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crisi e ambiguità delle ong
- Subject: crisi e ambiguità delle ong
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 7 Jul 2003 06:56:49 +0200
il manifesto - 01 Luglio 2003 Mercato della sfiga e santi laici Dove sono finite le mitiche Organizzazioni non governative? Perché sono assenti in Iraq? Due libri percorrono ascesa, crisi e ambiguità del progetto umanitario. Prodotto mediatico, perfetto strumento neocoloniale, interfaccia indispensabile del reaganismo, le Ong hanno finito per farsi arruolare dai governi MARCO D'ERAMO La scena del dopoguerra iracheno è segnata da un'assenza, quella delle Organizzazioni non governative (Ong). Non che siano proprio inattive, ma certo non ricevono le luci della ribalta come invece in Kosovo o in Afghanistan, per citare le due crisi più recenti. A Baghdad sembra si avveri la profezia formulata da John Fawcett, che diresse i programmi dell'International Rescue Comettee (Irc) a Sarajevo durante l'assedio (1992-95): «Nelle crisi a venire i governi finanziatori assolderanno società private perché facciano ciò che adesso fanno le Ong. Forse saranno più efficienti, ma sarà comunque un guaio perché società come la Bechtel o la Siemens non possono gestire il problema dei diritti umani. Possono solo fornire servizi». E i primi dollari stanziati dal governo Usa per l'Iraq sono andati infatti non a Ong ma a Kellogg Brown & Root, filiale di Halliburton (di cui il vicepresidente Usa Dick Cheney è stato amministratore delegato fino alla vigilia della sua candidatura). Certo, poiché l'Onu e l'Unione europea non hanno partecipato alla guerra, e poiché l'Onu e l'Ue sono i maggiori finanziatori di Ong, l'assenza delle organizzazioni umanitarie era quasi scontata. Ma fino a oggi il governo americano aveva sempre sbandierato scopi umanitari per le sue guerre, tanto che per il Kosovo si era coniato un termine degno della «neolingua» di Orwell: «guerra umanitaria». Negli anni `90 le accademie militari Usa avevano prodotto tesi quali Le relazioni tra esercito degli Stati uniti e Ong negli interventi umanitari (1996) e L'interazione tra esercito degli Stati uniti e organizzazioni di soccorso umanitario nell'ambito di episodi di portata limitata (1998). Il segretario di stato Usa Colin Powell aveva detto il 26 ottobre 2001: «Le Ong sono per noi un enorme moltiplicatore di forza, una parte importantissima della nostra squadra di combattimento». Nello stesso periodo la sottosegretaria di stato agli affari globali, Paola Dobriansky, aveva tenuto in Kazakistan un discorso intitolato Assistenza umanitaria e battaglia contro il terrorismo vanno di pari passo, in cui sosteneva che «la compassione è una componente essenziale della politica estera del presidente Bush». Dobriansky aveva ragione: nel 2000 lo slogan del candidato Bush era stato il «conservatorismo compassionevole». E da quando è alla Casa Bianca, cerca di devolvere a charities, a enti privati di beneficenza tutti i compiti di assistenza sociale. Affidarsi all'estero all'azione delle Ong sembrava la naturale estrapolazione a livello planetario del modello sociale propugnato negli Usa. L'assenza delle Ong dall'Iraq è dovuta quindi a ragioni più profonde, rintracciabili in due libri, usciti nell'ultimo anno, che discutono genesi, ideologia e crisi del movimento umanitario: Un giaciglio per la notte: il paradosso umanitario di David Rieff (Carocci, 2003), da cui sono tratte tutte le citazioni riportate fin qui, e L'altruista egoista. Analisi critica degli interventi umanitari in situazioni di guerra e carestia di Tony Vaux (Edizioni Gruppo Abele, 2002) . Sono due libri complementari, perché gettano uno sguardo critico sul mondo delle Ong l'uno dall'esterno (David Rieff è un inviato speciale), e uno dall'interno (Tony Vaux è stato per anni un dirigente di Oxfam, una delle più grandi Ong internazionali). Contrariamente a quel che si può pensare, «la giustificazione a intervenire militarmente in alcuni paesi stranieri perché vi si trovano innocenti che soffrono, non è cominciata in Somalia (1992), ma nella guerra d'indipendenza greca contro i turchi (1821-1830), la causa per la quale morì Lord Byron. In breve, già all'inizio dell'Ottocento, la favola edificante dell'intervento umanitario, in cui una popolazione di vittime deve essere salvata dai saccheggi dei signori della guerra e dai tiranni di turno, era stata compiutamente elaborata» (Rieff). Tutte le annessioni coloniali furono invocate per ragioni umanitarie. Nell'800 sorsero i primi enti umanitari (la Croce rossa internazionale, Cri, fu fondata nel 1863) che si