la politica monetaria europea regole e discrezionalita'



da fondazionedivittorio.it  aprile 2003

Jean-Paul Fitoussi*
(IEP e OFCE, Paris)
La politica monetaria europea fra regole e discrezionalità**

1. Il Patto di stabilità
Preoccupata dalle conseguenze di un allentamento del rigore da parte dei
governi, la Banca centrale europea (BCE) non sembra essere sempre
soddisfatta della lettura del Patto di stabilità adottata, soprattutto, dai
grandi paesi europei (Germania e Francia in testa). Nondimeno il Patto è
stato tagliato su misura della BCE e ha ufficializzato il dominio della
politica monetaria nel policy mix europeo. I vari difetti del Patto di
stabilità hanno a che vedere sia con le sue fondamenta teoriche, ispirate a
principi erronei, sia con la sua traduzione politica: le raccomandazioni e
gli avvertimenti, emanati dalla Commissione europea e ripresi dai media,
hanno un pessimo effetto sulla credibilità del meccanismo di controllo del
bilancio europeo.
Le regole di bilancio sono il complemento delle regole monetarie e, come a
queste ultime, anche alle prime sono attribuite numerose virtù: si suppone
che stiano alla base della credibilità della politica di bilancio, possano
evitare il sospetto di atteggiamenti accomodanti da parte dei governi e
pongano quindi un freno alle tentazioni inflazionistiche. Apportando
chiarezza al rapporto fra le autorità che gestiscono - rispettivamente - la
politica monetaria e la politica di bilancio, le regole di bilancio
faciliterebbero il coordinamento e la definizione del policy mix ed
eviterebbero, così, equilibri non cooperativi con tassi di interesse e
deficit di bilancio simultaneamente e inutilmente elevati.
La regola, scelta per l'Europa, è appunto il Patto di stabilità. Tale Patto
non solo prevede una procedura di sanzione in caso di deficit pubblico
"eccessivo" (ovvero superiore al 3%), ma vincola anche i governi all'impegno
"di raggiungere nel medio termine l'obiettivo di un saldo di bilancio vicino
all'equilibrio o in surplus". Si tratta di una regola che ha basi teoriche
incerte e che, per di più, non è credibile. Qui di seguito analizzeremo
entrambi questi aspetti.
2. Basi teoriche incerte
Chi ha concepito il Patto di stabilità ha voluto vincolare la politica di
bilancio per evitare che i governi europei fossero esposti alle conseguenze
dell'incuria di uno specifico governo o allentassero la disciplina di
bilancio, a essi imposta dal trattato di Maastricht. Il pericolo, che il
Patto vuole scongiurare, è che il lassismo di bilancio di un paese conduca
all'incremento dei tassi di interesse in tutta l'area dell'euro. Questo
pericolo è tanto più concreto dal momento che le politiche di bilancio
nazionali hanno la massima efficacia in regime di moneta unica. Per un
singolo paese la tentazione di farvi ricorso di fronte alla minima
difficoltà è, quindi, grande. Così facendo, esso otterrebbe il beneficio
massimo dato che le "perdite" verrebbero, per così dire, pubblicizzate nel
senso che l'incremento nei tassi di interesse peserebbe sull'insieme dei
paesi europei. Sarebbe come se la politica di bilancio espansiva di un paese
obbligasse tutti gli altri ad adottare una politica più restrittiva, sebbene
non giustificata da ragioni oggettive. Esisterebbe tuttavia un pericolo
ancora più rilevante: i disavanzi di bilancio di un singolo paese potrebbero
comportare conseguenze così gravi per la sua solvibilità da costringere la
BCE a un intervento di "monetizzazione" del suo debito pubblico, ossia alla
creazione della liquidità necessaria a riacquistare i titoli emessi. La
politica monetaria dell'Unione, forzata a seguire comportamenti accomodanti,
perderebbe tutta la sua credibilità.
Un simile ragionamento, generalmente invocato in difesa del Patto di
stabilità, è però parziale e - quindi - riduttivo. E' infatti altrettanto
semplice mostrare l'esatto contrario, ossia che ogni governo europeo ha
interesse a che gli altri conducano una politica di bilancio espansiva. E'
utile indicarne le ragioni.
Da un lato, le conseguenze sul tasso di interesse dell'euro, indotte da una
politica di bilancio espansiva, non possono che essere di portata ridotta
per non dire marginale. Un aumento atteso di un punto del PIL nel disavanzo
di un paese europeo non rappresenta che un aumento di uno o due decimi di
punto nel deficit di bilancio europeo. Non è concepibile come una variazione
tanto piccola, quasi non rilevabile statisticamente, possa avere un'
influenza significativa sul tasso di interesse. Dall'altro lato, tenendo
conto degli effetti indotti, "il lassismo di bilancio" di un paese potrebbe
risultare favorevole agli altri. [.]. In ogni caso, gli altri paesi traggono
un profitto dall'espansione. Nel quadro della moneta unica, e grazie all'
importanza del commercio intra-europeo, l'aumento del deficit di bilancio in
un paese determina spontaneamente, anche se in misura diversa, la riduzione
del deficit di bilancio in tutti gli altri paesi. Non si comprende quindi la
logica del Patto di stabilità che, con il pretesto di proteggere la totalità
dei paesi dalle conseguenze dalla condotta irresponsabile di uno di essi,
vincola di fatto a rinunciare a una politica che converrebbe a tutti.
