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la politica monetaria europea regole e discrezionalita'
- Subject: la politica monetaria europea regole e discrezionalita'
- From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 7 Apr 2003 07:08:49 +0200
da fondazionedivittorio.it aprile 2003 Jean-Paul Fitoussi* (IEP e OFCE, Paris) La politica monetaria europea fra regole e discrezionalità** 1. Il Patto di stabilità Preoccupata dalle conseguenze di un allentamento del rigore da parte dei governi, la Banca centrale europea (BCE) non sembra essere sempre soddisfatta della lettura del Patto di stabilità adottata, soprattutto, dai grandi paesi europei (Germania e Francia in testa). Nondimeno il Patto è stato tagliato su misura della BCE e ha ufficializzato il dominio della politica monetaria nel policy mix europeo. I vari difetti del Patto di stabilità hanno a che vedere sia con le sue fondamenta teoriche, ispirate a principi erronei, sia con la sua traduzione politica: le raccomandazioni e gli avvertimenti, emanati dalla Commissione europea e ripresi dai media, hanno un pessimo effetto sulla credibilità del meccanismo di controllo del bilancio europeo. Le regole di bilancio sono il complemento delle regole monetarie e, come a queste ultime, anche alle prime sono attribuite numerose virtù: si suppone che stiano alla base della credibilità della politica di bilancio, possano evitare il sospetto di atteggiamenti accomodanti da parte dei governi e pongano quindi un freno alle tentazioni inflazionistiche. Apportando chiarezza al rapporto fra le autorità che gestiscono - rispettivamente - la politica monetaria e la politica di bilancio, le regole di bilancio faciliterebbero il coordinamento e la definizione del policy mix ed eviterebbero, così, equilibri non cooperativi con tassi di interesse e deficit di bilancio simultaneamente e inutilmente elevati. La regola, scelta per l'Europa, è appunto il Patto di stabilità. Tale Patto non solo prevede una procedura di sanzione in caso di deficit pubblico "eccessivo" (ovvero superiore al 3%), ma vincola anche i governi all'impegno "di raggiungere nel medio termine l'obiettivo di un saldo di bilancio vicino all'equilibrio o in surplus". Si tratta di una regola che ha basi teoriche incerte e che, per di più, non è credibile. Qui di seguito analizzeremo entrambi questi aspetti. 2. Basi teoriche incerte Chi ha concepito il Patto di stabilità ha voluto vincolare la politica di bilancio per evitare che i governi europei fossero esposti alle conseguenze dell'incuria di uno specifico governo o allentassero la disciplina di bilancio, a essi imposta dal trattato di Maastricht. Il pericolo, che il Patto vuole scongiurare, è che il lassismo di bilancio di un paese conduca all'incremento dei tassi di interesse in tutta l'area dell'euro. Questo pericolo è tanto più concreto dal momento che le politiche di bilancio nazionali hanno la massima efficacia in regime di moneta unica. Per un singolo paese la tentazione di farvi ricorso di fronte alla minima difficoltà è, quindi, grande. Così facendo, esso otterrebbe il beneficio massimo dato che le "perdite" verrebbero, per così dire, pubblicizzate nel senso che l'incremento nei tassi di interesse peserebbe sull'insieme dei paesi europei. Sarebbe come se la politica di bilancio espansiva di un paese obbligasse tutti gli altri ad adottare una politica più restrittiva, sebbene non giustificata da ragioni oggettive. Esisterebbe tuttavia un pericolo ancora più rilevante: i disavanzi di bilancio di un singolo paese potrebbero comportare conseguenze così gravi per la sua solvibilità da costringere la BCE a un intervento di "monetizzazione" del suo debito pubblico, ossia alla creazione della liquidità necessaria a riacquistare i titoli emessi. La politica monetaria dell'Unione, forzata a seguire comportamenti accomodanti, perderebbe tutta la sua credibilità. Un simile ragionamento, generalmente invocato in difesa del Patto di stabilità, è però parziale e - quindi - riduttivo. E' infatti altrettanto semplice mostrare l'esatto contrario, ossia che ogni governo europeo ha interesse a che gli altri conducano una politica di bilancio espansiva. E' utile indicarne le ragioni. Da un lato, le conseguenze sul tasso di interesse dell'euro, indotte da una politica di bilancio espansiva, non possono che essere di portata ridotta per non dire marginale. Un aumento atteso di un punto del PIL nel disavanzo di un paese europeo non rappresenta che un aumento di uno o due decimi di punto nel deficit di bilancio europeo. Non è concepibile come una variazione tanto piccola, quasi non rilevabile statisticamente, possa avere un' influenza significativa sul tasso di interesse. Dall'altro lato, tenendo conto degli effetti indotti, "il lassismo di bilancio" di un paese potrebbe risultare favorevole agli altri. [.]