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bioetica: golpisti in laboratorio
- Subject: bioetica: golpisti in laboratorio
 - From: "Andrea Agostini" <lonanoda at tin.it>
 - Date: Wed, 26 Mar 2003 22:34:45 +0100
 
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  da caffeuropa.it marzo 2003 
 Enzensberger accusa: 
Golpisti in laboratorio Hans Magnus Enzensberger 
con Giancarlo Bosetti Venerdì 7 marzo alle ore 17.00, a Roma, in via 
Savoia 15 la rivista "Reset" e il Goethe Institut hanno organizzato un incontro 
sul tema "L'umanità di fronte alle promesse della biotecnologia. Le scelte della 
scienza e della società tra speranze, utopie e rischi ", con Giuliano Amato, 
Edoardo Boncinelli, il cardinale Karl Lehmann, coordinato da Giancarlo 
Bosetti. 
Oltranzisti della biogenetica, "golpisti" in 
laboratorio, utopisti a buon mercato, Hans Magnus Enzensberger ha deciso di 
darvi battaglia. Dice che promettete paradisi in terra che nessuna tecnologia 
ovviamente è in grado di realizzare e che le vostre promesse servono ad alzare 
le quotazioni di qualche società in borsa. "Certe scienze giovani sono troppo 
euforiche e pericolose per essere lasciate agli scienziati". Accuse forti che lo 
scrittore tedesco è venuto a Roma a sostenere in un dibattito e che metterà in 
un libro Gli elisir della scienza, che fa il verso agli Elisir del diavolo di 
Ernst Hoffmanm (storia di follie, magie e telepatie). "Sono temi - spiega - che 
la politica fatica a cogliere perché si aggiungono a tanti altri che non 
dividono più chiaramente destra e sinistra. Dividono forse europei e americani, 
con i secondi dominati dal loro storico ottimismo". Ma questo è un altro 
discorso, che ci porterebbe a parlare di guerra, cosa che il nostro autore non 
vuole fare, per ora.  
Enzensberger, è nota ovunque la sua fecondità di 
scrittore e poeta. Ma anche nella saggistica la sua attività di "poligrafo", 
dalle emigrazioni al lusso, dalla matematica alle questioni di stile, lascia 
senza fiato. Ora è qui a Roma per una discussione sulle biotecnologie. Lei 
interpreta il "mestiere" dell'intellettuale in maniera davvero molto 
varia. 
Non concepisco la riduzione umanistica della 
cultura a scienza dello spirito, come fanno i letterati che tradizionalmente 
trascurano le scienze e la matematica, dove troviamo temi che hanno un grande 
fascino. Veramente non capisco quelli che dicono: "Sono negato per le scienze, 
per la tecnica, per la biologia… ". Ma che senso ha? No, prendiamo esempio dagli 
enciclopedisti, dagli illuministi: non si erano "ridotti" in questo modo, 
studiavano e scrivevano in tutte le direzioni.  
Lei difende quindi la funzione, il diritto di 
"pensare generale"? 
Certo. Lo specialismo è un'altra cosa. So che il 
campo di osservazione specialistico deve essere ristretto e che se si allarga lo 
sguardo sull'orizzonte si paga un prezzo. Il pensare generale ha un limite: 
quando io parlo di biologia o di matematica, arrivo solo fino a un certo punto. 
Dico sempre che è già molto quando riesco a capire un problema matematico, ma 
non chiedetemi di più: la risposta la diano i matematici! Questa sua difesa di 
un "pensare generale" definisce già qualche cosa, definisce almeno quello che 
lei certamente non è: un postmodernista. 
Di sicuro. Il postmodernismo alla Baudrillard come 
tanta parte del pensiero francese conduce a un relativismo filosofico che è alla 
fine un enorme non-sense.  
Ma c'è anche qualcosa di più: lei è impegnato in 
una polemica molto esplicita e aggressiva nei confronti degli 
"scienziati-sciamani", che vendono "elisir". 
