catilina ha ragione?



da fondazione di vittorio it


Il leader siderale. Un contributo di Catilina 20.3.03

"Non si può ignorare che l'oligarchia e l'autoreferenzialità bloccano, oggi,
il nuovo e trascinante interesse dei cittadini verso la partecipazione."

IL LEADER SIDERALE

Il Re Nudo, oggi, è anche solo. Il dibattito internazionale sulla guerra ha
disvelato i contorni della crisi mondiale della rappresentatività. La
solitudine di Bush, Blair, Aznar, Berlusconi (qui il discorso assumerebbe
altro rilievo) rispetto alle opinioni pubbliche del mondo è un dato di
originale portata storica.
La frattura tra interessi dei governanti e quelli dei governati esiste da
tempo e incide a tal punto le società occidentali da rappresentarne un punto
critico del declino. Un elemento di debolezza sul quale misurare la
resistenza della nostra cultura e della nostra economia di fronte alla sfida
con i "barbari" che premono ai confini: barbari che anche oggi si
configurano come forze arretrate, culture semplificate (più che semplici), e
che pure ambiscono a proporsi come modello alternativo a quello occidentale.
Le leadership di tali Paesi, ormai saldamente congiunte alle autorità
religiose o di esse succubi, prima ancora che sull'enormità dello squilibrio
economico fanno perno su una relazione arcaica tra leader religiosi e masse
diseredate del tutto alieno (ma non immune) dall'esperienza della nostra
democrazia. Una dinamica politica e sociale che mette in affanno le nostre
idee e le nostre coscienze, soprattutto quando taluni gruppi dirigenti
occidentali cercano di misurarsi sullo stesso piano. Questo è uno dei motivi
per il quale la guerra all'Iraq ha suscitato l'impegno di centinaia di
milioni di cittadini del mondo, che hanno superato la diffidenza generata
dalla politica dei potenti. L'ambito è ben più ridotto, ma qualcosa del
genere era già avvenuta in Italia nell'opposizione alla politica
maccatamente volta agli interessi della ristretta élite che fa capo al
presidente del Consiglio.

Entrambe, nelle rispettive misure, sono esperienze che meriterebbero frutti
permanenti capaci di ridare smalto a democrazie fondate sulla coincidenza di
interessi economici e politici delle élite mondiali. Che decidono per tutti
e sfuggono alle responsabilità di tutti.
Il tema della responsabilità, com'è noto, viene ritenuto uno dei cardini di
un sano rapporto di rappresentatività. Il cittadino partecipa se si sente
coinvolto, se avverte come propria responsabilità (come responsabilità che
gli appartiene) l'assenza da una decisione; quando tale assenza viene
percepita come una diserzione civile.
In un secondo momento il cittadino non rinuncia alla delega. A patto, però,
che il delegato sia a sua volta responsabile: sappia riconoscersi, farsi
riconoscere ed essere riconosciuto come titolare della delega e, per questa
capacità, capace anche di decadere, di rinunciarvi in caso di fallimento.
Oggi sembra questo, anche nel campo ristretto della politica italiana, il
nodo che incrina il rapporto tra leadership e opinione pubblica.

