i conti economici dell'intifada



da il sole24ore





Giovedì 05 Giugno 2003

L'Intifada ha strangolato l'economia

  GERUSALEMME - Le ragioni economiche della pace in Medio Oriente sono
brutali e sanguinose quasi quanto quelle politiche e territoriali. Anzi sono
strettamente connesse. Lo stesso primo ministro israeliano Ariel Sharon ha
definito la road map un «male necessario» per il legame tra il problema
della sicurezza e la grave recessione economica in atto nello Stato ebraico.
Sull'altro fronte è stato il disastro economico nei Territori a convincere
Arafat che in questo momento era necessario fare un passo indietro lasciando
via libera al premier Abu Mazen. Iniziata nel settembre del 2000, la seconda
Intifada è costata all'economia palestinese, secondo una ricerca
commissionata dal Governo ebraico, 10 miliardi di dollari, il 40% di
disoccupati tra la popolazione attiva e il 60% degli arabi costretti a
vivere degli aiuti internazionali, con meno di due dollari al giorno a
testa. La lunga chiusura a intermittenza delle frontiere ai lavoratori
palestinesi ha in pratica strangolato l'economia palestinese, oggi, e anche
nel futuro immediato, ultra-dipendente da quella israeliana. Prima che
divampasse la rivolta palestinese la principale fonte di finanziamento del
l'Autorità nazionale palestinese era l'Unione europea: 180 milioni di
dollari l'anno a cui si sono aggiunti crediti per 215 milioni di dollari
erogati dalla Bei, la Banca europea d'investimento, negli anni tra il '94 e
il 98. Con la seconda Intifada nelle casse di Yasser Arafat sono arrivati
nuovi consistenti fondi provenienti dai Paesi arabi. Questi soldi però non
bastano a far marciare un embrione di Stato disintegrato dalle offensive
militari israeliane e dalla corruzione interna. E questo nonostante che
oltre ai normali finanziamenti la Ue abbia versato 10 milioni di euro al
mese per pagare gli stipendi dell'amministrazione, denaro proveniente da un
fondo istituito per rispondere alle necessità palestinesi nel caso Israele
fosse venuto meno ai suoi doveri: Israele, secondo gli accordi del '94
raccoglie le tasse tra la popolazione dei Territori occupati ma per un lungo
periodo ha bloccato la restituzione di questi fondi ai palestinesi, circa
mezzo miliardo di dollari l'anno. L'ex generale Sharon in quarant'anni di
politica in prima linea non aveva mai riservato molta attenzione
all'economia ma oggi è obbligato a farlo: Israele è da due anni in crisi
economica con una crescita prevista nel 2003 inferiore all'1% (ma nel primo
trimestre il Pil ha fatto +2,5%), mentre gli israeliani, che pure hanno un
reddito medio pro capite di 16mila dollari l'anno contro i 1000-1500 dei
palestinesi, vedono evaporare il loro elevato standard di vita. Il piano di
austerità del ministro delle Finanze Benjamin Netanyahu, arcirivale di
Sharon, il 27 maggio ha spinto in piazza migliaia di persone infuriate
contro i tagli agli stipendi nella pubblica amministrazione e alle pensioni,
una novità dolorosa e inaspettata per il solitamente generoso welfare state
ebraico. L'Intifada ha colpito duro anche l'economia israeliana (perdite per
3 miliardi di dollari nel 2002) che pure vanta oltre un centinaio di società
quotate a Wall Street e un settore hi-tech di primissimo livello. Si è
sempre detto che i palestinesi senza i posti di lavoro in Israele non
possono sopravvivere: ma è anche vero che industrie israeliane di base, dal
cemento all'alimentare, hanno un mercato di esportazione diretto nei
Territori. Una dopo l'altra centinaia di imprese hanno dovuto chiudere e la
disoccupazione israeliana sfiora ormai l'11 per cento. Ma per Israele la
ferita più sanguinosa sul piano economico è stato il crollo degli
investimenti stranieri, passati da 11,5 miliardi di dollari nel 2000 a 3,8
l'anno scorso. Più aumenta l'insicurezza e più gli investitori stanno alla
larga dallo Stato ebraico che pure conta su due sponde importanti: l'Europa,
dove esporta il 30% delle merci, e la diaspora americana, cinque milioni di
ebrei che ogni anno inviano circa 2 miliardi di dollari da aggiungere ai 3
miliardi di aiuti ufficiali erogati da Washington. Quali sono i vantaggi
economici della pace per l'Europa che è stata per tanti anni anche il suo
maggiore finanziatore? Troppe volte evocati, descritti e rimasti nel libro
dei sogni di un Nuovo Medio Oriente per non sembrare, oggi, quasi ovvi. Ma
due aspetti sono interessanti da sottolineare. Il primo riguarda i grandi
progetti nel campo energetico e delle infrastrutture: pipeline, autostrade,
canali di irrigazione, servizi pubblici, impianti industriali, quasi del
tutto inesistenti nel territorio palestinese. Il secondo è l'investimento
sul futuro: nel 2000 la popolazione totale in Israele-Palestina era di 9,3
milioni - 6,3 in Israele (un milione gli arabi) e 3 milioni in Cisgiordania
e Gaza - concentrati su un territorio poco più grande della Sicilia. Nel
2010 saranno circa 12 milioni e 23 milioni nel 2050 quando, con gli attuali
tassi di fecondità nei Territori, la popolazione araba pareggerà quella
ebraica. La demografia è l'arma più sottile e incontrollabile di questo
conflitto ma anche la risorsa più evidente del piano americano per avere due
Stati e un solo mercato. ALBERTO NEGRI