[Prec. per data] [Succ. per data] [Prec. per argomento] [Succ. per argomento] [Indice per data] [Indice per argomento]
chimica a manfredonia il medioevo
- Subject: chimica a manfredonia il medioevo
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 04 Feb 2003 06:47:47 +0100
il manifesto - 25 Gennaio 2003 Viaggio nell'Italia a rischio, dove la politica «di sviluppo» ha fatto disastri (4) Manfredonia, il Medioevo senza fine Da 26 anni l'arsenico avvelena la cittadina pugliese. Sotto accusa è ancora una volta l'Enichem. 10 dirigenti e 2 medici del lavoro sono accusati di omicidio colposo plurimo, lesioni plurime e disastro ambientale. Una storia venuta a galla grazie all'inchiesta di un operaio, poi morto di tumore insieme ad altri sedici lavoratori della fabbrica chimica. Lunedì il processo MASSIMO GIANNETTI INVIATO A MANFREDONIA (Foggia) Cominciò tutto di domenica. L'ultima domenica di settembre di ventisei anni fa. Era l'anno di Seveso, il medioevo di Manfredonia. La gente andava ancora al mare perché qui, sulle sponde del Gargano, l'estate finisce quasi sempre in autunno inoltrato. In città ci si apprestava alla consueta passeggiata in centro quando, verso le undici del mattino, si sentì un boato. Era «simile a un tuono», ricordano i testimoni, e veniva dal petrolchimico. Molti però non ci fecero caso, perché sembrava uno dei tanti «botti» già sentiti in passato e provenienti dal solito posto. Non destò paura neanche la nuvola che si alzò nel cielo dopo lo scoppio. Era giorno di festa ma in fabbrica _ situata sul golfo, a meno di un chilometro dal centro abitato _ c'erano molti operai che lavoravano. Un centinaio rimasero intossicati e furono portati all'ospedale. Con loro anche una trentina di abitanti che si erano recati sul posto per vedere cosa era successo. Era accaduto l'inferno, ma l'azienda tranquillizzò tutti. L'esplosione di una «colonna di lavaggio dell'ammoniaca» aveva provocato la fuoriuscita di «almeno dieci tonnellate di anidride arseniosa», ma per i dirigenti dell'Anic _ che poi diventerà Enichem _ non era successo niente di grave. Al cronista della Gazzetta di Foggia, Michele Apollonio, spiegarono che lo «scoppio, causato da un incidente tecnico, non aveva provocato alcun danno, e che quella nube non era né più né meno che l'effetto che si ha accendendo una sigaretta». Questo venne ripetuto per giorni ai lavoratori. E questo credette anche Nicola Lovecchio, operaio simbolo di questa storia. Una storia che non potremmo raccontare se l'ex capoturno del «magazzino fertilizzanti», ucciso da un tumore a 50 anni, non avesse deciso di andare «fino in fondo» prima di morire. E' infatti grazie alla sua inchiesta, sfociata poi in una denuncia alla procura di Foggia, che la magistratura pugliese ha ripercorso gli «anni bui» di Manfredonia. Iniziata nel `96, l'indagine del pm Lidia Giorgio si è conclusa nel marzo scorso e ha portato al rinvio a giudizio di dieci dirigenti dell'Enichem e di due esperti in medicina del lavoro dell'università di Bari, Luigi Ambrosi e Vito Foà, «che prestarono la loro autorevole consulenza sulle misure di carattere sanitario». Sono imputati di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose plurime e disastro ambientale, «perché tutti, in cooperazione colposa tra loro e comunque con le proprie autonome e indipendenti condotte, cagionavano un disastro colposo, consistito nell'esposizione prolungata (dal 26 settembre del `76 per sei anni) di un notevole numero di lavoratori (più di 1800 tra diretti e esterni) ai composti arsenicali dei sali utilizzati nella colonna di lavaggio dell'ammoniaca, dispersisi all'interno dello stabilimento e fuori». La fabbrica era stata pesantemente contaminata dall'anidride arseniosa e da altri veleni, ma non venne