se i geni sono merce........



il manifesto - 09 Aprile 2003

Se i geni sono ridotti a merce
MARCELLO CINI

INCONTRI
Le frontiere della ricerca
Se i geni sono ridotti a merce
Per gran parte dell'epoca moderna, la scienza si è limitata a manipolare,
controllare e forgiare oggetti di materia inerte. Ma se si compiono le
stesse operazioni su un organismo vivente, analizzarne la leicità comporta
non solo un giudizio sulla loro utilità, ma una valutazione etica. Questa
permeabilità della barriera tra fatti e valori è tanto più evidente nei casi
della brevettabilità del vivente e degli organismi geneticamente modificati.
Anticipiamo stralci della relazione che il fisico romano presenterà al
convegno «Scienza e etica» che si terrà oggi all'Università di Roma
MARCELLO CINI

La barriera tradizionale fra fatti e valori è diventata permeabile. E' ormai
esperienza comune che i dibattiti e le polemiche interne alla scienza
cominciano a entrare nelle arene del discorso e dell'azione non
scientifiche. Le scoperte scientifiche sono messe in discussione, criticate
o utilizzate insieme ad altre fonti di conoscenza disponibili, da parte di
un pubblico sempre più vasto. Una cosa è infatti manipolare, controllare,
forgiare un oggetto fatto di materia inerte e altra cosa è compiere le
stesse operazioni su un organismo vivente o addirittura sull'uomo. Nel primo
caso il lecito può coincidere con l'utile, nel secondo il lecito dovrebbe
almeno dipendere anche da una valutazione di natura etica. Nasce dunque il
problema del rapporto fra conoscenza e etica, cioè del nesso fra la ricerca
della «verità» e il perseguimento di «retti» comportamenti individuali e
collettivi. All'origine del problema c'è un motivo semplice: i «fatti» che
coinvolgono nel bene e nel male la vita delle persone - e sono sempre di più
i «fatti» di questa natura che la scienza produce direttamente - diventano
anche carichi di «valori». E' una novità sostanziale, anche rispetto
all'acquisizione tardonovecentesca da parte della filosofia della scienza
che i «fatti» della scienza sono comunque «carichi di teoria» (theory
laden). La penetrazione dell'etica nella sfera della conoscenza diventa
ancor più evidente quando i «fatti» condizionano in modo diverso la vita di
persone diverse. E' chiaro infatti che questo comporta l'introduzione di
criteri di equità e di giustizia nei giudizi di «verità».

Non basta. Le scelte di oggi avranno conseguenze rilevanti, non tutte
positive né facilmente prevedibili sulla vita degli uomini e delle donne di
domani. (....)

Dice a questo proposito il filosofo Hans Jonas: «Con quello che facciamo
qui, ora, e per lo più con lo sguardo rivolto a noi stessi, influenziamo in
modo massiccio la vita di milioni di uomini di altri luoghi e ancora a
venire, che nella questione non hanno avuto alcuna voce in capitolo... Il
punto saliente è costituito dal fatto che l'irrompere di dimensioni lontane,
future, globali nelle nostre decisioni quotidiane, pratico-terrene,
costituisce un novum etico, di cui la tecnica ci ha fatto carico; e la
categoria etica che viene chiamata principalmente in causa da questo nuovo
dato di fatto si chiama: responsabilità.»

La generalità di questa esortazione richiede tuttavia la formulazione di una
domanda: Chi sono i soggetti sociali chiamati in causa e quali sono i
compiti ad essi richiesti nel farsi carico della categoria etica
responsabilità?

Il primo soggetto chiamato in causa è la comunità degli scienziati che
svolgono attività di ricerca nei settori di punta dove la contaminazione fra
fatti e valori si manifesta. Vengono infatti rimesse in discussione le norme
della deontologia professionale che ne hanno regolato la prassi fino alla
fine del secolo appena terminato, e che tuttora continuano a essere
proclamate ferme e incrollabili da molti di loro. (....)

Come ricostruire dunque norme deontologiche valide, capaci di ridare
all'attività di ricerca strumenti validi per ottenere risultati affidabili e
offrire agli attori sociali (individui singoli, comunità, gruppi di
interessi, istituzioni pubbliche e private e quant'altri) gli elementi per
compiere scelte razionalmente giustificabili e moralmente soddisfacenti?

Una prima risposta a questa domanda ci viene dall'introduzione, ormai
accolta da una serie di documenti ufficiali e da norme dell'Unione Europea
(gli Stai Uniti si defferenziano anche su questa come su molte altre
questioni) del principio di precauzione.

