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fallimenti e liquidazioni d'oro
- Subject: fallimenti e liquidazioni d'oro
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 21 Dec 2002 08:01:11 +0100
il manifesto - 17 Dicembre 2002 Come fare fallimento e diventare più ricchi di prima USA Liquidazioni da brivido per fare fagotto, così i top manager più voraci hanno sfruttato la crisi delle loro stesse aziende MARCO D'ERAMO Si chiude l'anno in cui gli americani hanno rischiato di perdere la fede nel capitalismo, l'anno in cui hanno scoperto che gli apostoli del libero mercato, e cioè gli amministratori delegati delle grandi corporation sono in realtà dei volgari truffatori che scippano azionisti e dipendenti. Grazie alla pugnace causa di divorzio condotta dalla moglie, oggi sappiamo tutto degli accordi pensionistici di Jack Welsh, ex amministratore delegato della General Electric, fino a ieri considerato un eroe della nuova era, un titano in grado di creare immense fortune, l'alchimista che trasformava in oro anche la carta straccia: non si contano i libri osannanti scritti su di lui. Ma adesso si è scoperto che questo condottiero di ditte e di anime ha preteso che la GE gli garantisse a vita l'uso gratis del jet della compagnia, gli abbonamenti alle opere e ai teatri lirici, l'uso a vita del lussuoso appartamento con vista su Central Park a New York e financo la fornitura gratis della cantina di vini d'annata e della decorazione floreale della casa, oltre che dei servizi di lavanderia. Tra parentesi, nell'ultimo anno di lavoro Welsh aveva avuto un modesto salario di 123 milioni di dollari. Esemplare è poi il caso di Dennis Kozlowski, ex amministratore delegato della Tyco, un tempo osannato per aver aumentato di 37 miliardi di dollari il valore azionario della sua impresa, ora licenziato e incriminato per evasione fiscale. Tra il 1998 e il 2001 Kozloski ricevette quasi 400 milioni di dollari in stipendio e in stock options, oltre a 135 milioni di dollari in note spese: nel 1998 Kozlowski si è comprato una villa da 1.400 metri quadri in riva al mare in Florida, facendosi prestare 19 milioni di dollari a tasso zero dalla Tyco che poi gli condonò il debito. Nell'estate 2001 Kozlowsi ha fatto un viaggetto in Sardegna che è costato alla Tyco 2,1 milioni di dollari (4,2 miliardi delle vecchie lire). La Tyco ha prestato a Kozlowski 25 milioni di dollari per comprare un appartamento a New York e arredarlo con rubinetterie d'oro, e poi gli ha condonato il prestito. Nel frattempo però la Tyco perdeva il 77% del valore azionario e dal gennaio 1991 ha licenziato 18.400 dipendenti. La storia di Kozlowski non è isolata. Tra il 1999 e il 2001 il presidente della Enron, K. L. Wise, ha incassato 251 milioni di dollari: la sua ditta è fallita, bruciando 62 miliardi di capitale e licenziando 4.250 dipendenti. A Qwest, l'amministratore delegato J. P. Nacchio ha ricevuto 266 milioni di dollari, ha bruciato capitale per 66 miliardi di dollari (pari al 97% del valore iniziale) e ha provocato il licenziamento di 11.400 persone. Nel 1970 il salario medio di un lavoratore era di 32.522 dollari, mentre nel 1998 era di 35.864 (circa un 10% in più in 29 anni). Nel frattempo però la retribuzione dei 100 meglio pagati amministratori delegati è passata da 1,3 milioni di dollari l'anno - 39 volte la paga del lavoratore medio - a 37,5 milioni di dollari (più di 1.000 volte la paga media). Questi dati sono stati citati dall'economista di Harvard, ed editorialista del New York Times, Paul Krugman, in un lungo saggio (pubblicato sul magazine domenicale del quotidiano newyorkese) che non ha ricevuto l'attenzione né suscitato l'eco che si meritava. Eppure il saggio riguarda la struttura sociale del nostro potere imperiale, gli Stati