lavoro: flessibile e funamboli



     
    
 
il manifesto - 07 Febbraio 2003 
 
Più che flessibili, funamboli 
I diritti sociali strutturati in quattro cerchi concentrici, mentre il
rapporto di lavoro è da considerare un «nudo contratto» dove la condizione
lavorativa è data dalla sua definizione giuridica ed è spogliata della sua
caratteristica principale, essere cioè espressione di diritti collettivi
affermati dalle lotte operaie. Pubblicato finalmente in Italia da Carocci
il rapporto dell'Unione europea sul «futuro del lavoro» coordinato dal
giurista francese Alain Supiot
MAURIZIO RICCIARDI
Nell'eccitazione che ha accompagnato il passaggio da un millennio
all'altro, molti hanno narrato la fine della società del lavoro. In questi
racconti, le trasformazioni del fordismo sembravano annunciare
immediatamente la liberazione di una pluralità di spazi, l'apertura quasi
automatica di un insieme di possibilità di liberare il tempo dal
disciplinamento oppressivo della società strutturata come una fabbrica, lo
scatenarsi di forze cooperative che nella socializzazione di uomini e donne
mostrava immediatamente una diversa possibilità di organizzare la vita
quotidiana, la produzione e la riproduzione sociali. Diversamente da questo
fiducioso modo di guardare alla ristrutturazione del capitalismo il
rapporto su Trasformazioni del lavoro e il futuro della regolazione del
lavoro in Europa, elaborato sotto la guida del giurista francese Alain
Supiot e presentato per la prima volta a Madrid nel 1998, riconosce invece
apertamente la continuità tra la soggezione economica del lavoratore
subordinato e quella che caratterizza i nuovi lavori atipici. Questo
rapporto esce ora in edizione italiana a cura di Paolo Barbieri ed Enzo
Mingione, con il titolo Il futuro del lavoro (Carocci, ? 17). Il volume è
percorso dalla preoccupazione di arrestare la «fuga dal diritto del
lavoro», cioè di invertire il movimento che sottrae progressivamente le
modalità di erogazione della forza lavoro alla regolazione del diritto del
lavoro. Subordinati o parasubordinati, i lavoratori contemporanei si
trovano infatti sempre più impiegati in forza di forme contrattuali che
tendono al «contratto nudo», cioè al mero scambio di forza lavoro e
corrispettivo monetario. Sempre più il contratto di lavoro non garantisce
una sfera di diritti stabilita collettivamente, ma semplicemente la
modalità di consumo di quella singola forza lavoro.

Il libro descrive puntigliosamente le innovazioni più rilevanti nei modi in
cui la forza lavoro è costretta a vendersi sul mercato, non mancando di
sottolineare la ricerca di libertà dal comando personale del capitalista
che molte volte sta dietro alla scelta di presentarsi sul mercato come
imprenditori della propria capacità lavorativa.

Il futuro del lavoro è, in primo luogo, di una ricerca interdisciplinare,
condotta da giuristi del lavoro, economisti e sociologici, che individua
alcune linee di sviluppo del rapporto tra capitale e lavoro nell'Europa
comunitaria, esprimendo allo stesso tempo alcuni orientamenti per
rispondere alle trasformazioni intervenute. In francese, il titolo del
volume suona Au-delà de l'emploi, che potrebbe essere tradotto con «al di
là dell'impiego», dove l'impiego è il lavoro retribuito sul mercato,
secondo le regole di quest'ultimo. L'intenzione fondamentale del rapporto è
però di indicare una strada per tessera una rete di protezione alla
generica attività umana, intendendo il lavoro come qualcosa di più vasto e
comprensivo di ciò di cui il capitale si appropria. L'«assicurazione» di
questa sfera complessiva dell'operare umano sarebbe già germinalmente
presente nel diritto positivo, al cui interno i diritti sociali si
disporrebbero in «quattro cerchi concentrici».

Il primo cerchio comprende i diritti universali, ossia indipendenti dal
lavoro, come l'assicurazione in caso di malattia; il secondo i diritti
fondati sul lavoro non professionale, com'è appunto il lavoro di cura; il
terzo il diritto comune dell'attività professionale, cioè quello relativo
all'igiene e alla sicurezza nel diritto comunitario; il quarto cerchio,
infine, comprende il diritto proprio del lavoro salariato, contenente
unicamente le disposizioni legate alla subordinazione; esso dovrebbe
permettere una graduazione dei diritti in funzione dell'intensità della
subordinazione. È evidente che proprio il carattere concentrico di questa
disposizione fa sì che al lavoro subordinato - in tutte le sue
manifestazioni - spetti una porzione, per così dire, minore di diritti,
quasi esclusivamente come riconoscimento del carattere subordinato della
sua condizione. Non vi è cioè un'idea di diritto sociale che a partire
dalla condizione lavorativa investe tutti gli ambiti della vita sociale. Al
contrario, i diritti sociali del lavoratore subordinato e/o parasubordinato
riconoscono il carattere coattivamente manchevole della sua condizione
rispetto al vero soggetto universale del diritto, ovvero rispetto alla
persona astratta indifferente a ogni determinazione.

Come abbiamo detto, l'edizione italiana ripiega su un titolo più sobrio, ma
forse più adeguato, Il futuro del lavoro. In questa variazione del titolo
si esprime la tensione che attraversa i diversi interventi; una tensione
determinata dall'evidente consapevolezza che oltre la fine del «posto
fisso» e la presenza di attività di cura, di autoformazione, di
volontariato, rimane ineliminabile il problema del lavoro come luogo
politico di costituzione della subordinazione individuale e collettiva.

