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lavoro: flessibile e funamboli
- Subject: lavoro: flessibile e funamboli
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 19 Feb 2003 10:30:23 +0100
il manifesto - 07 Febbraio 2003 Più che flessibili, funamboli I diritti sociali strutturati in quattro cerchi concentrici, mentre il rapporto di lavoro è da considerare un «nudo contratto» dove la condizione lavorativa è data dalla sua definizione giuridica ed è spogliata della sua caratteristica principale, essere cioè espressione di diritti collettivi affermati dalle lotte operaie. Pubblicato finalmente in Italia da Carocci il rapporto dell'Unione europea sul «futuro del lavoro» coordinato dal giurista francese Alain Supiot MAURIZIO RICCIARDI Nell'eccitazione che ha accompagnato il passaggio da un millennio all'altro, molti hanno narrato la fine della società del lavoro. In questi racconti, le trasformazioni del fordismo sembravano annunciare immediatamente la liberazione di una pluralità di spazi, l'apertura quasi automatica di un insieme di possibilità di liberare il tempo dal disciplinamento oppressivo della società strutturata come una fabbrica, lo scatenarsi di forze cooperative che nella socializzazione di uomini e donne mostrava immediatamente una diversa possibilità di organizzare la vita quotidiana, la produzione e la riproduzione sociali. Diversamente da questo fiducioso modo di guardare alla ristrutturazione del capitalismo il rapporto su Trasformazioni del lavoro e il futuro della regolazione del lavoro in Europa, elaborato sotto la guida del giurista francese Alain Supiot e presentato per la prima volta a Madrid nel 1998, riconosce invece apertamente la continuità tra la soggezione economica del lavoratore subordinato e quella che caratterizza i nuovi lavori atipici. Questo rapporto esce ora in edizione italiana a cura di Paolo Barbieri ed Enzo Mingione, con il titolo Il futuro del lavoro (Carocci, ? 17). Il volume è percorso dalla preoccupazione di arrestare la «fuga dal diritto del lavoro», cioè di invertire il movimento che sottrae progressivamente le modalità di erogazione della forza lavoro alla regolazione del diritto del lavoro. Subordinati o parasubordinati, i lavoratori contemporanei si trovano infatti sempre più impiegati in forza di forme contrattuali che tendono al «contratto nudo», cioè al mero scambio di forza lavoro e corrispettivo monetario. Sempre più il contratto di lavoro non garantisce una sfera di diritti stabilita collettivamente, ma semplicemente la modalità di consumo di quella singola forza lavoro. Il libro descrive puntigliosamente le innovazioni più rilevanti nei modi in cui la forza lavoro è costretta a vendersi sul mercato, non mancando di sottolineare la ricerca di libertà dal comando personale del capitalista che molte volte sta dietro alla scelta di presentarsi sul mercato come imprenditori della propria capacità lavorativa. Il futuro del lavoro è, in primo luogo, di una ricerca interdisciplinare, condotta da giuristi del lavoro, economisti e sociologici, che individua alcune linee di sviluppo del rapporto tra capitale e lavoro nell'Europa comunitaria, esprimendo allo stesso tempo alcuni orientamenti per rispondere alle trasformazioni intervenute. In francese, il titolo del volume suona Au-delà de l'emploi, che potrebbe essere tradotto con «al di là dell'impiego», dove l'impiego è il lavoro retribuito sul mercato, secondo le regole di quest'ultimo. L'intenzione fondamentale del rapporto è però di indicare una strada per tessera una rete di protezione alla generica attività umana, intendendo il lavoro come qualcosa di più vasto e comprensivo di ciò di cui il capitale si appropria. L'«assicurazione» di questa sfera complessiva dell'operare umano sarebbe già germinalmente presente nel diritto positivo, al cui interno i diritti sociali si disporrebbero in «quattro cerchi concentrici». Il primo cerchio comprende i diritti universali, ossia indipendenti dal lavoro, come l'assicurazione in caso di malattia; il secondo i diritti fondati sul lavoro non professionale, com'è appunto il lavoro di cura; il terzo il diritto comune dell'attività professionale, cioè quello relativo all'igiene e alla sicurezza nel diritto comunitario; il quarto cerchio, infine, comprende il diritto proprio del lavoro salariato, contenente unicamente le disposizioni legate alla subordinazione; esso dovrebbe permettere una graduazione dei diritti in funzione dell'intensità della subordinazione. È evidente che proprio il carattere concentrico di questa disposizione fa sì che al lavoro subordinato - in tutte le sue manifestazioni - spetti una porzione, per così dire, minore di diritti, quasi esclusivamente come riconoscimento del carattere subordinato della sua condizione. Non vi è cioè un'idea di diritto sociale che a partire dalla condizione lavorativa investe tutti gli ambiti della vita sociale. Al contrario, i diritti sociali del lavoratore subordinato e/o parasubordinato riconoscono il carattere coattivamente manchevole della sua condizione rispetto al vero soggetto universale del diritto, ovvero rispetto alla persona astratta indifferente a ogni determinazione. Come abbiamo detto, l'edizione italiana ripiega su un titolo più sobrio, ma forse più adeguato, Il futuro del lavoro. In questa variazione del titolo si esprime la tensione che attraversa i diversi interventi; una tensione determinata dall'evidente consapevolezza che oltre la fine del «posto fisso» e la presenza di attività di cura, di autoformazione, di volontariato, rimane ineliminabile il problema del lavoro come luogo politico di costituzione della subordinazione individuale e