un software chiamato dna




il manifesto - 10 Maggio

Un software chiamato Dna

Dal «dogma centrale della biologia» al biotech, 50 anni a doppia elica
«Il Dna fa l'Rna, l'Rna fa le proteine e le proteine fanno noi»: Francis
Crick, 1957. Ma gli sviluppi della genomica hanno mostrato quanto sia più
intricato il vivente
Oltre il Dna, lo studio dell'interazione delle proteine e dell'ambiente sta
definendo che cosa «non è» Dna. Un organismo è molto più della somma dei
suoi geni
LUCA TANCREDI BARONE

La biologia molecolare, «soltanto ieri d'avanguardia», è oggi una scienza
«di routine», destinata al declino: ci sono «tutt'al più alcuni dettagli da
sistemare». Il giudizio, clamorosamente smentito dai fatti, appartiene al
biologo Gunther Stent. Lo aveva scritto nel 1968 su Science, in un articolo
intitolato «Questa era la biologia molecolare di una volta», solo quindici
anni dopo l'epocale pubblicazione della struttura del Dna di James Watson e
Francis Crick (che era valso loro il Nobel nel 1962) e quindici anni prima
che il bizzarro e geniale chimico (e Nobel nel 1993) Kary Mullis scoprisse
la reazione a catena della polimerasi (Pcr), la tecnica grazie alla quale è
possibile amplificare il Dna, moltiplicando in poche ore miliardi di volte
un singolo filamento di materiale genetico. In sostanza, il pilastro
fondamentale su cui poggiano tutti i successivi sviluppi della genomica di
fine secolo, dal sequenziamento del genoma di vari esseri viventi (umani
compresi), all'ingegneria genetica, fino alle applicazioni giuridiche (la
cosiddetta «prova del Dna») o mediche (i controversi test genetici).
All'entusiasmo iniziale dei biologi per la brillante intuizione di Watson e
Crick (con l'apporto fondamentale della genialità oscurata di Rosalind
Franklin), fece seguito un periodo di grande vivacità scientifica mentre i
biologi imparavano a conoscere sempre meglio la complicata macchina
biologica che governa le cellule viventi. Ma, come ammoniva già nel 1949 il
fisico convertito alla biologia Max Delbrück rivolto ai biologi, «ogni
cellula vivente porta in sé le esperienze di un miliardo di anni di
esperimenti compiuti dai suoi antenati. Non penserete certo di spiegare con
poche parole semplici una bestia così vecchia e saggia».

Oggi il Dna, molecola semplice ed elegante, è divenuta un simbolo, una icona
che racchiude tutte le speranze e tutti i timori che suscita la scienza
moderna. Un «mito» che, assieme all'intrinseca imperscrutabilità
caratteristica di tutti i miti, ha il difetto di raccontare nella vulgata
corrente una storia affascinante, ma forse troppo semplificata.

Molti degli stessi biologi, prima del progetto Genoma (proposto nel 1986 dal
Nobel Renato Dulbecco e realizzato a partire dal 1990), avevano una visione
più semplicistica del Dna. Speravano di poter spiegare il fenotipo, cioè le
caratteristiche degli individui, direttamente dal genotipo, ossia
dall'informazione genetica racchiusa nel Dna. Nel 1957 fu Crick a dare
concretezza all'ipotesi (che risaliva agli anni Quaranta) che avrebbe preso
il nome (sciagurato) di «dogma centrale della biologia»: un gene-un enzima.
In altre parole, ciascuna sequenza di tre basi sul Dna corrisponde a un
aminoacido, una catena dei quali va a costituire le proteine (cioè gli
enzimi). Per dirla con Crick: «il Dna fa l'Rna, l'Rna fa le proteine e le
proteine fanno noi».

Ma nella scienza e in particolare in biologia i dogmi hanno vita breve. Già
nel 1959 François Jacob e Jacques Monod introdussero la differenza fra «geni
strutturali» e «geni regolatori»: in sostanza, i geni non agiscono e basta,
ma devono essere anche attivati o disattivati. Un primo granello di sabbia
negli ingranaggi del dogma. Ma c'è di più: negli anni `70 Richard Roberts e
Philip Sharp scoprirono che i geni che codificano le proteine negli
organismi superiori sono spezzettati e composti di segmenti espressi di Dna
(esoni) inframmezzati a lunghissimi segmenti non codificanti (introni), il
cui ruolo non era stato compreso (tanto che fu definito junk, spazzatura), e
tutt'oggi non ancora del tutto chiarito. Per non parlare dello smacco alla
scoperta che i geni dell'uomo sono solo circa 35mila, più o meno quelli che
ha anche il pesce palla giapponese (Fugu rubripes) o il topolino domestico
(Mus musculus). Non basta: solo circa il 2% del Dna codifica per qualche
proteina, e il nostro sviluppo è controllato sostanzialmente dagli stessi
geni del lievito o del moscerino della frutta. «La semplice analisi del
numero di neuroni, dei tipi cellulari, dei geni o della dimensione del
genoma non può giustificare da sola le differenze nella complessità di
quello che osserviamo», scriveva nel 2001 su Science Craig Venter, lo
scienziato-imprenditore a capo della Celera Genomics presentando il genoma
umano. «È piuttosto l'interazione entro e fra tutti questi fattori che
permette una varietà così grande». Niente Cd-rom, dunque, con su scritta la
sequenza del nostro genoma da portare in tasca per dichiarare trionfanti
«questo sono io», come auspicava il Nobel per la medicina Walter Gilbert.
«La sequenza è solo il primo livello di comprensione del genoma», ammoniva
ancora Venter.

