operazioni passa da meno di 100 miliardi di dollari nel 1987 a 11.400 miliardi di dollari (in dollari costanti) nel 2000 (9). La ristrutturazione della proprietà del capitale trasforma i mercati e i sistemi di produzione, fino ad allora integrati su scala nazionale, in un «mercato globale di beni e servizi (...) e in un sistema di produzione globalizzato in cui le imprese dispongono di un mercato ormai planetario (10)». La transnazionalizzazione si appoggia alle reti e contemporaneamente, per svilupparle, induce nelle imprese una nuova ondata di innovazioni tecnologiche. Non si conosce alcun precedente storico agli sconvolgimenti che da allora hanno trasformato il mondo delle telecomunicazioni. Tra il 1984 e il 1999, in un contesto generale di vendite massicce di aziende pubbliche, l'ammontare delle privatizzazioni nel settore delle telecomunicazioni raggiunge i 224 miliardi di dollari. Nel 1999, 90 dei 189 membri dell'Unione internazionale delle telecomunicazioni (quasi la metà) aveva totalmente o parzialmente privatizzato i propri operatori, 18 li avevano completamente privatizzati e 30 prevedevano di farlo. È chiaro che il processo è stato strutturato in modo da facilitare l'accesso degli operatori transnazionali ai mercati locali. Le reti integrate gestite dai «campioni nazionali» cominciano allora ad essere superate dagli operatori transnazionali, sia in termini di dimensioni che di estensione dei servizi proposti. Di conseguenza, operatori e imprese decidono di inserire in rete un ventaglio sempre più ampio di funzioni, anche le più banali: contabilità, gestione del personale, inventario, vendita, marketing, ricerca e sviluppo, ecc. Rivoluzionando sistemi e servizi in rete, le grandi imprese spaziano in un mercato a scala sovranazionale e lo sviluppano trasformando l'informazione in merce. Imponenti investimenti permettono di fornire al capitalismo digitale sia una base di produzione che una struttura di controllo: reti organizzate su scala transnazionale e capaci di utilizzare un numero sempre più ampio di vettori. Nel corso degli anni '90, i mercati finanziari rispondono positivamente a tutte le richieste di capitale avanzate da operatori o candidati operatori. Battaglioni di nuovi arrivati si indebitano a buon mercato per costruire vaste reti che utilizzano tecnologie estremamente diverse e anche i grandi del settore, come At&t, WorldCom o Sprint li seguono in questa fuga in avanti. Miliardi di dollari vengono spesi ogni anno per costruire reti concorrenti che collegano i quartieri commerciali delle grandi città. In tutti i settori economici, le imprese investono ancora altri miliardi di dollari in materiali e software che servono a ingrandire e modernizzare i loro assetti proprietari. È stato ormai assodato che sono stati gli investimenti nelle reti a costituire il supporto alla crescita nella seconda metà degli anni '90, iniziata negli Stati uniti per poi ramificarsi nel resto del mondo. Ne è derivato un formidabile aumento delle capacità di trasporto dell'informazione, soprattutto sugli assi a forte densità in cui lo sfruttamento dà ottimi rendimenti economici, ma anche, e in modo repentino, su Internet. Tra le grandi metropoli e al loro interno, così come sui grandi assi transoceanici, i nuovi sistemi aumentano in modo spettacolare la capacità delle reti esistenti. La corsa di Internet verso il disastro Nonostante il fascino che hanno esercitato per alcuni anni sulla stampa economica e finanziaria, si tratta però di iniziative che non devono essere idealizzate. I veri effetti della messa in rete del sistema di mercato si rivelano contraddittori proprio come lo è l'economia reale cui il mercato fa riferimento. Una miriade di gadget elettronici, e soprattutto gli enormi guadagni realizzati in borsa dagli investitori della classe media superiore, fanno tacere ogni opposizione politica seria. Tuttavia, le fragilità del sistema cominciano ad apparire già alla fine degli anni '90. In un rapporto del 1998 destinato all'Economic Policy Institute in relazione alla proposta di offerta pubblica di acquisto della