. In ogni caso, gli altri paesi traggono un profitto dall'espansione. Nel quadro della moneta unica, e grazie all' importanza del commercio intra-europeo, l'aumento del deficit di bilancio in un paese determina spontaneamente, anche se in misura diversa, la riduzione del deficit di bilancio in tutti gli altri paesi. Non si comprende quindi la logica del Patto di stabilità che, con il pretesto di proteggere la totalità dei paesi dalle conseguenze dalla condotta irresponsabile di uno di essi, vincola di fatto a rinunciare a una politica che converrebbe a tutti. Per quanto riguarda poi il pericolo di insolvenza, esso sembra quantomeno sopravvalutato. I nostri paesi sono sufficientemente ricchi da essere davvero lontani dalla loro soglia di solvibilità. Un aumento di uno o due punti del loro deficit di bilancio non può, in nessun caso, condurre alla loro crisi finanziaria. Numerosi studi hanno del resto mostrato che, nel passato, in genere i paesi dell'area euro hanno dato prova di "responsabilità nella gestione del bilancio", ponendo in atto politiche anti-cicliche. 3. Una credibilità debole Presa alla lettera, la regola europea richiederebbe che la politica di bilancio dell'area euro fosse complessivamente restrittiva fra il 2002 e il 2005 anche, e forse soprattutto, se la crescita fosse stabilmente al disotto del suo potenziale. Nelle circostanze attuali, essa spinge la maggioranza dei paesi europei ad attuare politiche di bilancio pro-cicliche, ovvero ad assumere misure restrittive in tempi di recessione. Ad esempio: oggi la Germania, la Francia e l'Italia non dispongono di margini di manovra sufficienti per lasciar funzionare pienamente gli stabilizzatori automatici. Ciò è, almeno in parte, dovuto al peso rilevante degli interessi sul debito: nel 2002, tali interessi erano ancora nell'ordine del 2,7 punti del PIL in Germania, del 2,9 in Francia e del 5,7 in Italia. Questo peso degli interessi, che va incluso nel saldo pubblico totale, appesantisce la capacità di reazione delle politiche di bilancio a schock anche transitori. Nel 2003 e nel 2004 i diversi paesi, sopra menzionati, dovranno quindi varare politiche di bilancio restrittive per rimanere nei limiti del Patto di stabilità. Si tratta di un sano principio di gestione del bilancio? In un insieme economico, l'area dell'euro, ove i governi dispongono unicamente dello strumento della spesa pubblica avendo già volontariamente rinunciato allo strumento della moneta e del tasso di cambio, l'applicazione restrittiva del Patto equivale non solo a impedire ai governi stessi l'uso dell'unico strumento di politica economica rimanente, ma - cosa ancor più grave - a vincolarne l'utilizzo nel senso inverso rispetto a quello che tali governi auspicherebbero. Il risultato è che i governi sono obbligati ad usare il politichese, sovrastimando le prospettive di crescita, aumentando la creatività contabile ecc., sotto lo sguardo di rimprovero della Commissione e della BCE. Il tutto perché la procedura in vigore incentiva queste finzioni. Ogni anno i governi europei devono inviare il loro "compito" alla Commissione - i programmi di stabilità. Una risoluzione del Consiglio europeo prevede, in effetti, che la Commissione debba agire "in modo da facilitare un funzionamento puntuale, opportuno ed efficace del Patto di stabilità e di crescita". La Commissione è quindi, in un certo senso, il guardiano dell'ortodossia di bilancio voluta dai governi eletti. Così essa ha la responsabilità di preparare gli avvertimenti ai paesi le cui finanze pubbliche tendono ad allontanarsi dai "canoni" europei: un deficit pubblico totale inferiore al 3% del PIL e, nel medio periodo, un saldo pari a zero o persino positivo. Il problema politico, che questa procedura induce, è legato al fatto che le rimostranze della Commissione sono pubbliche e, come accade generalmente negli affari di giustizia, per i media gli avvertimenti possono avere valore di prova. Inoltre, l'assoluzione eventuale ottenuta successivamente dai partner, all' interno di un Consiglio Ecofin, può essere vista con sospetto; è considerata come una rinuncia del potere politico a far valere i principi di bilancio stabiliti in precedenza. Il Consiglio viene così accusato di indebolire la credibilità delle politiche di bilancio mentre è la regola stessa a non essere credibile. Per meglio comprendere questo elemento, è utile analizzare le raccomandazioni della Commissione e le decisioni del Consiglio in tre casi che hanno già dato luogo ad un vivo dibattito: quelli dell'Irlanda (IR), della Germania (D) e del Portogallo (P). La tabella seguente riporta gli indicatori macroeconomici d'interesse per i tre paesi. Tab. 1, Indicatori macroeconomici nella zona euro Eccesso di bilancio sul PIL (segno +)Tasso di crescita del PIL (in %, prezzi costanti)Tasso d'inflazione (in %) DIRPZona EuroDIRPZona EuroDIRPZona Euro 1999-1.63.9-2.1-1.21.79.83.42.50.62.52.21.1 2000-1.34.7-1.8-0.73.210.73.43.32.15.32.82.3 2001-2.54.3-2.2-0.60.88.82.03.12.44.04.32.6 Nel mese di febbraio 2001, il consiglio dei ministri dell'Unione europea ha indirizzato al governo irlandese una "raccomandazione" adottata all' unanimità, consigliando vivamente di rivedere gli orientamenti del bilancio 2001 giudicati troppo espansivi in un'economia