fallimenti e liquidazioni d'oro



     
 
il manifesto - 17 Dicembre 2002 

Come fare fallimento e diventare più ricchi di prima 
USA Liquidazioni da brivido per fare fagotto, così i top manager più voraci
hanno sfruttato la crisi delle loro stesse aziende
MARCO D'ERAMO
Si chiude l'anno in cui gli americani hanno rischiato di perdere la fede
nel capitalismo, l'anno in cui hanno scoperto che gli apostoli del libero
mercato, e cioè gli amministratori delegati delle grandi corporation sono
in realtà dei volgari truffatori che scippano azionisti e dipendenti.
Grazie alla pugnace causa di divorzio condotta dalla moglie, oggi sappiamo
tutto degli accordi pensionistici di Jack Welsh, ex amministratore delegato
della General Electric, fino a ieri considerato un eroe della nuova era, un
titano in grado di creare immense fortune, l'alchimista che trasformava in
oro anche la carta straccia: non si contano i libri osannanti scritti su di
lui. Ma adesso si è scoperto che questo condottiero di ditte e di anime ha
preteso che la GE gli garantisse a vita l'uso gratis del jet della
compagnia, gli abbonamenti alle opere e ai teatri lirici, l'uso a vita del
lussuoso appartamento con vista su Central Park a New York e financo la
fornitura gratis della cantina di vini d'annata e della decorazione
floreale della casa, oltre che dei servizi di lavanderia. Tra parentesi,
nell'ultimo anno di lavoro Welsh aveva avuto un modesto salario di 123
milioni di dollari. Esemplare è poi il caso di Dennis Kozlowski, ex
amministratore delegato della Tyco, un tempo osannato per aver aumentato di
37 miliardi di dollari il valore azionario della sua impresa, ora
licenziato e incriminato per evasione fiscale. Tra il 1998 e il 2001
Kozloski ricevette quasi 400 milioni di dollari in stipendio e in stock
options, oltre a 135 milioni di dollari in note spese: nel 1998 Kozlowski
si è comprato una villa da 1.400 metri quadri in riva al mare in Florida,
facendosi prestare 19 milioni di dollari a tasso zero dalla Tyco che poi
gli condonò il debito. Nell'estate 2001 Kozlowsi ha fatto un viaggetto in
Sardegna che è costato alla Tyco 2,1 milioni di dollari (4,2 miliardi delle
vecchie lire). La Tyco ha prestato a Kozlowski 25 milioni di dollari per
comprare un appartamento a New York e arredarlo con rubinetterie d'oro, e
poi gli ha condonato il prestito. Nel frattempo però la Tyco perdeva il 77%
del valore azionario e dal gennaio 1991 ha licenziato 18.400 dipendenti.

La storia di Kozlowski non è isolata. Tra il 1999 e il 2001 il presidente
della Enron, K. L. Wise, ha incassato 251 milioni di dollari: la sua ditta
è fallita, bruciando 62 miliardi di capitale e licenziando 4.250
dipendenti. A Qwest, l'amministratore delegato J. P. Nacchio ha ricevuto
266 milioni di dollari, ha bruciato capitale per 66 miliardi di dollari
(pari al 97% del valore iniziale) e ha provocato il licenziamento di 11.400
persone.

Nel 1970 il salario medio di un lavoratore era di 32.522 dollari, mentre
nel 1998 era di 35.864 (circa un 10% in più in 29 anni). Nel frattempo però
la retribuzione dei 100 meglio pagati amministratori delegati è passata da
1,3 milioni di dollari l'anno - 39 volte la paga del lavoratore medio - a
37,5 milioni di dollari (più di 1.000 volte la paga media).

Questi dati sono stati citati dall'economista di Harvard, ed editorialista
del New York Times, Paul Krugman, in un lungo saggio (pubblicato sul
magazine domenicale del quotidiano newyorkese) che non ha ricevuto
l'attenzione né suscitato l'eco che si meritava. Eppure il saggio riguarda
la struttura sociale del nostro potere imperiale, gli Stati uniti
d'America. Perché il dato sugli amministratori delegati è solo la punta
dell'iceberg, il rivelatore di un fenomeno molto più generale.