La visione, ben più intricata, di un meccanismo biologico in cui il Dna non
è semplicemente il «cervello della cellula», ma «un organo altamente
sensibile, che controlla le attività genomiche e corregge gli errori
frequenti, percepisce gli avvenimenti insoliti e inattesi e reagisce», per
dirla con le parole di Barbara McClintock, Nobel nel 1983, è descritto fra
gli altri nel bel libro Il secolo del gene» di Evelyn Fox Keller (Garzanti,
2001). In sostanza, la cellula funziona come una rete in cui «i geni sono
collegati ad altri da meccanismi regolatori complessi che, nelle loro
interazioni, determinano quando e dove un particolare gene sarà
espresso[...]. Un circuito regolatore non fisso: è dinamico, è una struttura
che cambia se stessa durante il ciclo dello sviluppo» in risposta agli
stimoli che gli arrivano dall'esterno.

«Il campo in cui cimentarci ora - spiega Giuseppe Novelli, genetista del
dipartimento di Biopatologia dell'università Tor Vergata - è quello della
proteomica (lo studio delle proteine, della loro interazione, della loro
funzione), della trascrittomica, la mappa dei trascritti (tutte le fasi
intermedie fra i il codice genetico e le proteine). Ma anche l'epigenomica,
lo studio del rapporto fra il Dna e l'ambiente in cui sta - la cellula, il
tessuto, in ultima analisi l'individuo. Si tratta di processi, in parte
casuali, mediati da alcune proteine, che modificano chimicamente il Dna in
maniera non trasmissibile ereditariamente. Processi fondamentali
nell'espressione dei vari geni. Capire questi meccanismi, il modo in cui è
organizzato e funziona il genoma è il futuro della ricerca genetica.» «Il
Dna è una quantità fissa - aggiunge il proteomista Ivano Eberini,
dell'Istituto di scienze farmacologiche di Milano - ma il numero delle
proteine cambia a seconda delle situazioni: dipende dal tessuto, dalle
condizioni ambientali, di salute e di sviluppo dell'organismo». La conferma
che il «programma» che governa la vita della cellula non è racchiuso
semplicemente nel Dna, ma è distribuito fra Dna, Rna, proteine, che
funzionano alternativamente da istruzioni e da dati.

E infatti, come ribadisce Marcello Buiatti, genetista dell'università di
Firenze, «il Dna possiede dei meccanismi che permettono di rispondere a
stimoli esterni, una versatilità fondamentale per la sopravvivenza. Nel
sistema immunitario l'organismo è in grado di rispondere a fattori esterni
molto diversificati, pur basandosi su un'informazione genetica unica.
D'altra parte, le neurezine, proteine importanti per il funzionamento dei
neuroni, sono più di 2200, anche se vengono codificate solo da tre geni! È
ora quindi che gli scienziati abbandonino l'utopia della predicibilità degli
esseri viventi, l'approccio riduzionista, che pure ci ha aiutato sinora a
capire certi meccanismi. Un organismo è molto più della somma dei suoi
geni».

Questa nuova concezione, questo nuovo «paradigma scientifico» direbbe Thomas
Kuhn, porta con sé implicazioni importanti anche dal punto di vista sociale.
Il Dna è uscito dai laboratori per entrare prepotentemente non solo
nell'immaginario collettivo, ma anche nei portafogli di molte aziende
investitrici, interessate a tutelare la commercializzazione di questo
sapere.

«Le conoscenze sulla genetica sono fondamentali per comprendere la vita,
quindi devono essere di proprietà dell'umanità», dice Buiatti. «Anzi, del
mondo vivente. Una applicazione pedissequa delle regole del Wto sarebbe
letale: questo è un sapere delicato. E le eventuali ricadute possono essere
positive solo se sono per tutti».

Mariachiara Tallacchini, bioeticista e giurista dell'università di Milano,
si occupa proprio dei brevetti in campo biotech. «Usare le semplificazioni»,
spiega, «è uno stratagemma per esonerarci dalle scelte: un uso improprio,
opaco, mistificatorio della conoscenza. Tutto il contrario della democrazia
partecipativa, quella in cui nessun discorso e nessun linguaggio può avere
mai la parola definitiva sull'agorà. E poi c'è sempre un gioco di equilibri
reciproci fra saperi e poteri. Il sospetto è che la forzatura delle metafore
meccanicistiche, inadeguate a descrivere la biologia di oggi, sia un alibi
per giustificare la privatizzazione delle risorse del vivente. I brevetti
sono strumenti che nascono in un altro ambito e con altri scopi: forse è ora
di inventarci strumenti giuridici nuovi».