con rilevanti rischi di surriscaldamento. Nell'autunno 2001, la Commissione europea ha infine giudicato appropriate le misure adottate dal governo irlandese per fronteggiare l'impatto inflazionistico delle decisioni prese a sostegno di consumi e investimenti. Le critiche della Commissione europea si sono dimostrate ancora meno pertinenti ex post, nel contesto di rallentamento della crescita a livello mondiale. Lo slittamento dei prezzi in Irlanda è stato limitato. L'aumento nel livello dei prezzi al consumo, che aveva raggiunto un picco del 5.3% nel 2000, è ridisceso sotto il 4% nel 2001. Questa prima raccomandazione di politica di bilancio è stata motivata dall' inflazione, mentre le regole definite nel trattato di Maastricht e nel Patto di stabilità definiscono il coordinamento delle politiche economiche in termini di riduzione dell'indebitamento e del miglioramento della posizione di bilancio. La situazione in Irlanda è però diversa da quella degli altri Stati membri. Il finanziamento della previdenza non è così preoccupante, tenuto conto della situazione demografica, e il bisogno di infrastrutture pubbliche è più rilevante che altrove in virtù del rapido sviluppo. Così la raccomandazione non sembra aver tenuto conto della situazione congiunturale e delle peculiarità strutturali dell'Irlanda. Questo episodio non poteva che intaccare la credibilità delle procedure dei programmi di stabilità e della loro valutazione. All'atto della riunione del 12 febbraio 2002, il Consiglio Ecofin ha rifiutato la proposta della Commissione europea di pronunciare un "avvertimento preventivo" contro la Germania e il Portogallo in ragione di un rischio di deficit di bilancio eccessivo. L'avvertimento è stato trasformato in un impegno a mantenere sotto stretto controllo le spese pubbliche e la rapida riduzione del deficit. Questo compromesso è stato percepito come un cedimento di fronte alle regole del Patto di stabilità e crescita, dato che è poco probabile che la Germania raggiunga un equilibrio di bilancio nel 2004, come ha promesso il suo governo. La Germania si è sottratta ad un avvertimento grazie, si dice, a un'attiva iniziativa di lobby e all'aiuto dei "grandi" paesi europei. Se la Germania e il Portogallo hanno così evitato l'"avvertimento preventivo", tale avvertimento permane nella sua veste informale, dato che i due governi si sono impegnati ad effettuare "un controllo periodico molto rigido delle loro politiche di bilancio a ogni livello dell'amministrazione pubblica": "I due paesi devono destinare tutti i surplus delle entrate alla riduzione del debito pubblico. Essi si impegnano a raggiungere nel 2004 l'equilibrio di bilancio a condizione che vi sia crescita economica". Il Portogallo ha beneficiato dello stesso trattamento della Germania. Tuttavia, per quel che riguarda il deficit portoghese, il superamento dell' obiettivo del programma di stabilità precedente proviene, secondo il Consiglio europeo, più dal mancato controllo della spesa pubblica che dal rallentamento economico. Il governo portoghese si è impegnato, come anche il governo tedesco, ad "evitare le misure discrezionali che potrebbero aggravare la situazione di bilancio e ad utilizzare tutti i margini di manovra per ridurre il deficit". Il problema è che, contrariamente alle politiche di bilancio, gli "avvertimenti" della Commissione assumono un carattere sistematico che rivela bene i limiti delle procedure del Patto di stabilità e crescita. Cosa c'è effettivamente in comune fra la situazione della Germania, il cui deficit pubblico è fortemente legato alla recessione che attraversa il paese e la cui l'inflazione rimane contenuta, la situazione dell'Irlanda, che è in fase di rapido sviluppo - come testimoniato dal suo "alto" livello d' inflazione - e che di conseguenza beneficia di surplus di bilancio, e quella del Portogallo, le cui finanze pubbliche peggiorano sotto l'impulso di un allentamento dei vincoli alla spesa pubblica? In questo modo appare più chiaro che l'esistenza del Patto di stabilità non farà risparmiare all' Unione europea una riflessione profonda sulle politiche di bilancio ottimali. Tali politiche sono senza dubbio molto diverse fra un paese e l' altro: la Germania ha bisogno di abbondanti margini di manovra per far funzionare pienamente gli stabilizzatori automatici; l'Irlanda ha bisogno di investimenti pubblici; il Portogallo ha bisogno di limitare alcune spese che appesantiscono il suo bilancio (rilevanza dell'occupazione pubblica, esenzioni fiscali eccessive). Per di più, essendo lo stesso per tutti i paesi, il tasso d'interesse può rivelarsi troppo ridotto per alcuni di essi e troppo elevato per altri. Una logica di governo potrebbe tradursi nella richiesta ai primi di condurre una politica di bilancio più restrittiva e nel permesso ai secondi di affrancarsi, almeno in modo transitorio, dalla regola del 3%. Certamente questo tipo di comportamento ha l'inconveniente di lasciar crescere il debito pubblico nei paesi, ove il tasso d'interesse reale è più elevato, ma è impossibile fare