Per quanto riguarda poi il pericolo di insolvenza, esso sembra quantomeno
sopravvalutato. I nostri paesi sono sufficientemente ricchi da essere
davvero lontani dalla loro soglia di solvibilità. Un aumento di uno o due
punti del loro deficit di bilancio non può, in nessun caso, condurre alla
loro crisi finanziaria. Numerosi studi hanno del resto mostrato che, nel
passato, in genere i paesi dell'area euro hanno dato prova di
"responsabilità nella gestione del bilancio", ponendo in atto politiche
anti-cicliche.
3. Una credibilità debole
Presa alla lettera, la regola europea richiederebbe che la politica di
bilancio dell'area euro fosse complessivamente restrittiva fra il 2002 e il
2005 anche, e forse soprattutto, se la crescita fosse stabilmente al disotto
del suo potenziale. Nelle circostanze attuali, essa spinge la maggioranza
dei paesi europei ad attuare politiche di bilancio pro-cicliche, ovvero ad
assumere misure restrittive in tempi di recessione. Ad esempio: oggi la
Germania, la Francia e l'Italia non dispongono di margini di manovra
sufficienti per lasciar funzionare pienamente gli stabilizzatori automatici.
Ciò è, almeno in parte, dovuto al peso rilevante degli interessi sul debito:
nel 2002, tali interessi erano ancora nell'ordine del 2,7 punti del PIL in
Germania, del 2,9 in Francia e del 5,7 in Italia. Questo peso degli
interessi, che va incluso nel saldo pubblico totale, appesantisce la
capacità di reazione delle politiche di bilancio a schock anche transitori.
Nel 2003 e nel 2004 i diversi paesi, sopra menzionati, dovranno quindi
varare politiche di bilancio restrittive per rimanere nei limiti del Patto
di stabilità. Si tratta di un sano principio di gestione del bilancio?
In un insieme economico, l'area dell'euro, ove i governi dispongono
unicamente dello strumento della spesa pubblica avendo già volontariamente
rinunciato allo strumento della moneta e del tasso di cambio, l'applicazione
restrittiva del Patto equivale non solo a impedire ai governi stessi l'uso
dell'unico strumento di politica economica rimanente, ma - cosa ancor più
grave - a vincolarne l'utilizzo nel senso inverso rispetto a quello che tali
governi auspicherebbero.
Il risultato è che i governi sono obbligati ad usare il politichese,
sovrastimando le prospettive di crescita, aumentando la creatività contabile
ecc., sotto lo sguardo di rimprovero della Commissione e della BCE. Il tutto
perché la procedura in vigore incentiva queste finzioni. Ogni anno i governi
europei devono inviare il loro "compito" alla Commissione - i programmi di
stabilità. Una risoluzione del Consiglio europeo prevede, in effetti, che la
Commissione debba agire "in modo da facilitare un funzionamento puntuale,
opportuno ed efficace del Patto di stabilità e di crescita". La Commissione
è quindi, in un certo senso, il guardiano dell'ortodossia di bilancio voluta
dai governi eletti. Così essa ha la responsabilità di preparare gli
avvertimenti ai paesi le cui finanze pubbliche tendono ad allontanarsi dai
"canoni" europei: un deficit pubblico totale inferiore al 3% del PIL e, nel
medio periodo, un saldo pari a zero o persino positivo. Il problema
politico, che questa procedura induce, è legato al fatto che le rimostranze
della Commissione sono pubbliche e, come accade generalmente negli affari di
giustizia, per i media gli avvertimenti possono avere valore di prova.
Inoltre, l'assoluzione eventuale ottenuta successivamente dai partner, all'
interno di un Consiglio Ecofin, può essere vista con sospetto; è considerata
come una rinuncia del potere politico a far valere i principi di bilancio
stabiliti in precedenza. Il Consiglio viene così accusato di indebolire la
credibilità delle politiche di bilancio mentre è la regola stessa a non
essere credibile.
Per meglio comprendere questo elemento, è utile analizzare le
raccomandazioni della Commissione e le decisioni del Consiglio in tre casi
che hanno già dato luogo ad un vivo dibattito: quelli dell'Irlanda (IR),
della Germania (D) e del Portogallo (P). La tabella seguente riporta gli
indicatori macroeconomici d'interesse per i tre paesi.