collettiva. Nella cognizione di questa condizione, il senso di tutta la ricerca è quindi la necessità di ristabilire un nesso tra lavoro e diritti. E qui probabilmente risiede un problema, poiché quel nesso non si rivela oggi inesistente solo per il lavoro atipico e, più o meno apparentemente, indipendente, ma è messo sempre più in discussione anche per quella sezione della forza lavoro - quella che ha il suo prototipo nell'operaio fordista: maschio, bianco, impiegato a vita e unico procacciatore e titolare del reddito familiare - che sia nel rapporto Supiot sia in una certa vulgata politico-sociologica presente anche nella discussione italiana viene assunta come il passato storico e il presente garantito del lavoro. Vale invece la pena ricordare che l'operaio fordista ha conquistato i suoi diritti dopo una lunga stagione di lotte; inoltre, essi non sono mai stati una parte costitutiva dell'organizzazione fordista del lavoro. In Italia, per esempio, si è giunti ad affermarli pienamente solo alla fine degli anni Sessanta, e già all'inizio del decennio successivo è iniziato l'attacco capitalistico che mirava a svuotarli prima nei termini materiali della ristrutturazione del salario e delle prestazioni sociali garantite, poi come trasformazione del quadro giuridico in cui erano inseriti. Viene dunque da chiedersi se il diritto del lavoro possa davvero immaginare forme di garanzia per i «nuovi lavori», senza registrare che sempre più a livello comunitario, e non solo, quella che sta affermandosi, proprio attraverso la politica dei diritti fondamentali, è una sostanziale indifferenza nei confronti della prestazione lavorativa. Un'indifferenza che è il contrario della valorizzazione delle individualità presenti, ma piuttosto la loro omogeneizzazione e neutralizzazione nel concetto giuridico di persona. Accade quindi che l'apparentemente mite «principio generale dell'adeguamento del lavoro all'essere umano», che il rapporto assume come centrale, può essere piegato a una doppia interpretazione. Infatti può funzionare come criterio per sfrondare il lavoro dei suoi caratteri terribili, ma può anche essere utilizzato per mettere al lavoro l'intera società, ovvero ogni caratteristica fisica, psicologica e comunicativa dello stesso essere umano. In fondo questo è il progetto di «nuova società» che sta alla base del Libro verde dell'Unione europea su Partenariato per una nuova organizzazione del lavoro del 1997, così come del Libro bianco del Ministro del Welfare Maroni con il suo insistere sull'indispensabile costruzione di una «società attiva» come «necessario contesto per lo sviluppo delle risorse umane». Esemplare è in questo senso la sezione dedicata alla crescente presenza delle donne nei luoghi di lavoro. Come viene apertamente viene riconosciuto, essa non ha rappresentato una femminilizzazione del lavoro solo nel senso dell'irrompere della differenza sessuale e della destrutturazione del patriarcato nei luoghi di lavoro, ma anche, e forse soprattutto, della compresenza di lavoro pagato e non pagato, com'è da sempre il lavoro riproduttivo. Il rapporto Supiot, pur registrando con precisione ciò che accade, non va però molto oltre la proposta di una politica del diritto delle pari opportunità - cioè dell'indifferenza sessuale dei corpi messi al lavoro - così come essa è ampiamente praticata dall'Unione europea. «Il principio di parità di trattamento tra uomini e donne» si dovrebbe così applicare «indistintamente» ai quattro cerchi di diritti sociali precedentemente indicati. Veniamo così a quello che sembra essere il vero problema che la stessa impostazione del rapporto lascia aperto. Concepito nell'epoca del predominio socialdemocratico sull'Unione europea, esso mostra oggi non poche difficoltà di fronte alla realtà politica di molti dei paesi che la compongono. Basti pensare che la stessa assicurazione contro le malattie, che dovrebbe rientrare nel cerchio più ampio dei diritti sociali fondamentali, è sempre più oggetto della logica del mercato. Oppure al caso per molti versi paradigmatico del lavoro migrante che, come lo stesso rapporto Supiot riconosce, rischia di non trovare alcun riconoscimento in termini di diritti civili e sociali degli stati dell'Unione europea, dal momento che essi sono fondati più sulla cittadinanza che sul lavoro. Anche dove esso appare in sintonia con le linee guida della burocrazia comunitaria, il rapporto si trova esposto a un'estensione delle sue formulazioni che va probabilmente al di là delle intenzioni degli specialisti che l'hanno redatto. Ma più in profondità ciò che appare discutibile e altamente problematico è l'identificazione delle figure lavorative esclusivamente sulla base del profilo giuridico che le definisce. Il lavoro atipico altamente flessibile non ha sostituito le forme dello sfruttamento della forza lavoro fordista, ma si è piuttosto affiancato a esse, spesso coincidendo nello stesso luogo. Succede così che il lavoratore interinale si trovi fianco a fianco con chi, nella sua veste di lavoratore assunto teoricamente a tempo indeterminato, subisce come lui l'intensificazione dei ritmi, lo straordinario e la minaccia della delocalizzazione degli impianti. Viene così da chiedersi se la qualità del lavoro sociale contemporaneo debba necessariamente esprimersi attraverso il diritto e nella grammatica dei diritti differenziati. O se piuttosto ogni strategia di liberazione dalla coazione del lavoro salariato sia possibile solamente sul piano dell'operaio complessivo, ovvero come movimento di massa che raccoglie e unifica una moltitudine varia di moltepliciindividualità.
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