Mci da parte della WorldCom, l'autore di questo articolo sosteneva che, in particolare dal punto di vista finanziario, «Mci-WorldCom è un errore da non commettere (11)». Gli avvenimenti hanno dimostrato che l'errore si è trasformato in tracollo, e non solo per le due società in questione. Quattro avvenimenti, tutti concentrati a metà degli anni '90, preparano la catastrofe: la legge sulle telecomunicazioni varata negli Stati uniti del 1996; l'accordo multilaterale sulle telecomunicazioni dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) del 1997; la rapida espansione di Internet; la reazione americana alla crisi finanziaria asiatica del 1997-98. La legge sulle telecomunicazioni, che fissa le regole della concorrenza tra operatori locali e nazionali sugli stessi mercati, rafforza la liberalizzazione. Provoca un'ondata impressionante di fusioni e acquisizioni in tutto il settore della comunicazione, con le imprese che, non contente di guadagnare terreno sui mercati correlati, cercano freneticamente di tagliare l'erba sotto i piedi delle rivali. L'accordo plurilaterale sulle telecomunicazioni del Wto ha lo scopo di armonizzare i quadri operativi nazionali del settore, impone quindi ai suoi 69 firmatari il rispetto di una serie di impegni sanciti da un sistema multilaterale di regolamentazione dei conflitti. L'accordo consente di uniformare a livello mondiale l'accesso al mercato delle attrezzature e dei servizi in rete. Fin dall'inizio del 2000, 25 paesi si impegnano a consentire che operatori con capitale in maggioranza straniero forniscano servizi vocali internazionali, utilizzando reti da loro possedute e controllate. Si evidenziano così nuove possibilità d'investimento: acquisto di azioni di operatori recentemente privatizzati, progetti di creazione di reti nazionali o internazionali in proprietà al 100% o in società miste (joint ventures). In tutto il mondo, dopo decenni di sviluppo al rallentatore, reti e filiere vengono rapidamente modernizzate e allargate, e il numero di telefoni esplode. In dieci anni esatti, i telefonini passano da poche decine di milioni a un miliardo. La concorrenza aumenta. I fornitori di telefonia mobile, gli operatori a vocazione locale o internazionale, i fornitori di servizi telefonici legati a Internet, tutti cercano di ritagliarsi una fetta più grande di mercato investendo in nuove reti e mercati esteri. Vodafone, il gigante britannico della telefonia mobile, sfrutta l'alto corso delle sue azioni per realizzare 300 miliardi di dollari di acquisti, che gli permettono di vantare milioni di clienti in 29 paesi. In tutta Europa, gli operatori storici recentemente privatizzati, come France Télécom o Deutsche Telekom, chiedono prestiti, ipotecano il futuro per comprare licenze di telefonia mobile sul proprio mercato nazionale e per investire sui mercati esteri. Tra il 1999 e il 2000, France Télécom fa acquisti per 88 miliardi di euro. In confronto, i 15 miliardi di dollari investiti dal giapponese Ntt DoCoMo sui mercati esteri di telefonia mobile fanno una magra figura. Lo straordinario sviluppo di Internet non fa che intensificare la follia generale degli operatori. Avere una «strategia Internet» diventa lo slogan di moda nei consigli di amministrazione. Non solo da parte degli operatori, ma praticamente in tutti i settori di attività, investire in Internet, non importa a quale prezzo e per quale motivo, dà comunque l'impressione di una visione strategica E sviluppare infrastrutture di telecomunicazione capaci di sopportare torrenti di traffico Internet giustifica nuovi faraonici investimenti. Negli Stati uniti, le spese per le attrezzature degli operatori locali raddoppiano, fino a toccare i 100 miliardi di dollari l'anno tra il 1996 e il 2000. I progressi tecnologici ravvivano l'incendio, moltiplicando per cento la portata delle reti. Il numero degli operatori in eccesso cresce costantemente, ma essi continuano a giustificare la propria esistenza - e a chiedere ulteriori investimenti - con l'intento di rafforzarsi strategicamente in un contesto sempre più concorrenziale. Alla