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capitalismo nazionale e competitivita'
- Subject: capitalismo nazionale e competitivita'
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 28 Feb 2003 06:43:33 +0100
dal corriere.it 25 - 2 - 2003 Il capitalismo nazionale e la crisi di competitività IL RILANCIO CHE NON C’E’ (ANCORA) di FABRIZIO ONIDA «Il serbatoio di imprenditorialità dell’Italia è il nostro antidoto alla crisi (...). L’Italia non è in declino imprenditoriale ma soffre di una grave crisi di competitività (...). Gli imprenditori non devono avere paura di diventare grandi, evitando di sacrificare la crescita dell’impresa all’esigenza di mantenerne il controllo a tutti i costi». Questi passaggi salienti dell’intervista rilasciata da Antonio D’Amato al Sole-24 Ore del 20 febbraio, sotto il titolo «È finito il capitalismo protetto», sono pienamente condivisibili, anche se stimolano almeno un paio di osservazioni. Molti Paesi invidiano il nostro «serbatoio di imprenditorialità», dalle microaziende artigianali alla fitta rete di piccole e medio-grandi imprese che trova proprio nel retroterra di origine artigianale una possibilità di approvvigionamento esterno di componenti a costo contenuto e qualità elevata. In tal modo l’Italia ha conquistato e mantiene ancora oggi un primato di vantaggi competitivi. Ciò si verifica non solo in nicchie di eccellenza di settori «maturi» (moda, casa-arredo, gioielleria) dove creatività, stile e design fanno premio su standardizzazione e prezzo, ma anche in numerosi comparti di meccanica specializzata. In questi settori l’offerta italiana possiede una straordinaria capacità di fornire alle aziende trasformatrici a valle della catena produttiva soluzioni innovative, flessibili, rapide, adattate alle diverse e mutevoli esigenze dell’utente. Tutto bene? Sì. Peccato solo, però, che queste straordinarie energie imprenditoriali riescano difficilmente a dispiegarsi in settori meno maturi, a crescita tendenzialmente più rapida della domanda mondiale e con forti economie di scala e organizzazioni aziendali complesse. Parliamo di campi come l’informatica, le telecomunicazioni, la chimica fine e quella farmaceutica, i mezzi di trasporto. Settori dove molte volte in passato pezzi significativi della nostra industria pronti a passare di mano - in seguito a cessioni da parte delle Partecipazioni Statali, ma anche per il fallimento della gestione privata precedente - non hanno affatto trovato capitalisti e capitani coraggiosi italiani in grado di raccogliere il testimone, mentre hanno richiamato investitori di altri Paesi. Il tutto con esiti non sempre favorevoli al mantenimento e allo sviluppo in Italia delle attività più nobili e alle strategie di penetrazione dei mercati altrui: tanto per non fare nomi, si pensi allo smembramento di Montedison, Enichem, Breda, Olivetti, nonché alle cessioni di Italtel, Telettra, Nuovo Pignone, Snia, Fibre, Farmitalia, Elsag, Marconi. Quanto all’azienda familiare che ha paura di crescere per non mettere a rischio il controllo da parte degli azionisti, i tempi sono sempre più stretti. La necessità di ricambio è ormai pressante su molte aziende di seconda, terza generazione e oltre. Da noi fa ancora fatica ad affermarsi la saggezza pragmatica americana, secondo la quale ai figli e nipoti dell’imprenditore va assicurato un patrimonio finanziario da gestire come meglio credono, ma in nessun modo il diritto alla successione manageriale (vi fareste operare da qualcuno solo perché è figlio di un famoso chirurgo?). C’è anche da dire che in diversi casi importanti aziende italiane (pubbliche e private) sono andate in crisi irreversibile a causa di un’ambiziosa e imprudente politica di crescita e diversificazione, ignorando un altro importante insegnamento della storia industriale per cui «le aziende che in media hanno più successo sono quelle che fanno bene un solo mestiere al mondo» (da un’intervista di Paolo Scaroni, neopresidente Enel sul Corriere della Sera del 20 dicembre scorso). Ma certamente il «nanismo» di nicchia, pur capace di assicurare una buona redditività all’imprenditore familiare nel breve periodo, tende a sacrificare la continua ricerca di crescita nel medio periodo, obiettivo che è invece prioritario dove la gestione manageriale dell’impresa è sottoposta allo scrutinio severo di un azionariato slegato dagli interessi di una sola famiglia. Le statistiche ci dicono che la crescita dimensionale dell’azienda comporta aumento di produttività della forza lavoro e insieme di occupazione qualificata. Entrambi sono ingredienti di una competitività che non mira solo al risparmio di costi e alla difesa dai nuovi concorrenti a basso salario. I distretti industriali di maggior successo sono caratterizzati dalla presenza di una o (meglio) più imprese leader, con forte proiezione multinazionale, rapporti di fornitura molto al di là dell’originario distretto territoriale (inclusa la delocalizzazione in Paesi vicini di alcune fasi di lavorazione a basso costo), politiche di marchio e comunicazione, crescenti investimenti in reti distributive e di assistenza diretta alla clientela sui principali mercati. Spesso «il potere è ai distributori» e di ciò hanno cominciato a far tesoro le principali aziende nei più diversi settori del made in Italy , investendo assai più che in passato proprio nelle fasi a valle del processo manifatturiero. Giustamente D’Amato ricorda che «fuori dal salotto il mondo sta cambiando rapidamente». Il rilancio del capitalismo italiano, dopo l’affievolirsi dell’ultimo decennio, ha ancora molta strada da percorrere. Fabrizio Onida
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