Tab. 1, Indicatori macroeconomici nella zona euro
 Eccesso di bilancio sul PIL (segno +)Tasso di crescita del PIL (in %,
prezzi costanti)Tasso d'inflazione
(in %)
 DIRPZona
EuroDIRPZona EuroDIRPZona Euro
1999-1.63.9-2.1-1.21.79.83.42.50.62.52.21.1
2000-1.34.7-1.8-0.73.210.73.43.32.15.32.82.3
2001-2.54.3-2.2-0.60.88.82.03.12.44.04.32.6

Nel mese di febbraio 2001, il consiglio dei ministri dell'Unione europea ha
indirizzato al governo irlandese una "raccomandazione" adottata all'
unanimità, consigliando vivamente di rivedere gli orientamenti del bilancio
2001 giudicati troppo espansivi in un'economia con rilevanti rischi di
surriscaldamento. Nell'autunno 2001, la Commissione europea ha infine
giudicato appropriate le misure adottate dal governo irlandese per
fronteggiare l'impatto inflazionistico delle decisioni prese a sostegno di
consumi e investimenti. Le critiche della Commissione europea si sono
dimostrate ancora meno pertinenti ex post, nel contesto di rallentamento
della crescita a livello mondiale. Lo slittamento dei prezzi in Irlanda è
stato limitato. L'aumento nel livello dei prezzi al consumo, che aveva
raggiunto un picco del 5.3% nel 2000, è ridisceso sotto il 4% nel 2001.
Questa prima raccomandazione di politica di bilancio è stata motivata dall'
inflazione, mentre le regole definite nel trattato di Maastricht e nel Patto
di stabilità definiscono il coordinamento delle politiche economiche in
termini di riduzione dell'indebitamento e del miglioramento della posizione
di bilancio. La situazione in Irlanda è però diversa da quella degli altri
Stati membri. Il finanziamento della previdenza non è così preoccupante,
tenuto conto della situazione demografica, e il bisogno di infrastrutture
pubbliche è più rilevante che altrove in virtù del rapido sviluppo. Così la
raccomandazione non sembra aver tenuto conto della situazione congiunturale
e delle peculiarità strutturali dell'Irlanda. Questo episodio non poteva che
intaccare la credibilità delle procedure dei programmi di stabilità e della
loro valutazione.
All'atto della riunione del 12 febbraio 2002, il Consiglio Ecofin ha
rifiutato la proposta della Commissione europea di pronunciare un
"avvertimento preventivo" contro la Germania e il Portogallo in ragione di
un rischio di deficit di bilancio eccessivo. L'avvertimento è stato
trasformato in un impegno a mantenere sotto stretto controllo le spese
pubbliche e la rapida riduzione del deficit. Questo compromesso è stato
percepito come un cedimento di fronte alle regole del Patto di stabilità e
crescita, dato che è poco probabile che la Germania raggiunga un equilibrio
di bilancio nel 2004, come ha promesso il suo governo. La Germania si è
sottratta ad un avvertimento grazie, si dice, a un'attiva iniziativa di
lobby e all'aiuto dei "grandi" paesi europei. Se la Germania e il Portogallo
hanno così evitato l'"avvertimento preventivo", tale avvertimento permane
nella sua veste informale, dato che i due governi si sono impegnati ad
effettuare "un controllo periodico molto rigido delle loro politiche di
bilancio a ogni livello dell'amministrazione pubblica": "I due paesi devono
destinare tutti i surplus delle entrate alla riduzione del debito pubblico.
Essi si impegnano a raggiungere nel 2004 l'equilibrio di bilancio a
condizione che vi sia crescita economica".
Il Portogallo ha beneficiato dello stesso trattamento della Germania.
Tuttavia, per quel che riguarda il deficit portoghese, il superamento dell'
obiettivo del programma di stabilità precedente proviene, secondo il
Consiglio europeo, più dal mancato controllo della spesa pubblica che dal
rallentamento economico. Il governo portoghese si è impegnato, come anche il
governo tedesco, ad "evitare le misure discrezionali che potrebbero
aggravare la situazione di bilancio e ad utilizzare tutti i margini di
manovra per ridurre il deficit".
Il problema è che, contrariamente alle politiche di bilancio, gli
"avvertimenti" della Commissione assumono un carattere sistematico che
rivela bene i limiti delle procedure del Patto di stabilità e crescita. Cosa
c'è effettivamente in comune fra la situazione della Germania, il cui
deficit pubblico è fortemente legato alla recessione che attraversa il paese
e la cui l'inflazione rimane contenuta, la situazione dell'Irlanda, che è in
fase di rapido sviluppo - come testimoniato dal suo "alto" livello d'
inflazione - e che di conseguenza beneficia di surplus di bilancio, e quella
del Portogallo, le cui finanze pubbliche peggiorano sotto l'impulso di un
allentamento dei vincoli alla spesa pubblica? In questo modo appare più
chiaro che l'esistenza del Patto di stabilità non farà risparmiare all'
Unione europea una riflessione profonda sulle politiche di bilancio
ottimali. Tali politiche sono senza dubbio molto diverse fra un paese e l'
altro: la Germania ha bisogno di abbondanti margini di manovra per far
funzionare pienamente gli stabilizzatori automatici; l'Irlanda ha bisogno di
investimenti pubblici; il Portogallo ha bisogno di limitare alcune spese che
appesantiscono il suo bilancio (rilevanza dell'occupazione pubblica,
esenzioni fiscali eccessive).