La base fattuale del principio di precauzione è data dalla constatazione che
viviamo ormai nella «società del rischio» (un termine coniato da Ulrich Beck
in un testo ormai classico con questo titolo che risale alla metà degli anni
`80), definita come la nuova fase della società industriale, in cui «il
rapporto tra produzione di ricchezza e produzione di rischi si inverte dando
priorità alla seconda rispetto alla prima». Chiunque segua anche
superficialmente la sterminata letteratura sui temi della globalizzazione
dell'economia, dell'individualizzazione del lavoro, della crisi delle
tradizioni e della fine della natura come realtà esterna indipendente dalle
azioni umane (dallo stesso Beck a Giddens e a Bauman, da Wallerstein a
Reich, da Lash a Sennett) sa che stiamo vivendo una transizione epocale
della cultura della modernità.

Siamo passati, da una fase nella quale era diffusa l'aspettativa che la
crescita della conoscenza della realtà sociale e naturale avrebbe permesso
di intervenire su di essa sempre più efficacemente e razionalmente in modo
mirato e controllato, a una fase in cui la proliferazione di questi
interventi è a sua volta origine di imprevedibilità e di insicurezza. Un
aspetto centrale di questo passaggio è la diffusione a livello di massa
della coscienza che "il rischio prodotto è il risultato dell'intervento
umano nelle circostanze della vita sociale e nella natura."

Secondo la formulazione che ne danno danno i due autori (Kourilski &Viney)
che per primi hanno affrontato la questione, «il principio di precauzione
implica l'adozione di un insieme di regole finalizzate ad impedire un
possibile danno futuro, prendendo in considerazione rischi tuttora non del
tutto accertati». La precauzione occupa un ambito intermedio fra quello in
cui si applicano le procedure della prevenzione (cioè dell'attivazione di
misure volte a evitare o a limitare le conseguenze di un agente di rischio
accertato) e quello delle semplici congetture (che non giustificano la
sospensione di uno sviluppo tecnologico utile del quale i futuri possibili
effetti avversi, in assenza di evidenze anche parziali, possano soltanto
essere ipotizzati).

E' chiaro tuttavia che l'applicazione di questo principio lascia largi
margini di discrezionalità sia agli scienziati che si occupano della
valutazione del rischio sia ai decisori che si occupano della gestione del
rischio. Per quanto riguarda questi ultimi è evidente che essi sono
particolarmente sensibili agli umori dell'opinione pubblica e alla pressione
dei media. Spetta dunque alle associazioni che hanno per obbiettivo la
tutela della salute e la salvaguardia dell'ambiente allertare i cittadini,
senza catastrofismi ma con documentata attenzione, sui possibili rischi che
superino la soglia della congettura per entrare nel campo delle previsioni
fondate su evidenze significative.

Per quanto riguarda i ricercatori, invece, occorre per prima cosa
riconoscere la differenza profonda esistente fra ricerca privata e ricerca
pubblica e dunque fra i dipendenti (o i consulenti) di imprese private
legati al segreto industriale e gli operatori degli enti pubblici di ricerca
che dovrebbero rispondere dei loro programmi alla collettività che li
finanzia, o per lo meno concordare con i suoi rappresentanti le scale di
priorità da rispettare. I primi hanno come dovere contrattuale quello di
massimizzare i dividendi dei propri azionisti mentra i secondi, dovrebbero
in primo luogo esplorare a fondo le evidenze di rischio, non ancora divenute
certezze, ma già più solide delle congetture, che giustificgerebbero
l'adozione di una sospensione precauzionale dell'immissione sul mercato dei
prodotti che sono frutto delle ricerche dei primi.

Come si fa a metterli insieme, in una categoria ideale al disopra delle
parti come se fossimo tutti uguali ai fondatori della Royal Society? Come si
fa a non stupirsi nel constatare che la elementare norma di correttezza
civile, oltre che giuridica, secondo la quale controllori e controllati non
possono coincidere, non vige all'interno della scienza? Oggi molti
scienziati di grido sono al tempo stesso consulenti delle multinazionali o
addirittura azionisti delle industrie di punta e al tempo stesso membri
delle commissioni governative che dovrebbero certificarne i prodotti dal
punto di vista dell'efficacia e della sicurezza.

Un controllo efficace sarebbe dunque quello di istituire albi professionali
separati per chi partecipa allo sviluppo di innovazioni destinate ad essere
immesse sul mercato, e chi deve non solo identificare e valutarne gli
eventuali danni già prodotti o che potrebbero insorgere in futuro, ma anche
investigare e prefigurare i diversi scenari (valutandone i diversi gradi di
incertezza) che dalla loro diffusione potrebbero a breve, o a lungo termine
derivare. Ognuno è libero di stare da una parte o dall'altra, ma deve
dirlo.(....)

E' questo l'argomento affrontato da Jürgen Habermas in un libro, intitolato
Il futuro della natura umana (che ha per sottotitolo I rischi di una
genetica liberale) fortemente critico nei confronti dell'ottimismo ufficiale
dell'establishment scientifico e del potere economico. (...)