Un nodo che si pone prima di altri, quali la complessità delle decisioni, il
ruolo crescente e spesso negativo della comunicazione, il predominio dell'
economia (ovvero dell'accaparramento delle risorse, in senso lato) sulla
politica. Va riconosciuto come il crollo delle ideologie abbia accelerato
alcuni processi, svolgendo un ruolo positivo di affrancamento della società
civile, in termini di responsabilizzazione dei soggetti individuali capaci
di scelta (non più singoli-massa identificati da ideologie e azioni comuni).
Eppure questo passaggio da massa a moltitudine contiene in sé anche i rischi
di un'alienazione dalla civiltà politica che vale la pena di contrastare. L'
arretramento in atto nell'Islam manifesta invece una saldatura tra un
preconcetto religioso (da sempre presente) e uno ideologico "all'
occidentale": la carica di appiattimento dei comportamenti e di
schiavizzazione delle coscienze individuali che ne deriva impone una decisa
e forte volontà di contrasto.
Ciononostante resta in essere l'apparente paradosso che vede il suddito
arabo sentirsi più partecipe, più dentro alla propria storia, pur contando
poco o nulla in termini economici e civili, rispetto al cittadino
occidentale. Il confronto con il grado di disinteresse civile e politico
nelle più avanzate democrazie occidentali, da parte della low-class e di
ampi strati della middle-consumers-class, fa venire alla luce la sideralità
del potere attuale; la maggiore lontananza di certi dei del ceto
economico-politico rispetto a quella di una divinità sovrannaturale. E si
potrebbe persino dire dell'incredibile preminenza di risultati attesi
attraverso la preghiera su quelli riposti in un voto politico. La
maggioranza degli occidentali, fino all'esperienza del rifiuto della guerra,
declinava (e nel futuro potrebbe tornare a declinare) dalla partecipazione.
Nonostante conti su diritti sociali ed economici. Un silenzio che non è mai
o quasi mai assenso, quanto piuttosto assenza dalla capacità di contare.
Vuoto, rinuncia, fuga nell'irrealtà e nell'irrazionale.

Non perdere il contatto con i cittadini, per la sinistra, è elemento
fondante. Non ci si può rifugiare nel rapporto populistico, tipico di talune
esperienze di destra: non potrebbe bastare, alla sinistra, recuperare questo
simulacro di partecipazione vissuto magari, come in Italia e non solo in
Italia, attraverso l'appartenenza a una comunità televisiva. La sinistra ha
inscritto nei suoi geni il valore della socialità, della democrazia e della
necessità di forme rappresentative concrete.
Perché poi si possa passare alla fase della delega - nel mondo privo di
ideologie e che si vuole separato da istanze religiose -, è ancora più
indispensabile l'esistenza di una classe dirigente responsabile e
riconoscibile; di delegati che sappiano mantenere ampi e frequenti contatti
con i deleganti, e che sappiano rinunciare al potere in caso di fallimento.
Purtroppo oggi, nell'Italia che si considera di sinistra, continua a
sopravvivere una classe dirigente che ha perduto anzitutto coscienza di
esserlo. Come se il potere fosse diventato l'unico tratto dirimente della
battaglia politica, e la sua perdita richiedesse solo una totale dedizione
alla riconquista. Al cittadino di sinistra, persino militante, tale
riconquista personale non appartiene, non interessa. Almeno come valore in
sé. Non può, la battaglia per la ricerca del potere perduto, diventare il
tratto caratteristico di una partecipazione civile. L'elaborazione di
sofisticate strategie di riconquista (per quanto possa sembrare paradossale,
perché l'esercizio della funzione politica mira pur sempre a esso) non
scalda gli animi e non muove le coscienze. Tutt'altro: distacca e
disaffeziona.
Una classe politica che si regga sul potere oligarchico e autoreferenziale
all'interno di un partito, e che si motiva semplicemente per la riconquista
del potere pubblico, è una classe politica votata al tramonto definitivo di
se stessa e del proprio partito. Alla perdita permanente ed endemica di
contatti e legami saldi nel blocco sociale che vorrebbe rappresentare (ma
chi parla più di blocco sociale, se non per il berlusconismo?). Non appare
più sufficiente che la permanenza nel dominio di una struttura venga
mantenuta secondo metodi formalmente democratici: una foglia di fico che non
copre più la vergogna di vecchie pratiche di controllo ed è semmai semplice
testimonianza di malintenzionata capacità organizzativa. Non certo di reale
consenso.
Non si può ignorare che l'oligarchia e l'autoreferenzialità bloccano, oggi,
il nuovo e trascinante interesse dei cittadini verso la partecipazione. Un
interesse che non si sarebbe risvegliato di fronte a nessuna battaglia
politica e parlamentare: e non per l'inevitabile ingessamento in forme e
toni rituali di mediazione, quanto piuttosto per il fine che sarebbe
trapelato da esse. Un fine lontano, avulso, sterile. Quando il Re capisce di
essere nudo, e solo, esce di scena. Quando ha perduto anche la dignità della
comprensione generale, occorre accompagnarlo all'uscita.

Catilina