Per di più, essendo lo stesso per tutti i paesi, il tasso d'interesse può
rivelarsi troppo ridotto per alcuni di essi e troppo elevato per altri. Una
logica di governo potrebbe tradursi nella richiesta ai primi di condurre una
politica di bilancio più restrittiva e nel permesso ai secondi di
affrancarsi, almeno in modo transitorio, dalla regola del 3%. Certamente
questo tipo di comportamento ha l'inconveniente di lasciar crescere il
debito pubblico nei paesi, ove il tasso d'interesse reale è più elevato, ma
è impossibile fare altrimenti. Il policy mix ottimale a livello europeo non
può, per definizione, essere il policy mix ottimale per le singole nazioni,
a causa della loro eterogeneità. Se una tale strategia potrebbe comunque
legittimare gli avvertimenti dati a Irlanda e Portogallo, non fuga le
perplessità quanto alla razionalità del dossier aperto sulla Germania, anche
se dal procedimento non è scaturito alcun richiamo. E' inoltre noto che
questa "non-decisione" è stata raggiunta solo dopo lunghe trattative e un
laborioso compromesso, al temine del quale la Germania ha confermato il suo
impegno a rimanere entro i limiti fissati. Si valuti fino a che punto questi
impegni abbiano condizionato il dibattito della campagna elettorale tedesca
del settembre 2002.
In nome di quale principio economico, o anche di semplice gestione, si può
richiedere a paesi con situazioni così diverse di seguire la stessa
politica? In Irlanda, la "politica monetaria" era chiaramente espansiva: non
solamente il tasso di interesse reale a breve termine era negativo, ma lo
scarto fra il tasso di crescita ed il tasso di interesse era largamente
positivo. Se si adottano questi due criteri, in Germania al contrario la
politica monetaria è tuttora restrittiva. E' tale contraddizione che porta a
dubitare del Patto di stabilità al punto di fargli perdere la sua
credibilità.
4. Il patto di stabilità e la politica monetaria
Ricerche recenti sulla politica macroeconomica concludono, in genere, che la
funzione di stabilizzazione dell'attività economica deve essere
preferibilmente affidata ad una politica monetaria discrezionale. Il ritardo
nell'attuazione della politica monetaria è chiaramente molto più breve
rispetto a quello della politica di bilancio; inoltre, la prima può essere
modificata e addirittura cambiata di segno in modo molto più semplice .
Ciò richiede però che i governi lascino funzionare pienamente gli
stabilizzatori automatici. La ragione è evidente: tali stabilizzatori
riducono l'incertezza delle decisioni private. Non lasciarli operare
equivale ad accompagnare sistematicamente le fluttuazioni economiche con un
cambiamento del contesto strutturale delle decisioni private (modifica delle
aliquote d'imposta, della spesa pubblica, ecc.). Come sottolinea Taylor, "l'
ampiezza complessiva delle variazioni delle imposte e delle spese, dovuta
agli stabilizzatori automatici, è in genere molto più importante di quella
dovuta a cambiamenti discrezionali. Entrambe le variazioni incidono sulla
domanda aggregata, ma quelle che provengono dagli stabilizzatori sono più
rilevanti di quelle dovute a cambiamenti discrezionali".
Questa conclusione è valida solo se la politica monetaria è molto attiva.
Se, al contrario, tale politica presenta un certo grado di inerzia, è
preferibile far uso di una politica di bilancio discrezionale. Ciò deve
avvenire anche nell'ipotesi in cui, essendo la politica di bilancio
totalmente decentrata, non esistesse alcun trasferimento dalla struttura
federale verso gli Stati-nazione. E' questa la situazione europea. La
conseguenza è che schock comuni hanno generalmente effetti asimmetrici.
Il punto è che il Patto di stabilità è costruito implicitamente sull'idea,
priva di fondamento teorico, secondo cui i disavanzi pubblici dei paesi
membri dovrebbero convergere nel quadro dell'Unione monetaria. L'intuizione
e la maggior parte degli studi sulla questione invitano a pensare il
contrario. Tuttavia, se si analizza la distribuzione reale dei disavanzi
pubblici e della loro dispersione e se si presta fede ai programmi nazionali
di stabilità, si osserva che nei prossimi anni si dovrebbe assistere ad una
diminuzione nella dispersione, anche se le condizioni di partenza dei paesi
sono molto diverse. Questo è evidentemente un effetto del Patto di stabilità
che, come abbiamo visto, porta a suggerire raccomandazioni simili a paesi
con caratteristiche economiche (crescita, inflazione, disoccupazione) molto
diverse.
La difficoltà principale legata a questa situazione è che si accresce
fortemente la tentazione dei governi di criticare in modo sistematico l'
azione della BCE. Ciò non facilita un dialogo costruttivo fra le autorità di
bilancio e le autorità monetarie, anche se solo tale dialogo potrebbe
contribuire a definire un policy mix soddisfacente.
5. Riformare il Patto di stabilità
Se esiste un consenso fra gli economisti, esso riguarda proprio la necessità
di fare riferimento al deficit strutturale piuttosto che al "disavanzo
pubblico totale". E' questa senza dubbio la ragione che ha permesso ai
Quindici di adottare, nel corso del 2001, un "codice di condotta (rivisto)
sulla forma e sul contenuto dei programmi di stabilità e di convergenza",
precisando che le posizioni di bilancio di medio periodo debbono tener conto
anche dei rischi non previsti e delle altre fonti di variabilità e di
incertezza che possono modificare i saldi di bilancio. Una regola deve però
essere precisa, se si vuole che essa rinforzi la credibilità delle politiche
di bilancio e che rassicuri le autorità monetarie quanto all'assenza di
conseguenze inflazionistiche delle politiche messe in pratica.