Lasciando da parte alcuni temi che pure coinvolgono il rapporto fra scienza
ed etica quali le nuove tecniche riproduttive, il trapianto di organi, la
morte assistita ecc. (che possono essere «tranquillamente affidate agli
esperti guidati dall'etica professionale»), Habermas si concentra sulle
«sfide veramente inedite costituite soprattutto dall'ingegneria genetica
mirante alla selezione e alla modificazione delle caratteristiche
ereditarie, nonché dalla relativa ricerca scientifica rivolta alle future
terapie in cui diventa impossibile distinguere tra ricerca di base e
applicazione medica». Queste sfide rimettono «alla nostra disponibilità
quella base fisica che noi siamo "per natura"». Ciò che per Kant era ancora
il «regno della necessità», diventato successivamente nella prospettiva
evolutiva il «regno della casualità», diventa il «regno della libertà».

Questo spostamento di confine, che a prima vista può essere visto come mezzo
per accrescere l'autonomia individuale, potrebbe tuttavia compromettere,
secondo Habermas, la possibilità di «considerarci autori responsabili della
nostra storia di vita e di rispettarci a vicenda come persone uguali per
nascita e valore», in quanto la manipolazione della struttura del genoma e
la speranza di certi scienziati di poter presto dirigere il processo
evolutivo, mettono in crisi la distinzione categoriale tra soggettivo e
oggettivo, naturale e artificiale. «Venire a sapere che il proprio genoma è
stato programmato potrebbe - secondo Habermas - non soltanto creare disturbo
al senso di naturalezza per cui esistiamo come corpo, ma anche far nascere
un modello inedito di relazione fra le persone caratterizzato da una
peculiare asimmetria». L'argomentazione di Habermas prosegue analizzando gli
effetti dell'indebolirsi della tradizionale distinzione fra ciò che è
spontaneamente «cresciuto» e ciò che è oggettivamente «prodotto». E'
essenziale a questo punto la distinzione tra interventi prenatali sul genoma
che abbiano come scopo la guarigione o la prevenzione di malattie
diagnosticabili nella fase del preimpianto (eugenetica negativa), da quegli
interventi sul genoma che lo manipolano nella prospettiva di un attore che
produce su un «oggetto» la situazione da lui desiderata a partire da
finalità proprie (eugenetica positiva).

Nel primo caso si può presumere che l'individuo adulto non metterà mai in
discussione l'intervento deciso quando era un embrione, ma nel secondo il
giovane che sia stato geneticamente manipolato scoprirà il proprio corpo
come qualcosa di tecnicamente prodotto. «Le intenzioni pianificatrici dei
genitori - spiega l'autore - hanno il peculiare statuto di un'aspettativa
unilaterale e incontestabile» il cui risultato non potrà mai essere rimesso
in discussione. Al programmato è infatti impedito pregiudizialmente di
scambiarsi di ruolo col suo programmatore. Cade quindi che è fondamentale
per una società democratica di individui autonomi e uguali. La
programmazione genetica consolida dunque una dipendenza tra persone le quali
sanno di non potersi, in linea di principio, scambiare le posizioni sociali.
Ma questo tipo di dipendenza irreversibile fa cadere una condizione
essenziale dell'agire comunicativo perché elimina i reciproci e simmetrici
rapporti di riconoscimento caratterizzanti una comunità morale e giuridica
di persone libere ed eguali.

Esiste dunque «il pericolo che - attraverso gli interventi genetici
migliorativi - intenzioni `estranee' e geneticamente fissate si
impadroniscano della storia di vita delle persone programmate. Perciò ci
chiediamo preoccupati se un siffatto atto reificante non modifichi il nostro
poter-essere-sé-stessi e il nostro rapporto con gli altri.» Saremo noi
ancora in grado di pensarci come persone che si concepiscono come gli autori
indivisi della loro vita e come persone eguali a tutte le altre per nascita
e valore?

Certo - conclude Habermas - queste preoccupazioni valgono «nella misura in
cui noi abbiamo ancora un interesse esistenziale a far parte di una comunità
morale. Non è affatto ovvio che sia per noi desiderabile assumere lo statuto
di appartenenti a una comunità che pretende uguale rispetto per chiunque e
solidale responsabilità con tutti.»

La sua convinzione, tuttavia - e siamo in molti a condividerla - è che
«senza l'emozione dei sentimenti morali di obbligazione e colpa, rimprovero
e perdono, senza la libertà del rispetto morale, senza la felicità
dell'aiuto solidale e lo sconforto del fallimento morale, senza la
`gentilezza' di un procedimento incivilito nel trattamento di conflitti e
contrasti, noi dovremmo sentire come insopportabile questo universo abitato
dagli uomini.»

Facciamo dunque attenzione a non imboccare, inconsapevolmente ma
irreversibilmente questa strada.