C'è in loro sia l'aspetto economico della cosa sia 
una certa megalomania. Il fenomeno si è prodotto dopo il crollo delle utopie 
politiche, come il comunismo, che avevano in un certo senso assorbito tutti i 
desideri millenari dell'umanità: giustizia, uguaglianza, creazione di un mondo 
nuovo, di un uomo nuovo, il socialismo. La politica non offre più niente del 
genere, mentre l'idea che il capitalismo sia la soluzione di tutti i problemi 
sembra convincere ben pochi. Ed ecco che di fronte a questo blocco 
dell'immaginazione utopistica, la scienza si offre come alternativa, capace di 
risolvere i problemi, soprattutto una parte della scienza: la biologia, le 
biotecnologie, la scienza dei computer, l'intelligenza artificiale. Hanno 
soluzioni per tutto: eliminazione di malattie, longevità, magari anche 
l'immortalità. Le nanotecnologie promettono anche di risolvere tutti i problemi 
ecologici. I più radicali teorizzano: l'uomo, forma più alta dell'evoluzione, 
può compiere un passo avanti oltre la comune umanità, i cyborgs, una fase 
ulteriore dell'autoperfezionamento.  
Aspirazioni, desideri, fantasie. Ci sono sempre 
stati.  
Ci sono sempre stati nella letteratura, e nella 
religione: l'uomo nuovo è sempre migliore dell'uomo vecchio. Ma ora c'è una 
bizzarra svolta del pensiero utopico: i nostri reconditi desideri sono stati 
trasposti sul terreno della scienza, che tradizionalmente è stato quello più 
razionale, più sobrio, più metodico.  
Ma non possiamo confondere la vera cultura 
scientifica con le promesse dei raeliani, con fantasie estemporanee, con 
imbroglioni vari. 
Ma, vede, ora non si tratta solo di ciarlatani. Una 
fantasia di onnipotenza si è infiltrata nella comunità scientifica, dove certo 
ci sono molti contrasti, critiche e autocritiche, ma solo a un certo livello. Ci 
sono molti scienziati e biologi seri, non c'è dubbio, e non li metto tutti in un 
fascio, non li confondo con Severino Antinori o con i Raeliani. Ma c'è un altro 
fattore che spinge la comunità scientifica nella direzione delle utopie facili 
ed è un legame molto più serrato che nell'Ottocento e nella prima parte del 
Novecento tra i grandi capitali dell'industria e la scienza. Il finanziamento 
per la ricerca pura è stato in passato assicurato dalle università o dallo 
Stato, da istituzioni in un certo modo indipendenti dal capitale: il Max Planck 
Institut in Germania, l'Institute for Advanced Study di Princeton. Oggi la 
stessa distanza tra ricerca pura e ricerca applicata si è estremamente ridotta, 
anche a causa dei costi molto più alti. Lo scienziato dipende dagli investimenti 
e il capitale esige un prodotto, o almeno la promessa di un prodotto. E le 
promesse, implicite o esplicite, arrivano. E sono sospette.  
Nelle costituzioni, o in molte di esse, c'è un 
articolo che garantisce la libertà della ricerca, e questo naturalmente si può 
considerare una passe-par-tout. Ma ci sono anche altre cose, per esempio sulla 
dignità della persona umana, come nel primo articolo della Costituzione tedesca. 
Così come c'è la libertà di espressione artistica. Ma se mi arrogo il diritto di 
uccidere nel nome di Thomas De Quincey e del suo "L'assassinio come arte", 
qualche tribunale avanzerà delle obiezioni. Da non dimenticare poi che le regole 
interne della comunità scientifica non c'entrano con la democrazia, non ci sono 
votazioni: Galilei non aveva "la maggioranza" dei contemporanei. Gli scienziati 
non sono socializzati in un modo che corrisponda alla democrazia; il che spiega 
perché si arrabbiano quando dei non-scienziati intervengono dicendo cosa secondo 
loro va bene o no. La loro reazione tipica è: "Questo non sa di cosa parla, noi 
solo siamo in grado di esprimere un giudizio". È la mentalità della loro 
corporazione.  
Ma non rischiamo di metterci dalla parte del 
cardinale Bellarmino, l'accusatore del Santo Uffizio? Anche Bellarmino aveva le 
sue ragioni… 
Sì, aveva le sue ragioni, ma erano quelle della 
Chiesa, non di un potere democratico. In un sistema politico come il nostro ci 
sono Parlamenti, governi, leggi e un metodo che deve essere rispettato. In 
Germania da cinque anni c'è un enorme dibattito sulla cellule staminali e 
sull'uso degli embrioni, e ci sono ricercatori importanti, non ciarlatani né 
pazzi, che hanno detto che di fronte a un no, si sarebbero trasferiti in altri 
paesi dove questo tipo di ricerca fosse possibile.  