Una regola, che si basi sul deficit strutturale e - quindi - sulla misura
del deficit corretta dalle fluttuazioni congiunturali, è la soluzione
preferita dagli economisti da molto tempo. Una tale norma permette, infatti,
di far funzionare gli stabilizzatori automatici non appena l'attività
economica cade al di sotto del suo sentiero di crescita potenziale. In
questo modo, la politica di bilancio potrebbe divenire espansiva in caso di
semplice rallentamento della crescita e non solo in caso di grave
recessione, come accade oggi. In teoria, il deficit strutturale dovrebbe
essere nullo; tuttavia, poiché gli investimenti pubblici rappresentano circa
il 3% del PIL e poiché è normale finanziare tali investimenti con il debito,
il deficit strutturale massimo autorizzato potrebbe essere del 3% del PIL.
Questa osservazione permette di sottolineare che seguire un criterio di
"disavanzo pubblico totale", come avviene oggi, ha tre inconvenienti:
limita, o ancor meglio impedisce, il funzionamento degli stabilizzatori
automatici; di conseguenza, sacrifica gli investimenti che costituiscono la
parte più flessibile della spesa pubblica; impedisce ai paesi con un livello
di sviluppo inferiore alla media di perseguire politiche di investimento
pubblico adatte al loro bisogno di infrastrutture.
E' noto che gli investimenti pubblici hanno in genere effetti favorevoli
sulla crescita potenziale, come gli anni del Miracolo economico - anni di
investimenti intensi, hanno dimostrato per l'Europa. Si potrebbe allora
immaginare di adottare quella che, nel Regno Unito, chiamano la "regola d'
oro" della finanza pubblica. Tale regola prevede che il deficit di bilancio
"di funzionamento", ovvero al netto degli investimenti, debba essere nullo
nel medio periodo. Occorre notare che questa regola viene proposta da molto
tempo dagli economisti.
Una regola del genere migliorerebbe la situazione, anche se tale regola può
incontrare una seria obiezione: come il Patto di stabilità, anch'essa
potrebbe impedire agli stabilizzatori automatici di funzionare. Ne segue che
la regola ottimale sarebbe quella di un disavanzo strutturale nullo, al
netto degli investimenti. Certo, la definizione di investimento pubblico non
è agevole, ma sarebbe compito del Consiglio europeo stabilire cosa faccia
parte di questa categoria di spesa. Si può anche immaginare che, attraverso
tale mediazione, il Consiglio inviti i governi ad orientare la loro scelta
verso le spese che i summit europei hanno indicato come particolarmente
utili: reti europee, ricerca e sviluppo, istruzione superiore, nuove
tecnologie, ecc. Questo metodo potrebbe contribuire alla nascita di una vera
politica europea in settori cruciali per l'avvenire dell'Europa in modo più
efficace rispetto a un coordinamento, necessariamente difficile e lungo.
La regola in esame vincolerà sufficientemente le politiche di bilancio
nazionali per evitare le inquietudini della BCE, offrendo margini di manovra
sufficienti ai governi europei per contrastare i rischi della congiuntura e
mettere in atto le politiche più convenienti per le società che essi
governano. Questa regola dà in effetti a ciascun paese una certa autonomia
di scelta in materia di quote di ricchezza prodotta, che ogni società vuole
devolvere agli investimenti collettivi. Nulla giustifica, d'altronde, che
tale quota sia la stessa in tutti i paesi. Dal lato della definizione comune
del concetto di investimento, questa stessa regola offre al Consiglio
europeo un effettivo potere d'impulso nei settori, in cui l'Europa intende
svilupparsi. Se questa nuova regola non garantisce completamente la
stabilità del debito pubblico, essa implica che il suo eventuale
accrescimento sia sempre bilanciato da un aumento degli investimenti
pubblici.
In questo nuovo quadro, diviene possibile per i governi europei della zona
euro investire nella crescita di domani, senza temere le ire della
Commissione europea. La riformulazione della regola permette, in effetti, di
ampliare l'ambito delle scelte. La liberazione della politica di bilancio
porterà una boccata di ossigeno: non essendo più sotto la continua pressione
di governi vincolati dalle disposizioni restrittive dell'attuale forma del
Patto di stabilità e crescita, la BCE potrebbe concentrarsi più attivamente
sulla regolamentazione della politica macroeconomica. In più, la crescita
del debito pubblico sarebbe associata ad investimenti, che possono garantire
un reddito nel futuro, e non avrebbe, dunque, modo di essere giudicata
inflazionistica.
[..]
6. L'allargamento e la governance della BCE
L'allargamento dell'UEM pone il problema, all'apparenza tecnico, della
governance della BCE. Attualmente il consiglio della Banca, che é l'organo
principale di decisione in materia di politica monetaria, comprende diciotto
membri: i sei membri del direttivo e i dodici governatori delle banche
centrali nazionali. Ciascun membro del consiglio dispone di un voto per le
decisioni concernenti i tassi di interesse. L'allargamento (a dodici paesi)
porterebbe a trenta gli effettivi del consiglio.