fine, è un movimento macroeconomico apparentemente senza rapporto con questo settore che affretterà la catastrofe. In risposta alla crisi finanziaria che colpisce l'Asia negli anni 1997-98, gli Stati uniti inaugurano una politica di denaro facile. Liberano così gli «istinti selvaggi» di un capitalismo finanziarizzato, che renderà incandescente il mercato già surriscaldato delle borse, e in particolare il settore delle reti, suo figlio prediletto. Da anni gli investitori conoscono lo sviluppo del settore e quindi vi riversano dollari, yen, marchi, sterline, franchi e altre monete. Si prepara un maremoto speculativo, che si concluderà con il crollo dei valori delle nuove tecnologie. Si comincia allora a far passare per sagacia le esagerazioni più sfrontate. L'annuncio di un aumento esponenziale della domanda per il potenziamento delle telecomunicazioni diventa rituale. In realtà i progressi tecnologici e gli investimenti speculativi avevano moltiplicato per 500 la capacità delle reti internazionali in cinque anni. Come era prevedibile, la domanda non poteva seguire. È a partire da questo momento che i responsabili finanziari di molte imprese americane cominciano a truccare i loro conti per rassicurare gli investitori e gli azionisti. WorldCom, per rifarsi al caso più conosciuto, sembra aver inventato così oltre 9 miliardi di dollari di falsi profitti. Ma questa fragilità finanziaria finisce col contaminare tutto il settore delle telecomunicazioni, in primo luogo in quel bastione del neoliberalismo che sono gli Stati uniti. Gli imbrogli degli iniziati, le frodi contabili, i collegamenti tra servizi bancari incaricati della gestione dei conti delle imprese e quelli incaricati degli investimenti nelle medesime imprese, così come altre forme di malversazione e di corruzione dei dirigenti coinvolgono profondamente tanto Stati uniti che Giappone, paesi che le autorità americane non avevano cessato di criticare a tal proposito per un decennio. Nessun settore delle telecomunicazioni nel senso più ampio ne uscirà indenne e la concorrenza degenererà in cannibalismo. Giganteschi produttori di componenti, quali Lucent, Nortel o Alcatel, alcuni dei quali avevano gonfiato le vendite investendo nella creazione di nuovi operatori, vedono le entrate precipitare in modo catastrofico. Anche Cisco, il produttore di «tubazioni» Internet e che pure resta in attivo, non può impedire un crollo del volume d'affari e del corso delle azioni. Decine di operatori dell'indotto falliscono. Negli Stati uniti, il numero di linee telefoniche gestite da operatori locali diminuisce per la prima volta dopo la Depressione del 1929-1933. Di fatto, questi operatori stavano divorando se stessi, sia perché gli abbonati alle filiali di telefonia mobile abbandonavano i telefoni fissi per i telefonini, sia perché promuovevano l'Adsl, che permette di utilizzare la banda larga, senza circuiti dedicati per una seconda linea. Gli operatori e i costruttori di materiali di telefonia senza filo affermano di aver perso il 65% della loro capitalizzazione in borsa (cioè 850 miliardi di dollari) dal gennaio 2001. Si comincia oggi a temere che anche la Cina, che negli anni '90 aveva conosciuto uno sviluppo senza precedenti delle sue infrastrutture fino a diventare la più grande rete nazionale del mondo, sia ormai un mercato saturo. Inondato di liquidità per dieci anni, il settore delle telecomunicazioni si è trovato improvvisamente privo di ogni fonte di finanziamento. Gli investitori privati sono diventi tanto diffidenti quanto erano stati temerari nel passato. Il livello d'incertezza - a dire il vero, di volatilità - era diventato troppo alto. E, nonostante una domanda stabile - i privati e le imprese hanno sempre bisogno di comunicare, tracollo o non tracollo - la combinazione tra sovrapproduzione cronica e concorrenza sfrenata resta deleteria. Si vede profilarsi una ristrutturazione del settore delle telecomunicazioni di un'ampiezza planetaria., Global Crossing, oggi in fallimento, ha accettato di essere ricomprata da Hutchison Whampoa (con sede a Hongkong) e Singapore