uniti d'America. Perché il dato sugli amministratori delegati è solo la punta dell'iceberg, il rivelatore di un fenomeno molto più generale. Krugman comincia con lo studiare la piramide dei redditi negli Usa: è ben noto che negli ultimi 30 anni è cresciuta la parte di reddito che va al decimo più ricco della popolazione Usa (il cui reddito annuo al lordo delle tasse parte da 81.000 dollari); ma è meno noto che la maggior parte dei progressi di questo gruppo è venuta dai guadagni dell'1% superiore piuttosto che dagli altri 9%. «Nel 1998, il reddito del primo 1% partiva da 230.000 dollari. Ma a sua volta il 60% dei guadagni ottenuto da questo 1% proveniva dallo 0,1% superiore (con redditi sopra i 790.000 dollari). E quasi la metà dei guadagni di questo 0,1% superiore viene dallo 0,01% che sta in cima e che aveva redditi superiori a 3,6 milioni e un reddito medio di 17 milioni di dollari», scrive Krugman che offre un'immagine scandalosa e spietata del divario di ricchezza esistente negli Usa: «Nel 1970 lo 0,01% più ricco delle famiglie incassava lo 0,7% del reddito totale - cioè "solo" 70 volte il reddito medio. Ma nel 1998 lo 0,01% più ricco intascava più del 3% del reddito totale. Questo vuol dire che le 13.000 famiglie americane più ricche avevano circa lo stesso reddito dei 20 milioni di nuclei familiari più poveri, e che queste 13.000 famiglie avevano redditi 300 volte superiori a quello delle famiglie medie». Se poi si allarga il quadro dallo 0,01% all'1% più ricco degli americani (cioè a 1,3 milioni di famiglie più agiate), si scopre che questo 1% più ricco intasca il 16% del reddito totale al lordo delle tasse e il 14% del reddito al netto delle tasse, una percentuale che è raddoppiata negli ultimi 30 anni e che è pari al reddito del 40% delle famiglie più povere: in pratica l'1,3 % più ricco delle famiglie Usa guadagna quasi quanto la metà più povera della nazione. Negli ultimi 30 anni la società statunitense ha cioè subito una immane controrivoluzione sociale che ha riportato la sua struttura di classe a quella che era negli anni `20, prima della grande crisi del 1929-1933, del New Deal, cioè della politica di ammortizzatori sociali e reti di protezione finanziarie messa a punto da Franklin Delano Roosevelt per evitare appunto il ripetersi di quella depressione. Anzi, secondo uno studio citato da Krugman, la struttura dei redditi è tornata a essere quella del 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale. La «grande trasformazione» degli ultimi 30 anni ripete quella a cavallo del XIX e XX secolo descritta in modo così magistrale da Karl Polanij nel libro dall'omonimo titolo. Oggi la struttura dei redditi e del patrimonio in America è tornata a essere quella del capitalismo corporativo, dei capitalisti banditi, i robber barons. Non per nulla gli amministratori delegati delle grandi corporation richiamano in modo irresistibile i briganti di strada. La struttura economica è quella feudale, senza l'impalcatura giuridica del feudalesimo. E ogni autunno la rivista Forbes ci fornisce la lista dei maggiori baroni, vassalli, valvassori e valvassini, l'elenco dei 400 americani più ricchi. Anche qui vige la struttura piramidale che domina nella società americana: la metà del patrimonio totale dei 400 più ricchi appartiene ai primi 50 tra loro, e la metà del patrimonio dei primi 50 appartiene ai primi 10, che detengono quindi circa un quarto del totale dei 400. La stima del patrimonio da parte di Forbes è molto prudente, per cause di forza maggiore, perché non può prendere in considerazione tutta la parte che elude ed evade il fisco, le proprietà all'estero e i conti correnti nei paradisi fiscali. Per la stessa ragione, dopo il picco toccato nel 2000, con il crollo azionario, la ricchezza totale