Quest'aumento fa nascere due timori di diversa natura: la difficoltà di
pervenire ad una decisione efficiente e rapida a trenta; la possibilità che
possa emergere una coalizione maggioritaria composta da piccoli paesi, il
cui peso totale non rappresenta che il 20% del PIL europeo. Certi autori
sostengono che l'accresciuta complessità del metodo decisionale rischia di
favorire lo status quo, cioè un comportamento relativamente inerte delle
autorità monetarie in materia di determinazione del tasso di interesse. Una
simile critica é già stata mossa alla BCE, sebbene il suo Consiglio
comprenda attualmente solo diciotto membri e sebbene sia sufficiente che il
direttivo (nella misura in cui i suoi membri siano unanimi) convinca tre
governatori per pervenire ad una decisione (essendo decisivo il voto del
presidente). Probabilmente tale critica non è, però, fondata. Resta tuttavia
vero che l'allargamento del Consiglio della BCE potrebbe portare a una certa
paralisi dell'istituzione; il che potrebbe condurre ad una politica
monetaria inerte e, dunque, poco adatta alle esigenze di un <<grande
paese>>, sottoposto a shock molteplici, com'é l'Europa.
Il secondo timore, quello di una coalizione di piccoli paesi, é rafforzato
dal fatto che i membri della coalizione rappresentano nazioni, le cui
caratteristiche strutturali differiscono dal resto dei paesi europei - un
<<resto>> che totalizza l'80% del PIL europeo. Poiché i piccoli paesi hanno
in genere tassi di crescita e d'inflazione (strutturale) più elevati, il
loro interesse in materia di politica monetaria può divergere da quello
degli altri paesi. Se ne deduce che la politica monetaria dell'Europa
sarebbe sistematicamente incongrua, nel senso che non converrebbe ai
quattro-quinti del PIL europeo.
Per evitare l'uno e l'altro di questi inconvenienti, una condizione
necessaria sarebbe ridurre il numero dei membri del Consiglio. Ciò
presuppone che solo una parte dei governatori delle banche centrali
nazionali partecipi al Consiglio. Esistono quattro metodi per giungere ad un
simile risultato: [la rotazione, la rappresentanza, la delega, il metodo
diretto]
Il metodo della rotazione fu preso in considerazione per sovrintendere all'
organizzazione della Commissione al vertice di Nizza. Come sottolineano
Baldwin ed altri, esso comporta però l'inconveniente che quanto più è
ristretto il numero dei governatori con diritto di voto e quanto più è lungo
il loro mandato, tanto più lungo sarà il periodo durante il quale gli altri
governatori saranno esclusi dal processo decisionale [.]. Si possono però
trovare compromessi: aumentare il numero di governatori con diritto di voto
e/o accorciare il loro mandato. Per esempio, nell'ipotesi in cui si mantenga
il numero attuale di membri effettivi del consiglio (diciotto), dodici
governatori su ventiquattro partecipano alle decisioni e il periodo di
non-voto non dura più di cinque anni. Mettendoci un po' di buon senso, la
soluzione é dunque praticabile e non può essere scartata con superficialità.
[.] Il secondo metodo, che è il più comunemente invocato, é quello della
rappresentanza. Esso consiste nella costituzione di gruppi regionali,
ciascuno dei quali otterrebbe un solo rappresentante al consiglio della
Banca. Tale metodo é insoddisfacente per numerose ragioni. [.].
Secondo Baldwin ed altri, i due metodi precedenti comportano una
contraddizione interna - i membri del consiglio devono essere scelti per la
loro competenza e non in quanto rappresentanti delle nazioni o di gruppi di
nazioni che li nominano. Baldwin e altri prevedono, pertanto, che
governatori delle banche centrali nazionali abbiano solo un ruolo consultivo
e siano rimpiazzati da cinque personalità esterne, scelte dai governi tra i
migliori esperti al mondo [.]. Neanche a dirlo una tale proposta, spingendo
ancora di più verso una direzione tecnocratica, non mi pare affatto in grado
di porre rimedio al problema maggiore della costruzione europea, che é
proprio quello di un "deficit di democrazia". [.]
L'ultima modalità potrebbe essere denominata come metodo diretto, poiché
implica che la politica assuma completamente e direttamente le sue
responsabilità. Il Consiglio europeo indicherebbe i membri effettivi del
consiglio della Banca e, fermo restando il direttivo di sei membri,
sceglierebbe tra i governatori delle banche centrali nazionali il numero
richiesto per completare il consiglio, Un tale metodo implica, però, che si
modifichi il processo di nomina.
Il leitmotiv di questo saggio è che una banca centrale deve essere, allo
stesso tempo, credibile e responsabile. E' nostra convinzione che la
responsabilità accresca la credibilità; e poiché non abbiamo nessuna
sfiducia nei confronti della democrazia, ci sembra che la politica debba
giocare un ruolo più rilevante, anche se meglio informato, nella
designazione dei membri del consiglio. [.] La quarta soluzione, che è quella
a cui va la nostra preferenza appena davanti alla prima (la rotazione), può
dunque essere concepita come l'esito di un miglioramento nel processo di
selezione dei membri del consiglio della Banca.