altrimenti. Il policy mix ottimale a livello europeo non può, per definizione, essere il policy mix ottimale per le singole nazioni, a causa della loro eterogeneità. Se una tale strategia potrebbe comunque legittimare gli avvertimenti dati a Irlanda e Portogallo, non fuga le perplessità quanto alla razionalità del dossier aperto sulla Germania, anche se dal procedimento non è scaturito alcun richiamo. E' inoltre noto che questa "non-decisione" è stata raggiunta solo dopo lunghe trattative e un laborioso compromesso, al temine del quale la Germania ha confermato il suo impegno a rimanere entro i limiti fissati. Si valuti fino a che punto questi impegni abbiano condizionato il dibattito della campagna elettorale tedesca del settembre 2002. In nome di quale principio economico, o anche di semplice gestione, si può richiedere a paesi con situazioni così diverse di seguire la stessa politica? In Irlanda, la "politica monetaria" era chiaramente espansiva: non solamente il tasso di interesse reale a breve termine era negativo, ma lo scarto fra il tasso di crescita ed il tasso di interesse era largamente positivo. Se si adottano questi due criteri, in Germania al contrario la politica monetaria è tuttora restrittiva. E' tale contraddizione che porta a dubitare del Patto di stabilità al punto di fargli perdere la sua credibilità. 4. Il patto di stabilità e la politica monetaria Ricerche recenti sulla politica macroeconomica concludono, in genere, che la funzione di stabilizzazione dell'attività economica deve essere preferibilmente affidata ad una politica monetaria discrezionale. Il ritardo nell'attuazione della politica monetaria è chiaramente molto più breve rispetto a quello della politica di bilancio; inoltre, la prima può essere modificata e addirittura cambiata di segno in modo molto più semplice . Ciò richiede però che i governi lascino funzionare pienamente gli stabilizzatori automatici. La ragione è evidente: tali stabilizzatori riducono l'incertezza delle decisioni private. Non lasciarli operare equivale ad accompagnare sistematicamente le fluttuazioni economiche con un cambiamento del contesto strutturale delle decisioni private (modifica delle aliquote d'imposta, della spesa pubblica, ecc.). Come sottolinea Taylor, "l' ampiezza complessiva delle variazioni delle imposte e delle spese, dovuta agli stabilizzatori automatici, è in genere molto più importante di quella dovuta a cambiamenti discrezionali. Entrambe le variazioni incidono sulla domanda aggregata, ma quelle che provengono dagli stabilizzatori sono più rilevanti di quelle dovute a cambiamenti discrezionali". Questa conclusione è valida solo se la politica monetaria è molto attiva. Se, al contrario, tale politica presenta un certo grado di inerzia, è preferibile far uso di una politica di bilancio discrezionale. Ciò deve avvenire anche nell'ipotesi in cui, essendo la politica di bilancio totalmente decentrata, non esistesse alcun trasferimento dalla struttura federale verso gli Stati-nazione. E' questa la situazione europea. La conseguenza è che schock comuni hanno generalmente effetti asimmetrici. Il punto è che il Patto di stabilità è costruito implicitamente sull'idea, priva di fondamento teorico, secondo cui i disavanzi pubblici dei paesi membri dovrebbero convergere nel quadro dell'Unione monetaria. L'intuizione e la maggior parte degli studi sulla questione invitano a pensare il contrario. Tuttavia, se si analizza la distribuzione reale dei disavanzi pubblici e della loro dispersione e se si presta fede ai programmi nazionali di stabilità, si osserva che nei prossimi anni si dovrebbe assistere ad una diminuzione nella dispersione, anche se le condizioni di partenza dei paesi sono molto diverse. Questo è evidentemente un effetto del Patto di stabilità che, come abbiamo visto, porta a suggerire raccomandazioni simili a paesi con caratteristiche economiche (crescita, inflazione, disoccupazione) molto diverse. La difficoltà principale legata a questa situazione è che si accresce fortemente la tentazione dei governi di criticare in modo sistematico l' azione della BCE. Ciò non facilita un dialogo costruttivo fra le autorità di bilancio e le autorità monetarie, anche se solo tale dialogo potrebbe contribuire a definire un policy mix soddisfacente. 5. Riformare il Patto di stabilità Se esiste un consenso fra gli economisti, esso riguarda proprio la necessità di fare riferimento al deficit strutturale piuttosto che al "disavanzo pubblico totale". E' questa senza dubbio la ragione che ha permesso ai Quindici di adottare, nel corso del 2001, un "codice di condotta (rivisto) sulla forma e sul contenuto dei programmi di stabilità e di convergenza", precisando che le posizioni di bilancio di medio periodo debbono tener conto anche dei rischi non previsti e delle altre fonti di variabilità e di incertezza che possono modificare i saldi di bilancio. Una regola deve però essere precisa, se si vuole che essa rinforzi la credibilità delle politiche di bilancio e che rassicuri le autorità monetarie quanto