Krugman comincia con lo studiare la piramide dei redditi negli Usa: è ben
noto che negli ultimi 30 anni è cresciuta la parte di reddito che va al
decimo più ricco della popolazione Usa (il cui reddito annuo al lordo delle
tasse parte da 81.000 dollari); ma è meno noto che la maggior parte dei
progressi di questo gruppo è venuta dai guadagni dell'1% superiore
piuttosto che dagli altri 9%. «Nel 1998, il reddito del primo 1% partiva da
230.000 dollari. Ma a sua volta il 60% dei guadagni ottenuto da questo 1%
proveniva dallo 0,1% superiore (con redditi sopra i 790.000 dollari). E
quasi la metà dei guadagni di questo 0,1% superiore viene dallo 0,01% che
sta in cima e che aveva redditi superiori a 3,6 milioni e un reddito medio
di 17 milioni di dollari», scrive Krugman che offre un'immagine scandalosa
e spietata del divario di ricchezza esistente negli Usa: «Nel 1970 lo 0,01%
più ricco delle famiglie incassava lo 0,7% del reddito totale - cioè "solo"
70 volte il reddito medio. Ma nel 1998 lo 0,01% più ricco intascava più del
3% del reddito totale. Questo vuol dire che le 13.000 famiglie americane
più ricche avevano circa lo stesso reddito dei 20 milioni di nuclei
familiari più poveri, e che queste 13.000 famiglie avevano redditi 300
volte superiori a quello delle famiglie medie».

Se poi si allarga il quadro dallo 0,01% all'1% più ricco degli americani
(cioè a 1,3 milioni di famiglie più agiate), si scopre che questo 1% più
ricco intasca il 16% del reddito totale al lordo delle tasse e il 14% del
reddito al netto delle tasse, una percentuale che è raddoppiata negli
ultimi 30 anni e che è pari al reddito del 40% delle famiglie più povere:
in pratica l'1,3 % più ricco delle famiglie Usa guadagna quasi quanto la
metà più povera della nazione.

Negli ultimi 30 anni la società statunitense ha cioè subito una immane
controrivoluzione sociale che ha riportato la sua struttura di classe a
quella che era negli anni `20, prima della grande crisi del 1929-1933, del
New Deal, cioè della politica di ammortizzatori sociali e reti di
protezione finanziarie messa a punto da Franklin Delano Roosevelt per
evitare appunto il ripetersi di quella depressione. Anzi, secondo uno
studio citato da Krugman, la struttura dei redditi è tornata a essere
quella del 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale. La «grande
trasformazione» degli ultimi 30 anni ripete quella a cavallo del XIX e XX
secolo descritta in modo così magistrale da Karl Polanij nel libro
dall'omonimo titolo. Oggi la struttura dei redditi e del patrimonio in
America è tornata a essere quella del capitalismo corporativo, dei
capitalisti banditi, i robber barons. Non per nulla gli amministratori
delegati delle grandi corporation richiamano in modo irresistibile i
briganti di strada. La struttura economica è quella feudale, senza
l'impalcatura giuridica del feudalesimo.

E ogni autunno la rivista Forbes ci fornisce la lista dei maggiori baroni,
vassalli, valvassori e valvassini, l'elenco dei 400 americani più ricchi.
Anche qui vige la struttura piramidale che domina nella società americana:
la metà del patrimonio totale dei 400 più ricchi appartiene ai primi 50 tra
loro, e la metà del patrimonio dei primi 50 appartiene ai primi 10, che
detengono quindi circa un quarto del totale dei 400.