moltiplicarono nel `900: Save the Children vide la luce nel 1919, Oxfam (Oxford Committee for Famine Relief) fu fondata nel 1942 alleggerire il blocco navale inglese che fece morire di fame 250.000 civili greci. Ma il vero boom umanitario risale alla crisi del Biafra (1967): fu in base ai dissidi sul comportamento tenuto dalla Croce rossa in quella circostanza che nel 1971 un gruppo di dottori francesi si scisse dalla Cri e fondò Médecins sans frontières (Msf). E l'età d'oro dell'aiuto umanitario risplendette negli anni `80: nel 1984 Bob Geldof lanciò le collette di Band Aid e Live Aid e la beneficenza fu illuminata dai riflettori delle bande rock. Perfino il vocabolario ne è stravolto, tanto che oggi si usa l'espressione «disastro umanitario» che è un non senso: può una catastrofe essere filantropica, una crisi benefattrice, un'epidemia caritatevole, una strage benevola? C'è un mistero nel consenso e l'adulazione che da allora circondano l'ideale umanitario, per cui i suoi attivisti vengono considerati santi laici: e, come i divi promuovono l'umanitarismo, così per ottenere fondi le organizzazioni umanitarie hanno bisogno che i loro dirigenti siano un po' divi (vedi Gino Strada o il suo equivalente sacerdotale Alex Zanotelli). Infatti il progetto umanitario si autodefinisce in termini negativi. Alla domanda «cosa è un essere umano», l'umanitarismo risponde «qualcuno che non è fatto per soffrire» (così dice un dei fondatori di Msf). E Rieff osserva: «Che una speranza tanto cauta abbia potuto avvincere l'immaginario degli europei e degli americani più eticamente avvertiti è un fatto senza precedenti». Questo «ridimensionamento etico» è dovuto in parte al crollo dell'Urss: dopo che gli occidentali «avevano compreso che il comunismo era stato effettivamente così orribile quanto avevano sostenuto gli anticomunisti, la versione umanitaria dell'utopia era la sola impresa in cui un pubblico disilluso fosse disposto a farsi trascinare». Quindi il rifugio nell'umanitarismo è dovuto in primo luogo al disintegrarsi dell'ideale socialista. L'azione umanitaria è stata avvalorata anche dal discredito in cui è caduto il terzomondismo e lo «sviluppismo» («a un affamato non bisogna offrire un pesce, ma insegnargli come pescarlo», è l'esempio che fa Tony Vaux). Ma non è casuale che il boom umanitario sia coinciso con thatcherismo e reaganismo: negli anni `80 Reagan perseguì una politica spietata contro i poveri, ma pose nello stesso tempo gli homeless al centro dell'attenzione pubblica. Impersonata nella fatalità disperata di un senzatetto assiderato su un marciapiede, la povertà non era più un problema strutturale e quotidiano della società americana (come quello delle decine di milioni di working poors), ma diveniva un'emergenza melodrammatica, operistica. Nello stesso modo, l'ideale umanitario estendeva alle relazioni nord-sud la cultura dell'emergency; e il problema del sottosviluppo si traduceva nella foto ad effetto del bimbo africano denutrito. Ma le Ong corrispondevano innanzitutto all'ideologia privatistica e antistatalista, per cui la cooperazione statale era considerata inefficiente, burocratica, scialacquatoria. Nel tradurre in italiano (o in francese) l'espressione inglese «government» si genera un equivoco di fondo che continua a pesare. In italiano, «non governativo» è ammantato del credito di chi dice «non partigiano, non fazioso, non asservito al partito al governo». In americano invece, poiché la parola state indica ognuna delle cinquanta entità intermedie che costituiscono gli Usa, il termine government vuol dire «stato» nel senso in cui lo usiamo noi. Quindi una Ong è semplicemente qualcosa di «non statale», non di «non governativo». La Ong è il naturale recipiente e subappaltatore dell'assistenza sociale privatizzata. Per Tony Vaux «le agenzie di aiuti oggi stanno diventando appaltatori degli stati», ma è già da molto che questo succede e si può dire che senza il subappalto da parte degli stati le Ong scomparirebbero. Nel caso del Terzo mondo, la Ong s'integra perfettamente al regime neocoloniale in cui il vecchio potere coloniale si è «ritirato» ed è formalmente assente. Come ha detto un funzionario dell'Onu, «l'assistenza umanitaria è diventata il paradigma delle relazioni Nord-Sud dopo la guerra fredda». In Africa, scrive Rieff, «al pari dei missionari di cui avevano largamente soppiantato le funzioni di dispensatori di carità, gli operatori umanitari sembravano rappresentare il lato conciliante del potere occidentale. Che gli operatori umanitari avessero in genere una concezione totalmente differente di quello che facevano