E lei non lo accetta? 
No. È un atteggiamento paragonabile a quello di chi 
lascia un paese per un altro per praticare una attività illegale: droga, 
riciclaggio di denaro sporco, commercio delle armi. È politicamente 
inaccettabile, è scandaloso soprattutto se viene da un alto professore 
dell'università di Bonn. È un ricatto: la scienza si sta spingendo al limite 
della legalità.  
Allora per la scienza dobbiamo dire il guaio è la 
privatizzazione? 
La privatizzazione della scienza si può spiegare 
così: il livello dell'università scende e la ricerca si sposta nell'industria 
privata. È un grande rischio per gli stessi scienziati, perché si troveranno in 
una situazione di dipendenza. I fisici hanno già avuto nel Novecento il loro 
peccato originale con la bomba atomica: questo li ha spinti a una riflessione, 
hanno capito che erano finiti in una situazione moralmente insostenibile. Le 
armi atomiche sono oggi a disposizione del Pakistan, della Corea del Nord, 
dell'India e tanti altri. Non è per caso che i grandi fisici di oggi non 
facciano bombe, ma cosmologia, astrofisica. I fisici si sono battuti in prima 
persona per l'accordo di non proliferazione. C'è stata almeno una reazione 
politica, un cambio di mentalità, anche se forse troppo tardi.  
Lei vorrebbe che i biologi molecolari ci pensassero 
prima che sia troppo tardi. 
La biologia è una scienza più giovane e meno 
matura. E ha sviluppato un complesso di onnipotenza. È una giovinezza 
individuale e istituzionale. C'è una specie di ebbrezza, che poi si riduce man 
mano anche per motivi strettamente scientifici, perché ci sono anche rischi 
inerenti ai progetti, è probabile che la decifrazione del codice genetico non 
funzioni, che il rapporto tra informazioni genetiche e aspetti fisici, funzioni, 
malattie non sia così lineare come sembrava all'inizio. Ma dall'altra parte ci 
sono i fanatici, i golpisti, incurabili. Ma il corporativismo degli scienziati 
ostacola la critica. Quando si tratta di semplici calcoli la critica avviene e 
funziona: così la fusione a freddo è stata rapidamente liquidata come una 
fantasia. Ma quando si tratta di questioni che non sono calcolabili, di 
questioni di coscienza, gli scienziati esitano a fare distinzioni, a dire che 
qualcosa non va bene, che la promessa fatta oltrepassa i limiti della scienza. 
 
Ci sono molte forze che dicono dei no, a cominciare 
dalla Chiesa, sulle cellule staminali per esempio. 
La Chiesa dice dei no, ma il valore dei suoi no è 
compromesso da tanti altri suoi insegnamenti che la popolazione non condivide, 
da tanti altri no: sulla contraccezione, sull'aborto… 
La politica può fare molte cose, non 
crede? 
Sì, certo anche se tende a cavarsela creando delle 
commissioni, dove c'è bisogno, si capisce, dello specialista, del filosofo, del 
teologo. Ma spesso la politica usa queste commissioni per delegare la questione, 
per lavarsene le mani. Molto, moltissimo possono fare i mezzi di comunicazione. 
In Germania il dibattito molto intenso è stato scatenato da una persona, Frank 
Shirrmacher, un intellettuale che guida le pagine culturali della Frankfurter 
Allgemeine Zeitung. Ha pubblicato la sequenza del genoma su quattro pagine. E 
poi ha obbligato tutti i politici a pronunciarsi.  
In Germania c'è il precedente nazista che infama la 
biogenetica. Non ne saremo per sempre condizionati? 
Naturalmente questo è un fattore molto forte, 
specialmente in tutti i dibattiti sull'eutanasia. È un tema molto sensibile in 
Germania, ma non dobbiamo esagerare: i problemi di oggi non sono gli stessi 
degli anni Trenta. Bisogna distinguere. Io non ce l'ho con tutti gli scienziati 
ma con i "golpisti in laboratorio". Penso che la scienza debba essere protetta 
nei confronti di una parte della comunità scientifica che è andata oltre i 
limiti, e non solo in senso morale. Voglio difendere il progetto scientifico 
contro questi "oltranzisti" che fanno promesse che non si possono mantenere: 
guardate la morte precoce di Dolly: gli effetti della clonazione non sono 
conosciuti. E pensiamo ai pazienti morti nei tentativi di terapia genetica. 
 
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