La stima del patrimonio da parte di Forbes è molto prudente, per cause di
forza maggiore, perché non può prendere in considerazione tutta la parte
che elude ed evade il fisco, le proprietà all'estero e i conti correnti nei
paradisi fiscali. Per la stessa ragione, dopo il picco toccato nel 2000,
con il crollo azionario, la ricchezza totale dei 400 Paperoni d'America ha
subito un bel colpo: era di 1.235 miliardi di dollari nel 2000, 952
miliardi di dollari nel 2001, 885 nel 2002. Nel 2000 il patrimonio totale
di questi più ricchi superava il prodotto nazionale lordo italiano e
sfiorava quello della Francia. Quest'anno, pure con questi «chiari di
luna», il patrimonio dei 50 uomini più ricchi di America supera il prodotto
lordo del Messico (91 milioni di abitanti) o dell'India (un miliardo di
abitanti).

Siamo di fronte a una vera e propria «plutocrazia» sostiene Krugman. Perché
i soldi permettono di comprare molte cose, dal consenso alle idee. Con i
soldi paghi i migliori cervelli per elaborare migliori teorie a sostegno
della tua ricchezza, i migliori giornalisti per sostenere le tue cause, le
migliori armi e tecnologie per difendere i tuoi interessi. Naturalmente una
tale disparità ha un prezzo pesantissimo. Basta girare fuori dagli
itinerari turistici e dai centri commerciali per accorgersene (ma a volte,
come a San Francisco, la miseria si permette d'irrompere persino accanto ai
negozi più ricchi).

Krugman ricorda il clamore suscitato pochi mesi fa da un conservatore
«cyberpunk», Glenn Reynolds, quando «fece notare che il prodotto interno
lordo pro capite della Svezia è paragonabile a quello del Mississippi -
vedi come si sono impoveriti da soli quei pazzi che credono nello stato
sociale! Reynolds probabilmente intendeva dire che lo svedese medio è
povero quanto il tipico abitante del Mississippi e perciò sta molto peggio
dell'americano medio (il Mississippi è uno degli stati Usa più poveri,
ndr). Ma la speranza di vita in Svezia è circa tre anni più lunga che negli
Usa. La mortalità infantile è la metà di quella americana e un terzo di
quella del Mississippi e l'alfabetismo di ritorno è molto minore che negli
Usa».

Krugman osserva che a tenere basso il Pil pro capite è la scelta volontaria
degli svedesi di lavorare meno ore dei loro colleghi americani e di godersi
vacanze più lunghe: tenendo conto di questo fatto il Pil pro capite per ora
lavorata è solo il 16% minore di quello americano. Ma «se gli svedesi hanno
un reddito medio inferiore a quello americano, è soprattutto perché i loro
ricchi sono meno ricchi dei nostri. La famiglia svedese mediana ha lo
stesso livello medio di vita della famiglia Usa: anzi i salari lordi sono
un po' più alti in Svezia, con però un maggior carico fiscale per
provvedere un servizio sanitario gratuito e migliori servizi pubblici. E,
se scendi nella scala sociale dei redditi, i livelli di vita svedesi sono
un bel po' avanti a quelli Usa. Il 10% più povero delle famiglie svedesi ha
un reddito 60% più alto di quello del 10% più povero delle famiglie
americane (...) E nel 1994 solo il 6% degli svedesi viveva con meno di 11
dollari al giorno, contro il 14% negli Usa».

Per più di 70 anni gli Stati uniti sono vissuti nella retorica della classe
media (in inglese la middle class comprende il proletariato), quindi nella
convinzione di essere una società egualitaria, una società «senza classi»
(era ammessa solo l'underclass dei delinquenti, disoccupati o senzatetto).
Con le politiche messe in campo da Ronald Reagan e dai due George Bush
abbiamo assistito a un colpo di stato dei ricchi contro i più poveri, degli
abbienti contro i disagiati. Da un lato il taglio fiscale di 13.000
miliardi di dollari in 10 anni finirà al 90% nelle tasche dell'1% più ricco
degli americani, mentre i deficit di bilancio statale finiscono in commesse
militari e utili per le industrie belliche. E la classe media scompare. Se
il modello americano prevale anche in Europa, rimaniamo noi, la plebe, in
basso, e i patrizi là in alto nel castello. Come dire, da Franz Kafka a
Blade Runner.