all'assenza di conseguenze inflazionistiche delle politiche messe in pratica. Una regola, che si basi sul deficit strutturale e - quindi - sulla misura del deficit corretta dalle fluttuazioni congiunturali, è la soluzione preferita dagli economisti da molto tempo. Una tale norma permette, infatti, di far funzionare gli stabilizzatori automatici non appena l'attività economica cade al di sotto del suo sentiero di crescita potenziale. In questo modo, la politica di bilancio potrebbe divenire espansiva in caso di semplice rallentamento della crescita e non solo in caso di grave recessione, come accade oggi. In teoria, il deficit strutturale dovrebbe essere nullo; tuttavia, poiché gli investimenti pubblici rappresentano circa il 3% del PIL e poiché è normale finanziare tali investimenti con il debito, il deficit strutturale massimo autorizzato potrebbe essere del 3% del PIL. Questa osservazione permette di sottolineare che seguire un criterio di "disavanzo pubblico totale", come avviene oggi, ha tre inconvenienti: limita, o ancor meglio impedisce, il funzionamento degli stabilizzatori automatici; di conseguenza, sacrifica gli investimenti che costituiscono la parte più flessibile della spesa pubblica; impedisce ai paesi con un livello di sviluppo inferiore alla media di perseguire politiche di investimento pubblico adatte al loro bisogno di infrastrutture. E' noto che gli investimenti pubblici hanno in genere effetti favorevoli sulla crescita potenziale, come gli anni del Miracolo economico - anni di investimenti intensi, hanno dimostrato per l'Europa. Si potrebbe allora immaginare di adottare quella che, nel Regno Unito, chiamano la "regola d' oro" della finanza pubblica. Tale regola prevede che il deficit di bilancio "di funzionamento", ovvero al netto degli investimenti, debba essere nullo nel medio periodo. Occorre notare che questa regola viene proposta da molto tempo dagli economisti. Una regola del genere migliorerebbe la situazione, anche se tale regola può incontrare una seria obiezione: come il Patto di stabilità, anch'essa potrebbe impedire agli stabilizzatori automatici di funzionare. Ne segue che la regola ottimale sarebbe quella di un disavanzo strutturale nullo, al netto degli investimenti. Certo, la definizione di investimento pubblico non è agevole, ma sarebbe compito del Consiglio europeo stabilire cosa faccia parte di questa categoria di spesa. Si può anche immaginare che, attraverso tale mediazione, il Consiglio inviti i governi ad orientare la loro scelta verso le spese che i summit europei hanno indicato come particolarmente utili: reti europee, ricerca e sviluppo, istruzione superiore, nuove tecnologie, ecc. Questo metodo potrebbe contribuire alla nascita di una vera politica europea in settori cruciali per l'avvenire dell'Europa in modo più efficace rispetto a un coordinamento, necessariamente difficile e lungo. La regola in esame vincolerà sufficientemente le politiche di bilancio nazionali per evitare le inquietudini della BCE, offrendo margini di manovra sufficienti ai governi europei per contrastare i rischi della congiuntura e mettere in atto le politiche più convenienti per le società che essi governano. Questa regola dà in effetti a ciascun paese una certa autonomia di scelta in materia di quote di ricchezza prodotta, che ogni società vuole devolvere agli investimenti collettivi. Nulla giustifica, d'altronde, che tale quota sia la stessa in tutti i paesi. Dal lato della definizione comune del concetto di investimento, questa stessa regola offre al Consiglio europeo un effettivo potere d'impulso nei settori, in cui l'Europa intende svilupparsi. Se questa nuova regola non garantisce completamente la stabilità del debito pubblico, essa implica che il suo eventuale accrescimento sia sempre bilanciato da un aumento degli investimenti pubblici. In questo nuovo quadro, diviene possibile per i governi europei della zona euro investire nella crescita di domani, senza temere le ire della Commissione europea. La riformulazione della regola permette, in effetti, di ampliare l'ambito delle scelte. La liberazione della politica di bilancio porterà una boccata di ossigeno: non essendo più sotto la continua pressione di governi vincolati dalle disposizioni restrittive dell'attuale forma del Patto di stabilità e crescita, la BCE potrebbe concentrarsi più attivamente sulla regolamentazione della politica macroeconomica. In più, la crescita del debito pubblico sarebbe associata ad investimenti, che possono garantire un reddito nel futuro, e non avrebbe, dunque, modo di essere giudicata inflazionistica. [..] 