[.]
7. Conclusioni
E' sotto il duplice criterio della democrazia e dell'efficienza che questo
saggio ha tentato di valutare le istituzioni europee della politica
macroeconomica attualmente in carica. L'istituzione di riferimento per la
regolamentazione economica in tale campo é la Banca centrale europea. E' per
questo che i suoi statuti e le sue prime azioni ci sono servite da guida. L'
oggettività obbliga a sottolineare che la BCE ha condotto, tutto sommato,
una buona politica, anche se si può rimproverare ad essa qualche peccatuccio
in materia di credibilità e di trasparenza. Perché allora riformare un'
istituzione che funziona bene? E' possibile rispondere a tale domanda con un
'altra questione. Cosa sarebbe successo se la politica monetaria fosse stata
<<cattiva>> - per esempio nell'ipotesi in cui la BCE avesse interpretato in
maniera molto più restrittiva l'obiettivo d'inflazione che essa stessa si é
imposto? Certo la crescita sarebbe stata più debole, l'Europa già in
recessione, la disoccupazione e i deficit pubblici molto più elevati. Ma a
parte ciò, non sarebbe successo niente. La BCE ha statutariamente tutti i
mezzi per resistere ad ogni pressione. Accade che oggi sia ben governata, ma
cosa ne sarà domani? Non é bene lasciare completamente fuori dal campo della
democrazia il potere monetario, anche se la ragione (e l'analisi economica)
spingano per concedergli un'autonomia abbastanza grande. Ecco perché appare
necessario sottomettere tale potere ad una procedura di responsabilità di
fronte ad un'assemblea politica, come da noi proposto. La democrazia ci
guadagna, ma ci guadagna pure l'efficienza, perché ciò spingerebbe ad
arricchire l'insieme di informazioni, su cui la banca fonda le sue
decisioni; il che accrescerebbe, allo stesso tempo, la sua indipendenza e la
sua legittimità. Dopo tutto, come ha detto in sostanza uno dei membri del
direttivo della banca - Tommaso Padoa-Schioppa, non é bene lasciare la BCE
in così grande solitudine.
L'obiettivo d'inflazione, fissato dalla Banca, appare troppo ambizioso; il
che potrebbe sia conferire un tono troppo restrittivo alla sua politica, sia
nuocere alla sua credibilità. E' un segreto di Pulcinella: la ragione, per
la quale negli ultimi due anni il tasso d'inflazione é stato
significativamente superiore all'obiettivo, é che la BCE si preoccupa di
occupazione e di crescita oltre che d'inflazione. Allora perché non dirlo? E
' questa la trasparenza? E' vero che tutti gli esperti di politica monetaria
hanno deciso che non fosse conveniente per una banca centrale dichiarare
altro obiettivo al di fuori della stabilità dei prezzi. Ma ciò é conveniente
per la democrazia; non si rischia, alla lunga, di dimenticare l'obiettivo
nascosto? La tesi, secondo cui sarebbe auspicabile che le banche centrali
rendessero espliciti anche gli obiettivi di occupazione e di crescita che
non possono non avere, é tuttavia talmente eterodossa che é meglio
sottacerla. Eppur si muove.
La questione dell'allargamento pone un serio problema di governance alla
BCE, così serio che lo stesso Consiglio europeo se n'é interessato, esigendo
che la Banca e/o la Commissione avanzino proposte di riforma. Il punto d'
approdo é noto: se si vogliono evitare stonature, occorre ridurre il numero
dei membri del consiglio della Banca. Il problema è: come arrivarci? Le
proposte abbondano, ma quelle che sembrano riscuotere la preferenza degli
economisti consistono nell'accentuare l'aspetto <<governo degli esperti>>
della banca; il che aggraverebbe il deficit democratico dell'Europa. La
proposta, contenuta in questo saggio, é - al contrario - di ristabilire la
supremazia della politica, mettendo il Consiglio europeo e il consiglio dei
governatori di fronte alle proprie responsabilità.
Preso alla lettera, il Patto di stabilità implicherebbe che in numerose
circostanze i governi siano costretti a condurre una politica economica
contraria ai loro progetti e che possano solo raramente mettere in atto il
programma, presentato alle elezioni. Non c'é che una soluzione a questa
contraddizione: i responsabili nazionali debbono comportarsi come
governatori di provincia e rivedere al ribasso le ambizioni dei loro
programmi. E' peraltro comprensibile che una tale soluzione non sia
accettabile per gli elettori nazionali se non a patto di partecipare,
attraverso i canali della democrazia, alla determinazione delle scelte
europee. In una democrazia non si può ridurre lo spazio delle scelte, senza
alla lunga rimettere in discussione la natura stessa del regime. E' per
questo che il Patto di stabilità, nella sua versione attuale, non é
credibile e che occorre, non per lassismo ma per fedeltà alla democrazia,
modificarne l'interpretazione. La soluzione, qui proposta - escludere gli
investimenti dal calcolo del deficit di bilancio -, presenta il doppio
vantaggio di restituire "grano da macinare" alla democrazia e di facilitare
la coordinazione delle politiche a livello europeo: una duplice restituzione
di sovranità! L'attuale situazione è preoccupante perché pone, di fatto, il
potere della politica di bilancio (democratico) sotto la tutela del potere
monetario (tecnocratico e sovranazionale). Viene così affidata alla BCE una
responsabilità troppo pesante (e inedita in rapporto alle altre democrazie
del mondo); in verità, una responsabilità tanto pesante da condurre
inevitabilmente l'istituzione ad un eccesso di prudenza e da non favorire
una politica monetaria ottimale. Non si può dubitare dei sentimenti
democratici del consiglio della Banca. E' il sistema che conduce a queste
disfunzioni e la sua architettura é stata disegnata dalla politica. [.]