Nella cognizione di questa condizione, il senso di tutta la ricerca è
quindi la necessità di ristabilire un nesso tra lavoro e diritti. E qui
probabilmente risiede un problema, poiché quel nesso non si rivela oggi
inesistente solo per il lavoro atipico e, più o meno apparentemente,
indipendente, ma è messo sempre più in discussione anche per quella sezione
della forza lavoro - quella che ha il suo prototipo nell'operaio fordista:
maschio, bianco, impiegato a vita e unico procacciatore e titolare del
reddito familiare - che sia nel rapporto Supiot sia in una certa vulgata
politico-sociologica presente anche nella discussione italiana viene
assunta come il passato storico e il presente garantito del lavoro. Vale
invece la pena ricordare che l'operaio fordista ha conquistato i suoi
diritti dopo una lunga stagione di lotte; inoltre, essi non sono mai stati
una parte costitutiva dell'organizzazione fordista del lavoro. In Italia,
per esempio, si è giunti ad affermarli pienamente solo alla fine degli anni
Sessanta, e già all'inizio del decennio successivo è iniziato l'attacco
capitalistico che mirava a svuotarli prima nei termini materiali della
ristrutturazione del salario e delle prestazioni sociali garantite, poi
come trasformazione del quadro giuridico in cui erano inseriti.

Viene dunque da chiedersi se il diritto del lavoro possa davvero immaginare
forme di garanzia per i «nuovi lavori», senza registrare che sempre più a
livello comunitario, e non solo, quella che sta affermandosi, proprio
attraverso la politica dei diritti fondamentali, è una sostanziale
indifferenza nei confronti della prestazione lavorativa. Un'indifferenza
che è il contrario della valorizzazione delle individualità presenti, ma
piuttosto la loro omogeneizzazione e neutralizzazione nel concetto
giuridico di persona.

Accade quindi che l'apparentemente mite «principio generale
dell'adeguamento del lavoro all'essere umano», che il rapporto assume come
centrale, può essere piegato a una doppia interpretazione. Infatti può
funzionare come criterio per sfrondare il lavoro dei suoi caratteri
terribili, ma può anche essere utilizzato per mettere al lavoro l'intera
società, ovvero ogni caratteristica fisica, psicologica e comunicativa
dello stesso essere umano. In fondo questo è il progetto di «nuova società»
che sta alla base del Libro verde dell'Unione europea su Partenariato per
una nuova organizzazione del lavoro del 1997, così come del Libro bianco
del Ministro del Welfare Maroni con il suo insistere sull'indispensabile
costruzione di una «società attiva» come «necessario contesto per lo
sviluppo delle risorse umane».

Esemplare è in questo senso la sezione dedicata alla crescente presenza
delle donne nei luoghi di lavoro. Come viene apertamente viene
riconosciuto, essa non ha rappresentato una femminilizzazione del lavoro
solo nel senso dell'irrompere della differenza sessuale e della
destrutturazione del patriarcato nei luoghi di lavoro, ma anche, e forse
soprattutto, della compresenza di lavoro pagato e non pagato, com'è da
sempre il lavoro riproduttivo. Il rapporto Supiot, pur registrando con
precisione ciò che accade, non va però molto oltre la proposta di una
politica del diritto delle pari opportunità - cioè dell'indifferenza
sessuale dei corpi messi al lavoro - così come essa è ampiamente praticata
dall'Unione europea. «Il principio di parità di trattamento tra uomini e
donne» si dovrebbe così applicare «indistintamente» ai quattro cerchi di
diritti sociali precedentemente indicati.

Veniamo così a quello che sembra essere il vero problema che la stessa
impostazione del rapporto lascia aperto. Concepito nell'epoca del
predominio socialdemocratico sull'Unione europea, esso mostra oggi non
poche difficoltà di fronte alla realtà politica di molti dei paesi che la
compongono. Basti pensare che la stessa assicurazione contro le malattie,
che dovrebbe rientrare nel cerchio più ampio dei diritti sociali
fondamentali, è sempre più oggetto della logica del mercato. Oppure al caso
per molti versi paradigmatico del lavoro migrante che, come lo stesso
rapporto Supiot riconosce, rischia di non trovare alcun riconoscimento in
termini di diritti civili e sociali degli stati dell'Unione europea, dal
momento che essi sono fondati più sulla cittadinanza che sul lavoro. Anche
dove esso appare in sintonia con le linee guida della burocrazia
comunitaria, il rapporto si trova esposto a un'estensione delle sue
formulazioni che va probabilmente al di là delle intenzioni degli
specialisti che l'hanno redatto.

Ma più in profondità ciò che appare discutibile e altamente problematico è
l'identificazione delle figure lavorative esclusivamente sulla base del
profilo giuridico che le definisce. Il lavoro atipico altamente flessibile
non ha sostituito le forme dello sfruttamento della forza lavoro fordista,
ma si è piuttosto affiancato a esse, spesso coincidendo nello stesso luogo.
Succede così che il lavoratore interinale si trovi fianco a fianco con chi,
nella sua veste di lavoratore assunto teoricamente a tempo indeterminato,
subisce come lui l'intensificazione dei ritmi, lo straordinario e la
minaccia della delocalizzazione degli impianti. Viene così da chiedersi se
la qualità del lavoro sociale contemporaneo debba necessariamente
esprimersi attraverso il diritto e nella grammatica dei diritti
differenziati. O se piuttosto ogni strategia di liberazione dalla coazione
del lavoro salariato sia possibile solamente sul piano dell'operaio
complessivo, ovvero come movimento di massa che raccoglie e unifica una
moltitudine varia di moltepliciindividualità.