mai fermata del tutto, neanche quando, di fronte all'evidenza, l'azienda si era resa conto che la situazione era molto più grave di quanto non voleva ammettere pubblicamente. E infatti continuò a non dire nulla agli operai, violando così «l'obbligo di informarli del rischio derivante dall'esposizione ai composti arsenicali», è il primo capo d'accusa del pm: «Pur essendo nota già dal 1976 la tossicità dell'arsenico - aggiunge il magistrato -e, quindi, pur potendosi prevedere la pericolosità per la salute dell'esposizione a polveri di arsenico, adibivano i lavoratori all'attività di disinquinamento e, più in generale, consentivano l'ingresso dei dipendenti all'interno dello stabilimento senza adottare cautele idonee». Cautele che _ sottolinea il pm _ «pur essendo tecnicamente ipotizzabili e attuabili», furono completamente ignorate. «All'opera di bonifica, in sé pericolosa in quanto comportante contatto con polveri d'arsenico tossiche, furono impiegati lavoratori non specializzati o comunque non previamente addestrati» a tale compito. Furono mandati allo sbaraglio, anzi al macello. Toglievano il veleno dalla fabbrica a mani nude. Non furono infatti dotati né di maschere per il viso né di tute impermeabili a tenuta stagna, così come aveva prescritto anche dall'ispettorato del lavoro. «Omissione di controllo», è in questo caso l'accusa per gli imputati alla sbarra. Che dovranno inoltre rispondere della «mancata effettuazione nel tempo di monitoraggi ambientali per il controllo del livello di concentrazione di arsenico nell'aria e nei terreni», e di non aver «osservato il principio di massima protezione che avrebbe imposto» un'altra lunga serie di cautele. Tra queste «la riduzione al minimo indispensabile del numero di lavoratori a cui consentire l'ingresso in fabbrica fino alla verifica dell'esito positivo dell'opera di disinquinamento», e il «ricambio dei lavoratori addetti alla bonifica con nuove unità, onde ridurne al minimo l'esposizione». Le conseguenza di queste «condotte delittuose» avranno un periodo di incubazione di circa quindici anni. Si riveleranno mortali per diciassette operai e gravemente lesive per altri cinque lavoratori, tuttora affetti rispettivamente da polineuropatia sensitivo-motoria, dermatite iperpigmentata alle gambe, enfisema, cirrosi epatica e carcinomi polmonali e renali. Le vittime provocate dal «mostro» chimico _ produceva fertilizzanti e caprolattame (sostanza utilizzata per per la produzione di fibre di plastica) _ sarebbero state in realtà molte di più, ma per la magistratura soltanto una parte di queste sono collegabili alla «prolungata esposizione» dei lavoratori alle sostanze tossiche. Per sei anni, a partire da quella «normalissima» domenica di tanti anni fa. Nicola Lovecchio, all'epoca trentenne, fu uno dei tanti lavoratori mandati al macello dai suoi dirigenti. Lo scoprirà però soltanto all'inizio degli anni Novanta. All'ospedale in cui si recava per fare radioterapia, l'oncologo che lo seguiva non riusciva a spiegarsi le cause di quel melanoma, infrequente a quell'età, riscontrato nel polmone destro del suo paziente. Lovecchio, non fumava sigarette né beveva alcolici, raccontò quindi al medico la vicenda dell'esplosione e di quando, successivamente, furono messi a pulire la montagna di polvere d'arsenico che si era depositata nello stabilimento. Benché malato continuò ad andare in fabbrica, ma da quel giorno ci andò nella doppia veste di operaio e investigatore. Indagando scoprì che una ventina lavoratori dello stabilimento erano morti di cancro, e che altri sette suoi compagni di reparto avevano contratto patologie tumorali. Cercò di convincere questi ultimi a unirsi alla sua battaglia, ma nessuno lo seguì. In fabbrica era proibito parlare di malattie, neanche