dei 400 Paperoni d'America ha subito un bel colpo: era di 1.235 miliardi di dollari nel 2000, 952 miliardi di dollari nel 2001, 885 nel 2002. Nel 2000 il patrimonio totale di questi più ricchi superava il prodotto nazionale lordo italiano e sfiorava quello della Francia. Quest'anno, pure con questi «chiari di luna», il patrimonio dei 50 uomini più ricchi di America supera il prodotto lordo del Messico (91 milioni di abitanti) o dell'India (un miliardo di abitanti). Siamo di fronte a una vera e propria «plutocrazia» sostiene Krugman. Perché i soldi permettono di comprare molte cose, dal consenso alle idee. Con i soldi paghi i migliori cervelli per elaborare migliori teorie a sostegno della tua ricchezza, i migliori giornalisti per sostenere le tue cause, le migliori armi e tecnologie per difendere i tuoi interessi. Naturalmente una tale disparità ha un prezzo pesantissimo. Basta girare fuori dagli itinerari turistici e dai centri commerciali per accorgersene (ma a volte, come a San Francisco, la miseria si permette d'irrompere persino accanto ai negozi più ricchi). Krugman ricorda il clamore suscitato pochi mesi fa da un conservatore «cyberpunk», Glenn Reynolds, quando «fece notare che il prodotto interno lordo pro capite della Svezia è paragonabile a quello del Mississippi - vedi come si sono impoveriti da soli quei pazzi che credono nello stato sociale! Reynolds probabilmente intendeva dire che lo svedese medio è povero quanto il tipico abitante del Mississippi e perciò sta molto peggio dell'americano medio (il Mississippi è uno degli stati Usa più poveri, ndr). Ma la speranza di vita in Svezia è circa tre anni più lunga che negli Usa. La mortalità infantile è la metà di quella americana e un terzo di quella del Mississippi e l'alfabetismo di ritorno è molto minore che negli Usa». Krugman osserva che a tenere basso il Pil pro capite è la scelta volontaria degli svedesi di lavorare meno ore dei loro colleghi americani e di godersi vacanze più lunghe: tenendo conto di questo fatto il Pil pro capite per ora lavorata è solo il 16% minore di quello americano. Ma «se gli svedesi hanno un reddito medio inferiore a quello americano, è soprattutto perché i loro ricchi sono meno ricchi dei nostri. La famiglia svedese mediana ha lo stesso livello medio di vita della famiglia Usa: anzi i salari lordi sono un po' più alti in Svezia, con però un maggior carico fiscale per provvedere un servizio sanitario gratuito e migliori servizi pubblici. E, se scendi nella scala sociale dei redditi, i livelli di vita svedesi sono un bel po' avanti a quelli Usa. Il 10% più povero delle famiglie svedesi ha un reddito 60% più alto di quello del 10% più povero delle famiglie americane (...) E nel 1994 solo il 6% degli svedesi viveva con meno di 11 dollari al giorno, contro il 14% negli Usa». Per più di 70 anni gli Stati uniti sono vissuti nella retorica della classe media (in inglese la middle class comprende il proletariato), quindi nella convinzione di essere una società egualitaria, una società «senza classi» (era ammessa solo l'underclass dei delinquenti, disoccupati o senzatetto). Con le politiche messe in campo da Ronald Reagan e dai due George Bush abbiamo assistito a un colpo di stato dei ricchi contro i più poveri, degli abbienti contro i disagiati. Da un lato il taglio fiscale di 13.000 miliardi di dollari in 10 anni finirà al 90% nelle tasche dell'1% più ricco degli americani, mentre i deficit di bilancio statale finiscono in commesse militari e utili per le industrie belliche. E la classe media scompare. Se il modello americano prevale anche in Europa, rimaniamo noi, la plebe, in basso, e i patrizi là in alto nel castello. Come dire, da Franz Kafka a Blade Runner.
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