6. L'allargamento e la governance della BCE L'allargamento dell'UEM pone il problema, all'apparenza tecnico, della governance della BCE. Attualmente il consiglio della Banca, che é l'organo principale di decisione in materia di politica monetaria, comprende diciotto membri: i sei membri del direttivo e i dodici governatori delle banche centrali nazionali. Ciascun membro del consiglio dispone di un voto per le decisioni concernenti i tassi di interesse. L'allargamento (a dodici paesi) porterebbe a trenta gli effettivi del consiglio. Quest'aumento fa nascere due timori di diversa natura: la difficoltà di pervenire ad una decisione efficiente e rapida a trenta; la possibilità che possa emergere una coalizione maggioritaria composta da piccoli paesi, il cui peso totale non rappresenta che il 20% del PIL europeo. Certi autori sostengono che l'accresciuta complessità del metodo decisionale rischia di favorire lo status quo, cioè un comportamento relativamente inerte delle autorità monetarie in materia di determinazione del tasso di interesse. Una simile critica é già stata mossa alla BCE, sebbene il suo Consiglio comprenda attualmente solo diciotto membri e sebbene sia sufficiente che il direttivo (nella misura in cui i suoi membri siano unanimi) convinca tre governatori per pervenire ad una decisione (essendo decisivo il voto del presidente). Probabilmente tale critica non è, però, fondata. Resta tuttavia vero che l'allargamento del Consiglio della BCE potrebbe portare a una certa paralisi dell'istituzione; il che potrebbe condurre ad una politica monetaria inerte e, dunque, poco adatta alle esigenze di un <<grande paese>>, sottoposto a shock molteplici, com'é l'Europa. Il secondo timore, quello di una coalizione di piccoli paesi, é rafforzato dal fatto che i membri della coalizione rappresentano nazioni, le cui caratteristiche strutturali differiscono dal resto dei paesi europei - un <<resto>> che totalizza l'80% del PIL europeo. Poiché i piccoli paesi hanno in genere tassi di crescita e d'inflazione (strutturale) più elevati, il loro interesse in materia di politica monetaria può divergere da quello degli altri paesi. Se ne deduce che la politica monetaria dell'Europa sarebbe sistematicamente incongrua, nel senso che non converrebbe ai quattro-quinti del PIL europeo. Per evitare l'uno e l'altro di questi inconvenienti, una condizione necessaria sarebbe ridurre il numero dei membri del Consiglio. Ciò presuppone che solo una parte dei governatori delle banche centrali nazionali partecipi al Consiglio. Esistono quattro metodi per giungere ad un simile risultato: [la rotazione, la rappresentanza, la delega, il metodo diretto] Il metodo della rotazione fu preso in considerazione per sovrintendere all' organizzazione della Commissione al vertice di Nizza. Come sottolineano Baldwin ed altri, esso comporta però l'inconveniente che quanto più è ristretto il numero dei governatori con diritto di voto e quanto più è lungo il loro mandato, tanto più lungo sarà il periodo durante il quale gli altri governatori saranno esclusi dal processo decisionale [.]. Si possono però trovare compromessi: aumentare il numero di governatori con diritto di voto e/o accorciare il loro mandato. Per esempio, nell'ipotesi in cui si mantenga il numero attuale di membri effettivi del consiglio (diciotto), dodici governatori su ventiquattro partecipano alle decisioni e il periodo di non-voto non dura più di cinque anni. Mettendoci un po' di buon senso, la soluzione é dunque praticabile e non può essere scartata con superficialità. [.] Il secondo metodo, che è il più comunemente invocato, é quello della rappresentanza. Esso consiste nella costituzione di gruppi regionali, ciascuno dei quali otterrebbe un solo rappresentante al consiglio della Banca. Tale metodo é insoddisfacente per numerose ragioni. [.]. Secondo Baldwin ed altri, i due metodi precedenti comportano una contraddizione interna - i membri del consiglio devono essere scelti per la loro competenza e non in quanto rappresentanti delle nazioni o di gruppi di nazioni che li nominano. Baldwin e altri prevedono, pertanto, che governatori delle banche centrali nazionali abbiano solo un ruolo consultivo e siano rimpiazzati da cinque personalità esterne, scelte dai governi tra i migliori esperti al mondo [.]. Neanche a dirlo una tale proposta, spingendo ancora di più verso una direzione tecnocratica, non mi pare affatto in grado di porre rimedio al problema maggiore della costruzione europea, che é proprio quello di un "deficit di democrazia". [.] L'ultima modalità potrebbe essere denominata come metodo diretto, poiché implica che la politica assuma completamente e direttamente le sue responsabilità. Il Consiglio europeo indicherebbe i membri effettivi del consiglio della Banca e, fermo restando il direttivo di sei membri, sceglierebbe tra i governatori delle banche centrali nazionali il numero richiesto per completare il consiglio, Un tale metodo implica, però, che si modifichi il processo di nomina. Il leitmotiv di questo saggio è che una banca centrale deve essere, allo stesso tempo, credibile e responsabile. E' nostra convinzione che la responsabilità accresca la credibilità; e poiché non abbiamo nessuna sfiducia nei confronti della democrazia, ci sembra che la politica debba giocare un ruolo più rilevante, anche se meglio informato, nella designazione dei membri del consiglio. [.] La quarta soluzione, che è quella a cui va la nostra preferenza appena davanti alla prima (la rotazione), può dunque essere concepita come l'esito di un miglioramento nel processo di selezione dei membri del consiglio della Banca. [.] 