i sindacati lo volevano. La paura di perdere il posto di lavoro, benché nocivo, spinse chissà quanti lavoratori a soffrire, e poi morire, in silenzio. Lovecchio continuò da solo la sua battaglia per conoscere la verità: «Non posso stare seduto ad aspettare che questa malattia mi consumi del tutto senza aver fatto nulla per riacquistare la mia dignità di uomo», scrisse in una sorta di testamento. All'esterno aveva il sostegno di due esponenti di Medicina democratica e del movimento ambientalista che a Manfredonia aveva cominciato a formarsi alla fine degli anni Ottanta. Nella sua inchiesta ricostruì cicli produttivi, si informò sulle sostanze che venivano usate. Diventò esperto di medicina preventiva. Ma oltre al danno, Lovecchio aveva subito pure la beffa. Venne infatti a sapere che i medici del lavoro che di tanto in tanto, per conto dell'azienda, andavano a controllare lo stato di salute dei lavoratori, avevano omesso le sue reali condizioni. Per avere le radiografie, dovette ricorrere ai carabinieri. Quando finalmente riuscì a ottenerle, il suo oncologo scoprì che già aveva il tumore già dal `91. I medici aziendali non gliel'avevano diagnosticato, glielo dissero due anni dopo, quando il cancro che si portava dentro era ormai in stato avanzato. Subì interventi chirurgici, dolorossissime terapie. Ma non si diede per vinto. Non aveva «più niente da perdere», ripeteva ai suoi familiari. Sfidare il colosso della chimica italiana appariva assurda, oltreché controproducente, anche ai sindacati che cercarono di dissuarderlo nel denunciare l'Enichem. Aveva inoltre scoperto che i sanitari, contrariamente a quanto raccomandavano gli studi in materia, avevano innalzato anche di otto volte il tasso di arsenico «tollerabile» dall'organismo umano. I due «autorevoli esperti in medicina del lavoro» avevano in altre parole quasi ridotto l'anidride arseniosa in qualcosa di commestibile per l'uomo. Lovecchio morirà nell'aprile del `97, ma prima di morire ebbe almeno la soddisfazione di aver determinato l'apertura dell'indagine giudiziaria contro «l'azienda che ci ha maltrattati nel vero senso della parola», come ripeteva ai suoi colleghi. Il processo entrerà nel vivo lunedì prossimo, quando il pubblico ministero ribadirà pubblicamente le accuse ai dodici imputati. I difensori di questi ultimi vorrebbero farlo saltare puntando sulla prescrizione dei reati. Nelle varie interviste rilasciate alla vigilia dell'udienza hanno però annunciato una duplice strategia. L'altra tenderà a sostenere che «non c'è rapporto scientificamente provato tra l'esposizione all'arsenico e l'insorgenza dei tumori - (tesi invece ampiamente documentata dai tecnici dell'istituto superiore di sanità di cui si è avvalsa il pm durante le indagini preliminari) - e, soprattutto, che non c'è alcuna dimostrazione che nell'area sipontina si sia registrata un'impennata del numero dei decessi per cancro». Gli effetti della contaminazione chimica sulla popolazione è l'altro capitolo del disastro provocato dalla fuga tossica di 26 anni fa. Buona parte di quelle «dieci tonnellate» di veleni sono ancora presenti in oltre trecento ettari di terreno e in una vasta area marina, pari a ottocentocinquanta ettari. Uno studio dell'Organizzazione mondiale della sanità ha di recente registrato tra la popolazione «un eccesso di mortalità per tumore allo stomaco nei maschi e un aumento dei tumori alla laringe, alla pleura e mielomi multipli nelle donne». La stessa ricerca mostra inoltre un aumento generale di leucemie e malattie non tumorali all'apparato genito-urinarie. «Gli eccessi riscontrati - dice l'Oms - possono essere indicativi di effetti dalle esposizioni da arsenico, e in particolare all'emergere dei primi effetti a lunga latenza che potrebbero