Procedendo a riforme pragmatiche e graduali, è urgente pervenire ad un
governo in cui le scelte dominano le regole. E' nella democrazia il futuro
dell'Europa.
Tra mercato e democrazia, l'architettura attuale delle istituzioni europee
privilegia il mercato. Si ritiene che il risultante deficit democratico,
tanto a livello d'Europa quanto a livello delle nazioni che la compongono,
accresca l'efficienza. Quest'ultima affermazione presuppone però l'
accettazione di una dottrina economica particolare che, dalle premesse della
sua elaborazione nel XVIII° secolo, é sempre stata molto discussa.
Soprattutto, tale dottrina é fondata su una gerarchia di valori - il primato
dell'economia sulla politica, delle libertà economiche sulle libertà
politiche - che, per il meno che si possa dire, é contestabile. <<Il dolce
commercio>> non é mai stato sufficiente né a mitigare le relazioni sociali,
né ad occupare pienamente lo spazio del politico. Eppure uno degli
insegnamenti di questa dottrina - il fatto, cioè, che occorre privilegiare
la regola alla scelta nel governo delle società - costituisce la migliore
chiave di lettura delle istituzioni europee. Il punto è che, nella teoria
pura dell'economia di mercato, l'uso della sovranità conduce ad una minore
efficienza economica.
Nel luglio 1998, nel corso di una conversazione con colui che ha concepito
tale teoria della scelta - Kenneth Arrow, , gli parlai del tema delle mie
ricerche in corso: il mercato é compatibile con la democrazia? Non vi è
nelle evoluzioni recenti il rischio di una involuzione della democrazia? La
sua risposta, anche se a posteriori mi é apparsa ovvia, é stata come sempre
illuminante. Il mercato, mi ha detto Arrow, non é in teoria compatibile con
nessun regime politico, con nessuna forma di governo: né la democrazia, né l
'oligarchia, né la dittatura. Certo: non s'insegna nella teoria elementare
dei mercati perfetti che ogni intervento dello Stato non può che ridurre l'
efficienza dell'economia? Conoscevo dunque le risposte per averle io stesso
insegnate. Fino alla mia conversazione con Arrow, non ne avevo però mai
compreso veramente le implicazioni politiche. Una cosa é ragionare in
termini economici, un'altra farlo in termini politici. La divisione dei
saperi, l'ipotesi implicita sottesa ad ogni dibattito economico, secondo la
quale la democrazia in quanto regime politico é indipendente dalle politiche
economiche effettivamente attuate, ci impedisce frequentemente di cogliere
le implicazioni di ciò che predichiamo. [.]
Le considerazioni fatte possono certamente apparire eccessive alla luce dell
'ostinata volontà politica, che ha sovrinteso alla costruzione europea.
Arrivata a metà strada, e in assenza per il momento di un progetto politico
coerente, l'Europa appare però come un luogo privo di sovranità, come un
governo mediante regole piuttosto che un governo mediante scelte. Il potere
monetario é stato affidato ad un'istituzione indipendente - la sola che, nel
mondo moderno, non sia veramente vincolata a rendere conto alla democrazia
(anche se lo fa, nei fatti) - e il potere delle politiche di bilancio degli
Stati é stato accuratamente circoscritto per mezzo di regole.
Un tale sistema non ci sembra efficiente rispetto agli stessi criteri
economici che ne costituiscono le fondamenta. Troppo rigido, esso non
permette di trarre pienamente profitto dalla libera interazione tra gli
individui. Il dogmatismo non é mai stato un buon metodo per raggiungere gli
obiettivi finali, al quale le società legittimamente aspirano: in primo
luogo quello del pieno impiego. I deludenti risultati dell'Europa negli anni
Novanta - crescita "molle", disoccupazione di massa - avrebbero almeno
dovuto suscitare il dubbio.
Fortunatamente la democrazia, al di là della sua desiderabilità intrinseca,
permette anche un miglior adattamento alle circostanze, una maggiore
flessibilità. Essa procede con scelte esplicite, che il dibattito e la
persuasione chiariscono e che hanno per effetto a volte di rimettere in
discussione quanto sembra acquisito e a volte di confortarlo. Una certa dose
di discrezionalità democratica é indispensabile per affrontare gli
imprevisti, che non si lasciano agevolmente ingabbiare da regole
prestabilite. In breve, la <<governance>> di uno spazio ha davvero bisogno
di sovranità.