7. Conclusioni E' sotto il duplice criterio della democrazia e dell'efficienza che questo saggio ha tentato di valutare le istituzioni europee della politica macroeconomica attualmente in carica. L'istituzione di riferimento per la regolamentazione economica in tale campo é la Banca centrale europea. E' per questo che i suoi statuti e le sue prime azioni ci sono servite da guida. L' oggettività obbliga a sottolineare che la BCE ha condotto, tutto sommato, una buona politica, anche se si può rimproverare ad essa qualche peccatuccio in materia di credibilità e di trasparenza. Perché allora riformare un' istituzione che funziona bene? E' possibile rispondere a tale domanda con un 'altra questione. Cosa sarebbe successo se la politica monetaria fosse stata <<cattiva>> - per esempio nell'ipotesi in cui la BCE avesse interpretato in maniera molto più restrittiva l'obiettivo d'inflazione che essa stessa si é imposto? Certo la crescita sarebbe stata più debole, l'Europa già in recessione, la disoccupazione e i deficit pubblici molto più elevati. Ma a parte ciò, non sarebbe successo niente. La BCE ha statutariamente tutti i mezzi per resistere ad ogni pressione. Accade che oggi sia ben governata, ma cosa ne sarà domani? Non é bene lasciare completamente fuori dal campo della democrazia il potere monetario, anche se la ragione (e l'analisi economica) spingano per concedergli un'autonomia abbastanza grande. Ecco perché appare necessario sottomettere tale potere ad una procedura di responsabilità di fronte ad un'assemblea politica, come da noi proposto. La democrazia ci guadagna, ma ci guadagna pure l'efficienza, perché ciò spingerebbe ad arricchire l'insieme di informazioni, su cui la banca fonda le sue decisioni; il che accrescerebbe, allo stesso tempo, la sua indipendenza e la sua legittimità. Dopo tutto, come ha detto in sostanza uno dei membri del direttivo della banca - Tommaso Padoa-Schioppa, non é bene lasciare la BCE in così grande solitudine. L'obiettivo d'inflazione, fissato dalla Banca, appare troppo ambizioso; il che potrebbe sia conferire un tono troppo restrittivo alla sua politica, sia nuocere alla sua credibilità. E' un segreto di Pulcinella: la ragione, per la quale negli ultimi due anni il tasso d'inflazione é stato significativamente superiore all'obiettivo, é che la BCE si preoccupa di occupazione e di crescita oltre che d'inflazione. Allora perché non dirlo? E ' questa la trasparenza? E' vero che tutti gli esperti di politica monetaria hanno deciso che non fosse conveniente per una banca centrale dichiarare altro obiettivo al di fuori della stabilità dei prezzi. Ma ciò é conveniente per la democrazia; non si rischia, alla lunga, di dimenticare l'obiettivo nascosto? La tesi, secondo cui sarebbe auspicabile che le banche centrali rendessero espliciti anche gli obiettivi di occupazione e di crescita che non possono non avere, é tuttavia talmente eterodossa che é meglio sottacerla. Eppur si muove. La questione dell'allargamento pone un serio problema di governance alla BCE, così serio che lo stesso Consiglio europeo se n'é interessato, esigendo che la Banca e/o la Commissione avanzino proposte di riforma. Il punto d' approdo é noto: se si vogliono evitare stonature, occorre ridurre il numero dei membri del consiglio della Banca. Il problema è: come arrivarci? Le proposte abbondano, ma quelle che sembrano riscuotere la preferenza degli economisti consistono nell'accentuare l'aspetto <<governo degli esperti>> della banca; il che aggraverebbe il deficit democratico dell'Europa. La proposta, contenuta in questo saggio, é - al contrario - di ristabilire la supremazia della politica, mettendo il Consiglio europeo e il consiglio dei governatori di fronte alle proprie responsabilità. Preso alla lettera, il Patto di stabilità implicherebbe che in numerose circostanze i governi siano costretti a condurre una politica economica contraria ai loro progetti e che possano solo raramente mettere in atto il programma, presentato alle elezioni. Non c'é che una soluzione a questa contraddizione: i responsabili nazionali debbono comportarsi come governatori di provincia e rivedere al ribasso le ambizioni dei loro programmi. E' peraltro comprensibile che una tale soluzione non sia accettabile per gli elettori nazionali se non a patto di partecipare, attraverso i canali della democrazia, alla determinazione delle scelte europee. In una democrazia non si può ridurre lo spazio delle scelte, senza alla lunga rimettere in discussione la natura stessa del regime. E' per questo che il Patto di stabilità, nella sua versione attuale, non é credibile e che occorre, non per lassismo ma per fedeltà alla democrazia, modificarne l'interpretazione. La soluzione, qui proposta - escludere gli investimenti dal calcolo del deficit di bilancio -, presenta il doppio vantaggio di restituire "grano da macinare" alla democrazia e di facilitare la coordinazione delle politiche a