aggravarsi negli anni successivi». Sono una trentina i soggetti riconosciuti dal tribunale come parti civili contro l'Enichem. Tra questi l'Associazione di donne «Bianca Lancia», che nell'88 portò il caso Manfredonia alla Corte europea dei diritti dell'uomo denunciando gli effetti dannosi prodotti dallo stabilimento chimico sulla popolazione. L'esposto fu presentato da quaranta donne che, dopo una battaglia durata dieci anni, nel `98 ottennero un risarcimento di 10 milioni ciascuna per il «danno morale» subito. Una sentenza storica contro lo Stato italiano, condannato per violazione dell'articolo 8 della Convenzione di Strarburgo laddove questa dice che «ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare», diritto appunto violato dalle continue emissioni nocive della fabbrica che le autorità statali non hanno impedito. Tra le tante parti civili istituzionali accorse a chiedere i danni all'Enichem, oltre alla regione, alla provincia e al comune, c'è anche il ministero dell'ambiente. Proprio quel ministero che oggi Legambiente, Wwf, Medicina democratica (anch'esse parti civili al processo) e altre associazioni, accusano di «gravi responsabilità» nella lentezza con cui avviene la bonifica di Manfredonia. La bonifica, nonostante i morti, non è stata infatti mai conclusa. E' cominciata due anni fa e il modo in cui avviene, senza peraltro un piano generale, lascia alquanto a desiderare. Tanto che ancora l'Unione europea, attraverso l'apposita commissione ambiente, l'estate scorsa ha aperto una «procedura d'infrazione» nei confronti dell'Italia in quanto «non ha adottato le misure necessarie ad assicurare che i rifiuti, stoccati o depositati in discarica presenti nel sito Enichem, fossero recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo e pregiudizio per l'ambiente». «In pratica - dice Antonio D'Angelo, presidente nazionale di Medicina democratica - , l'Enichem - che dopo aver inquinato cielo, mare e terra per trent'anni - ha ottenuto pure l'autorizzazione per ripulire l'area dello stabilimento con i soldi pubblici (200 miliardi previsti in cinque anni), si rifiuta di dire dove porta il materiale contaminato. Non informa neanche adesso la popolazione. E il ministero tace». Ma non è tutto. Infatti, come se la storia che abbiamo raccontato non avesse insegnato nulla, la bonifica avviene mentre nello stabilimento Enichem è consentito l'ingresso di altri lavoratori. La «fabbrica assassina», chiusa ufficialmente nella metà degli anni `90, è stata infatti rilevata dall'imprenditore trevigiano Sangalli che l'ha riconvertita in una mega industria del vetro. Ci lavorano circa trecento persone (ma le agenzie interinali cercano altro personale) e produce 500 mila tonnellate di vetro ogni anno. E' classificata «industria insalubre di prima categoria» e in quanto tale, per legge, avrebbe dovuto sottoporsi alle procedure di valutazione di impatto ambientale prima di insediarsi. La regione Puglia però non ha ritenuto opportuno fare questo esame alla Sangalli. La vetreria è una delle tante aziende che stanno reindustrializzando Manfredonia. Sono una quarantina gli imprenditori «venuti dal nord» per rivitalizzare questa «area depressa» della Puglia. E tanti altri sarebbero in arrivo. Una reindustrializzazione a fondo perduto e senza troppe responsabilità. Avviene infatti attraverso il «contratto d'area» che, come è noto, prevede finanziamenti pubblici alle aziende benefattrici e salario al minimo contrattuale per i dipendenti. Lavoro precario e senza diritti sindacali. Ma questa è un'altra storia.
- Prev by Date: oneri - costi - nucleari residui
- Next by Date: DICHIARAZIONE ATTAC ITALIA
- Previous by thread: oneri - costi - nucleari residui
- Next by thread: DICHIARAZIONE ATTAC ITALIA
- Indice: