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ai confini del cyberspazio
- Subject: ai confini del cyberspazio
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 05 Jan 2003 08:11:59 +0100
il manifesto - 28 Dicembre 2002 Viaggio ai confini del cyberspazio Una lunga ricognizione della frontiera elettronica e un'appassionata rassegna degli stili e forme di vita che a colpi di tastiera e mouse hanno trasformato Internet. Ma anche un'analisi dei meccanismi che hanno regolato l'ascesa e la crisi della new economy, dove il circolo virtuoso tra finanza, stock option e innovazione non ha retto i colpi e i conflitti della globalizzazione. «Dark Fiber», la raccolta di saggi di Geert Lovink, uno dei protagonisti della cibercultura BENEDETTO VECCHI E'uno dei migliori libri su Internet uscito nell'ultimo anno. E' il condivisibile giudizio espresso da Franco Berardi Bifo che introduce Dark Fiber, il volume di Geert Lovink da poco pubblicato dal piccolo editore Luca Sossella (pp. 286, ? 18). Quello di Lovink è infatti un libro che riesce felicemente ad unire la ricostruzione storica della vita nel cyberspazio nell'ultimo decennio alla definizione dei possibili scenari futuri del web, passando in rassegna gli stili di vita, le culture critiche che si esprimono nella rete. Inoltre, a rendere avvincente la lettura di Dark Fiber è il ritmo sincopato che lo contraddistingue dovuto all'«immediatezza» dei testi che compaiono spesso nei gruppi di discussione presenti su Internet, dove la scrittura «mordi e fuggi» è sostenuta da continui rinvii alla cultura «alta» novecentesca. A mo' di premessa va subito detto che l'autore è uno dei fondatori della mailing list nettime dopo una intensa educazione sentimentale nei movimenti alternativi e squatter degli algidi anni Ottanta in Olanda. Anni di no future e di radicale diffidenza, almeno nei gruppi di base nordeuropei e non solo, verso la tecnologia, considerata, di volta in volta, strumento nelle mani del capitale per stroncare ogni forma di dissenso o incarnazione di uno sviluppo industriale nemico della natura. Di quella breve, ma densa stagione politica ed esistenziale, Gerrt Lovink ha mantenuto lo sguardo lucido e l'attitudine alla critica. Conseguita una laurea in scienze delle comunicazioni, Lovink è infatti arrivato infatti su Internet imbevuto della dialettica negativa di Theodor Adorno, della sociologia della comunicazione di Marshall McLuhan e della corrosiva critica alla società dello spettacolo di Guy Debord, forte però della convinzione che le tecnologie della comunicazione potessero diventare da strumento di dominio a tecnologie della liberazione. Faccio parte di quella generazione, scrive a un certo punto Lovink, che era troppo giovane nel Sessantotto e troppo cresciuta per farsi abbindolare dalle sirene della nuova frontiera elettronica: per sfruttare al meglio le potenzialità della comunicazione on line bisognava fare tesoro del pensiero critico acquisito, sapendo però che gran parte delle analisi della scuola di Francoforte, di Marshall McLuhan e di Debord erano difficilmente applicabili a Internet, dove le tecnologie digitali, recitava la vulgata dominante, non consentivano solo di comunicare, ma anche di progettare e costruire realtà parallele a quelle esistenti fuori dallo schermo. Da qui alla definizione di un progetto corale di net-criticism il passo è stato breve. Anzi, si può tranquillamente affermare che tutta la produzione teorica di Lovink è parte di questo progetto, che ha visto impegnati centinaia, se non migliaia di studiosi, programmatori di computer, semplici navigatori e militanti politici. Questa parte di Dark fiber è davvero notevole, perché mette in evidenza la complementarietà tra la vita dentro lo schermo e quella fuori. Così, scorrono all'indietro le aspre discussioni degli anni Novanta sul virtuale e il reale, sul ruolo delle tecnologie digitali nel trasformare i media, sulla comunicazione on line, sui progetti governativi di censurarla, sulla cosiddetta democrazia elettronica e via digitando. Pregnanti sono infatti i saggi dedicati all'uso di Internet per informare da parte dei dissidenti serbi durante le guerre nei Balcani, stretti tra il nazionalismo etnico di Milosevic e le bombe umanitarie della Nato. L'esperienza dei mediattivisti indipendenti serbi serve però come elemento propedeutico al tema della net-war, cioè alle guerre che si combattono su Internet per «occulatare» eventi e fatti o «produrre» una realtà che giustifichi l'uso degli eserciti per costruire il «nuovo ordine mondiale» consono agli interessi del libero mercato. Ma avvincenti sono anche i testi che parlano diffusamente della vita interna di Nettime, dove la decisione di dar vita a una mailing list «libera» ha dovuto fare i conti con il quesito se moderarla o meno, una domanda che torna periodicamente nei gruppi di discussione «politici» presenti sul web quando l'interattività consentita dalla rete non prevede mediaziona alcuna. Il secondo elemento che emerge da Dark Fiber è la critica che l'autore svolge verso quel luogo comune che accomuna la cultura underground al pensiero mainstream di una frontiera elettronica inizialmente libera dai condizionamenti del grande capitale e poi pian piano colonizzata dalle grandi corporation dell'informatica e delle telecomunicazioni. Il business, sostiene Lovink, è stato sempre presente in rete: sbaglia quindi chi guarda al web con la nostalgia verso un passato non contaminato dalle leggi del mercato. Internet è infatti figlia della produzione capitalista; ed è per questo che non vanno mai rimossi i conflitti e le forme di vita che hanno considerato la comunicazione on line come strumento propedeutico per affrancarsi dalla legge del profitto. Per estensione, si potrebbe quindi affermare che Internet è stato segnata e plasmata dai conflitti che l'hanno caratterizzata sin dalle origini. Lovink però arrischia anche un'ipotesi interpretativa ulteriore. Se da una parte ci sono sempre state le corporation, dall'altra è cresciuta prepotentemente una «economia del dono» rappresentata dal movimento dell'open source, cioè quella produzione di software, spesso sotto forma di cooperazione sociale, che ha sempre rifiutato le regole del diritto d'autore e che costituisce la vera variabile indipendente per quanto riguarda il futuro del web. Sicuramente, i testi dedicati all'ascesa e alla caduta della new economy sono quelli che meritano maggiore attenzione. In primo luogo perché spiegano, ad esempio, il titolo: dark fiber è infatti l'espressione usata per indicare la parte inutilizzata delle fibre ottiche nel trasmettere immagini, suoni e parole. A prima indagine sembra di assistere a un vero paradosso: c'è l'hardware, ma non il software. Personal computer sempre più potenti, fibre ottiche che consentirebbero di trasmettere questo mondo e quest'altro, ma Internet è usata per l'ottanta per cento solo per la posta elettronica. Mancano quindi i «contenuti» appetibili per quel miliardo di persone che si collegano alla rete e che fuggono come lepri di fronte a un fruscio di foglie appena sentono parlare della necessità di pagare un balzello per scaricarsi un file musicale o un film in formato digitale. Internet è gratuita e ogni mezzo è lecito per «piratare» ciò che viene percepito come un bene comune. Questo è però solo una parte della spiegazione della crisi della new economy. L'altro aspetto, molto più opaco e difficile da decrittare pienamente, ha a che fare con la produzione di merci e con quel circolo virtuoso che vedeva il capitale di rischio investire in innovazione, la quotazione in borsa di idee e una forza-lavoro che, in cambio di stock options, lavorava dieci, dodici ore al giorno per produrre innovazione tecnologica e organizzativa. Come spiegano bene sia Lovink che Bifo quel circolo virtuoso e quel patto luciferino tra capitale e forza-lavoro sono semplicemente saltati. Ma proprio su questa crisi della new economy che si addensono le spiegazioni più rassicuranti. L'indice che punta sempre al ribasso della borsa produce sicuramente un impoverimento di chi ha investito nel casinò finanziario, accelera il processo di concentrazione nel settore dei media e la convergenza tra telecomunicazioni, informatica e televisione. Sembra quindi di assistere alla rivincita della «vecchia economia», così come annunciato dall'elezione di George W. Bush alla Casa Bianca. Creazione di grandi monopoli, ridimensionamento della finanza: tutto sembra quindi tornare alla normalità e Internet sembra rappresentare un incidente di percorso. Non è così, almeno se si considera il world wide web come un grande laboratorio dove sono state sperimentate forme nuove di rapporto tra capitale e forza-lavoro, nuovi processi lavorativi, nuove soggettività messe al lavoro. Che quelle esperienze abbiano rotto la gabbia del cyberspazio non è certo una novità. Anzi si può dire che gran parte di ciò che è stato sperimentato su Internet è diventata la norma sia dentro che fuori lo schermo. Ed è partendo da questa considerazione che si può tranquillamente affermare che «l'economia del dono» - reciprocità, strategia dell'attenzione, valorizzazione delle «risorse umane» - analizzata da Lovink è diventata il modello dominante per quanto riguarda la produzione della ricchezza. All'orizzonte non c'è quindi nessun ritorno al passato, bensì un ritorno al futuro, cioè a quel rompicapo che è il capitalismo flessile. E a quello straordinario intreccio di mediattivismo e attivismo sociale che si è soliti definire «movimento dei movimenti». In fondo, la crisi di quel circolo virtuoso e di quel patto luciferino tra capitale e forza-lavoro è opera anche e soprattutto dei movimenti di critica alla globalizzazione capitalista.
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