non cambiava di molto la situazione». Ecco, la parola è stata detta: missionari. Come molti missionari, gli operatori umanitari si sacrificano, conducono una vita difficile, fanno sforzi eroici: nell'immaginario collettivo, un Albert Schweitzer non è molto diverso da una Teresa di Calcutta. Ed è questa una delle ragioni per cui è difficile criticare le Ong, visto che raccolgono la parte migliore e più generosa della nostra gioventù (è stato detto che Msf ha mobilitato molte delle energie della militanza smobilitata del dopo `68). Ma, come i missionari, molto spesso la presenza di un operatore umanitario sta a indicare che di lì è passato o sta per passare un esercito occidentale. I missionari erano al seguito degli eserciti coloniali per imporre l'ideologia coloniale. Le Ong difendono «i diritti umani» e diffondono la «democrazia». Ma, come mostrano Rieff e Vaux, proprio nell'epoca del loro massimo splendore, in tre crisi cruciali, le Ong si sono trovate confrontate a tre ambiguità, a tre aporie del loro progetto umanitario. In Kosovo, l'umanitarismo è stato arruolato dalla Nato, sic e simpliciter. Che senso ha un'azione umanitaria che si limita solo a uno dei contendenti (qui i kosovari) e non all'altro (i serbi)? Questo fa sì che i governi considerino «l'azione umanitaria alla stregua di uno dei tanti elementi a loro disposizione» per reagire alle crisi, e che vi sia un «procedimento di assorbimento dell'ideale umanitario da parte dell'umanitarismo di stato». Così in Kosovo le Ong «tendevano a seguire lo stesso impianto ideologico dei propri governi nazionali: le Ong americane o britanniche per lo più a favore della guerra, quelle francesi su posizioni ambigue, e qualche gruppo, specie le sezioni greche di Msf e Mdm (Médecins du monde), ferocemente filoserbo» (Rieff). In Congo si è disvelato quanto sia astratta l'ideologia della «sofferenza decontestualizzata», cioè dell'aiutare chi soffre perché soffre. L'idea che chi soffre è sempre una vittima e una vittima è sempre innocente. Per questo c'è un'infantilizzazione della sofferenza nel terzo mondo. «L'unica cosa che vende bene è la compassione»: dittatori e operatori umanitari hanno questo in comune, che gli piace farsi fotografare con un bambino in braccio. Ma in realtà spesso le vittime non sono innocenti, e anche i colpevoli soffrono. In Rwanda soffrivano e morivano profughi in fuga dopo aver praticato stermini di massa e perpetrato orrori inenarrabili. Non è vero che la sofferenza è neutra, la sofferenza è sempre tinta di storia e di politica. Infine l'Afghanistan ha mostrato quanto sia illusorio sperare di far coincidere l'ideale dei diritti umani con quello umanitario. Già in Kosovo si era visto che l'intervento per difendere i diritti umani dei kosovari aveva provocato una catastrofe umanitaria. In Afghanistan alleviare le emergenze alimentari e idriche, significava perpetuare la schiavitù delle donne; boicottare il regime talebano significava rendersi responsabili di migliaia di morti. Lottare per i diritti umani può aggravare la situazione umanitaria e viceversa. È probabile perciò che l'assenza delle Ong da Baghdad sia dovuta non solo a una svolta della politica americana (la rinuncia a presentare l'invasione dell'Iraq come una «guerra umanitaria», anche se si è voluto presentarla come una guerra «per i diritti umani» e per la «democrazia»), ma anche a una crisi d'identità delle Ong, al loro non voler ricadere nella trappola del Kosovo. Non solo giornalisti embedded, ma anche «umanitari arruolati». Resta l'insoddisfazione di fondo di fronte a quella che è diventata «l'industria delle catastrofi» in cui ogni Ong si batte per avere un'esposizione mediatica superiore (le emergenze e le carestie si vendono meglio delle crisi strutturali), per conquistarsi una fetta del mercato della sfiga, con una dipendenza crescente dall'apparato mediatico. Sembra davvero appropriata la poesia di Bertold Brecht sugli homeless americani apposta a intestazione del suo libro da David Rieff (che è figlio di Susan Sontag): «Ho sentito dire che a New York / all'angolo della 26-esima strada e di Broadway / nei mesi invernali ogni sera c'è un uomo / e ai senzatetto che si radunano / pregando i passanti procura un giaciglio per la notte. (...) A qualcuno non manca un giaciglio per la notte, / il vento viene tenuto lontano da loro per una notte, la neve destinata a loro cade sulla strada. / Ma con questo il mondo non cambia, / le relazioni fra gli uomini per questo non migliorano, / l'epoca dello sfruttamento non è per questo più vicina alla fine».
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