livello europeo: una duplice restituzione di sovranità! L'attuale situazione è preoccupante perché pone, di fatto, il potere della politica di bilancio (democratico) sotto la tutela del potere monetario (tecnocratico e sovranazionale). Viene così affidata alla BCE una responsabilità troppo pesante (e inedita in rapporto alle altre democrazie del mondo); in verità, una responsabilità tanto pesante da condurre inevitabilmente l'istituzione ad un eccesso di prudenza e da non favorire una politica monetaria ottimale. Non si può dubitare dei sentimenti democratici del consiglio della Banca. E' il sistema che conduce a queste disfunzioni e la sua architettura é stata disegnata dalla politica. [.] Procedendo a riforme pragmatiche e graduali, è urgente pervenire ad un governo in cui le scelte dominano le regole. E' nella democrazia il futuro dell'Europa. Tra mercato e democrazia, l'architettura attuale delle istituzioni europee privilegia il mercato. Si ritiene che il risultante deficit democratico, tanto a livello d'Europa quanto a livello delle nazioni che la compongono, accresca l'efficienza. Quest'ultima affermazione presuppone però l' accettazione di una dottrina economica particolare che, dalle premesse della sua elaborazione nel XVIII° secolo, é sempre stata molto discussa. Soprattutto, tale dottrina é fondata su una gerarchia di valori - il primato dell'economia sulla politica, delle libertà economiche sulle libertà politiche - che, per il meno che si possa dire, é contestabile. <<Il dolce commercio>> non é mai stato sufficiente né a mitigare le relazioni sociali, né ad occupare pienamente lo spazio del politico. Eppure uno degli insegnamenti di questa dottrina - il fatto, cioè, che occorre privilegiare la regola alla scelta nel governo delle società - costituisce la migliore chiave di lettura delle istituzioni europee. Il punto è che, nella teoria pura dell'economia di mercato, l'uso della sovranità conduce ad una minore efficienza economica. Nel luglio 1998, nel corso di una conversazione con colui che ha concepito tale teoria della scelta - Kenneth Arrow, , gli parlai del tema delle mie ricerche in corso: il mercato é compatibile con la democrazia? Non vi è nelle evoluzioni recenti il rischio di una involuzione della democrazia? La sua risposta, anche se a posteriori mi é apparsa ovvia, é stata come sempre illuminante. Il mercato, mi ha detto Arrow, non é in teoria compatibile con nessun regime politico, con nessuna forma di governo: né la democrazia, né l 'oligarchia, né la dittatura. Certo: non s'insegna nella teoria elementare dei mercati perfetti che ogni intervento dello Stato non può che ridurre l' efficienza dell'economia? Conoscevo dunque le risposte per averle io stesso insegnate. Fino alla mia conversazione con Arrow, non ne avevo però mai compreso veramente le implicazioni politiche. Una cosa é ragionare in termini economici, un'altra farlo in termini politici. La divisione dei saperi, l'ipotesi implicita sottesa ad ogni dibattito economico, secondo la quale la democrazia in quanto regime politico é indipendente dalle politiche economiche effettivamente attuate, ci impedisce frequentemente di cogliere le implicazioni di ciò che predichiamo. [.] Le considerazioni fatte possono certamente apparire eccessive alla luce dell 'ostinata volontà politica, che ha sovrinteso alla costruzione europea. Arrivata a metà strada, e in assenza per il momento di un progetto politico coerente, l'Europa appare però come un luogo privo di sovranità, come un governo mediante regole piuttosto che un governo mediante scelte. Il potere monetario é stato affidato ad un'istituzione indipendente - la sola che, nel mondo moderno, non sia veramente vincolata a rendere conto alla democrazia (anche se lo fa, nei fatti) - e il potere delle politiche di bilancio degli Stati é stato accuratamente circoscritto per mezzo di regole. Un tale sistema non ci sembra efficiente rispetto agli stessi criteri economici che ne costituiscono le fondamenta. Troppo rigido, esso non permette di trarre pienamente profitto dalla libera interazione tra gli individui. Il dogmatismo non é mai stato un buon metodo per raggiungere gli obiettivi finali, al quale le società legittimamente aspirano: in primo luogo quello del pieno impiego. I deludenti risultati dell'Europa negli anni Novanta - crescita "molle", disoccupazione di massa - avrebbero almeno dovuto suscitare il dubbio. Fortunatamente la democrazia, al di là della sua desiderabilità intrinseca, permette anche un miglior adattamento alle circostanze, una maggiore flessibilità. Essa procede con scelte esplicite, che il dibattito e la persuasione chiariscono e che hanno per effetto a volte di rimettere in discussione quanto sembra acquisito e a volte di confortarlo. Una certa dose di discrezionalità democratica é indispensabile per affrontare gli imprevisti, che non si lasciano agevolmente ingabbiare da regole prestabilite. In breve, la <<governance>> di uno spazio ha davvero bisogno di sovranità.
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