Technologies Telemedia, anche se le autorità di controllo non hanno ancora dato il loro assenso. Con un importo di 250 milioni di dollari, questa transazione valuta a un centesimo del suo valore la rete in fibra ottica che era costata 20 miliardi di dollari alla Global Crossing. In questo contesto di totale confusione, il discorso ufficiale sulla «concorrenza» non mostra segni di ravvedimento. E questo nonostante il fatto che, per gli utenti ordinari, la liberalizzazione si sia conclusa in modo fallimentare proprio in alcuni dei suoi aspetti chiave. In molti paesi, il costo dei servizi di telefonia è diventato più iniquo. La diminuzione delle tariffe sulla lunga distanza ha giovato alle imprese dai forti consumi e agli abbonati delle classi medie, mentre le tariffe locali restano sempre ugualmente alte. Nei paesi poveri, il notevole ampliamento dell'accesso alla rete degli anni '90 si è bruscamente interrotto e milioni di abbonamenti sono stati disdetti. I posti di lavoro creati dai nuovi operatori hanno sempre meno diritto alla protezione di convenzioni collettive, mentre milioni d'impiegati lavorano per salari risibili in call center diventati vere e proprie «galere» dell'alta tecnologia. La qualità dei servizi spesso è peggiorata. Tutto il settore è diventato sempre più dipendente dalla pubblicità, che occupava uno spazio molto ridotto prima della liberalizzazione. Inoltre, ogni impresa ha dovuto dotarsi dello stesso personale e delle stesse strutture dei suoi concorrenti. Importanti costi di gestione e di vendita, generalmente superflui, sono ricaduti sugli utenti e i contribuenti via via che la concorrenza si intensificava. E, naturalmente la concorrenza ha imposto enormi costi per i controlli, perché le autorità si sforzavano di individuare dei regolamenti che permettessero il funzionamento duraturo del sistema. Attualmente sono in corso profonde trasformazioni per aiutare il settore nelle sue difficoltà strutturali. All'ordine del giorno figurano: misure governative per accelerare lo sviluppo di Internet su banda larga; il sostegno pubblico agli operatori in difficoltà, il che comporterà certamente il via libera alle fusioni; e, soprattutto, in nome della «lotta contro il terrorismo» e della «sicurezza», un controllo amministrativo più stringente su questo settore sinistrato. Gli strateghi scommettono che questa combinazione di misure ridurrà la capacità in eccesso delle reti, aumenterà il prezzo dei servizi all'utente e farà ritornare gli investitori. E così utenti, contribuenti e salariati saranno chiamati a fare la loro parte per trarre d'impaccio questo settore di attività. Funzionerà? Quanto durerà ancora il degrado del servizio, l'aumento delle tariffe per gli utenti, la precarietà e i licenziamenti per i dipendenti, lo sviluppo delle reti a beneficio delle transnazionali e dei militari? Solo un'opinione pubblica organizzata potrebbe invertire l'attuale tendenza. Nel presente contesto di avventure guerriere imposte dall'alto, una tale prospettiva sembra ancora lontana. note: * Professore all'università dell'Illinois (Urbana-Champaign). (1) Financial Times, 26 novembre 2002. (2) Henk Brands e Evan T. Leo, The Law and Regulation of Telecommunications Carriers, Artech House, Boston, 1999. (3) Rapporto finale della Task Force on Communications Policy, Washington, 1968. (4) Si legga Dan Schiller, «I parassiti della vita quotidiana» e Marc Laimé e Philippe Rivière «Tutti in vendita su Internet», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2001. (5) US Congress, Office of Technological Assessment, Critical Connections: Communications for the Future, Washington, Gennaio 1990. (6) Ibid. (7) Calcolo effettuato sui dati del dipartimento per il commercio a Washington. (8) Dan Schiller, Telematics and Government, Ablex, Nordwood, 1982. (9) Unctad, World Investment Report 2000. Cross-border Mergers and Acquisitions and Development, Onu, New York, 2000. (10) Ibid. (11) Dan Schiller, Bad Deal of the Century, Economic Policy Institute, Washington, 1998.
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