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siamo tutti sorvegliati speciali
- Subject: siamo tutti sorvegliati speciali
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 25 Nov 2002 06:51:39 +0100
il manifesto - 15 Novembre 2002 Siamo tutti sorvegliati speciali Dal consumo al lavoro, dalle convinzioni religiose alle preferenze sessuali, la realta sociale e le vite individuali sono messe sotto controllo grazie alle tecnologie digitali. Un'intervista con David Lyon, autore del libro Feltrinelli «La società sorvegliata», da ieri in libreria BENEDETTO VECCHI Ogni suo libro è da considerare come la tappa di un lungo viaggio alla scoperta del rapporto tra le tecnologie e il controllo sociale. Il primo scalo è stato in un grandissimo centro commerciale giapponese dove si vendono tutti le ultime sfornate dell'elettronica di consumo, dalla macchina fotografica alla videocamere, dal lettore di compact-disk al computer portatile che ha più potenza elaborativa di quanto le umane capacità possono immaginare. Ma in questo grande mall dei circuiti stampati - descritto nel libro edito dal Mulino La società dell'informazione - David Lyon annota con minuzia come minuscole telecamere scrutino le migliaia di giovani e vecchi, uomini e donne, soffermandosi su un viso, selezionato tra altre centinaia di volti. David Lyon è uno studioso canadese - insegna alla Queen's University nell'Ontario - che si occupa di controllo sociale, ma che non è molto interessato a elaborare una sofisticate teoria in materia. Appunta, analizza, indaga le trasformazioni che hanno accompagnato la sorveglianza nelle società capitaliste. Lo ha fatto ne L'occhio elettronico (Feltrinelli), quando prese atto che il vecchio modello del Panopticon non reggeva alla prova dei fatti e mise al lavoro le teorie di Gilles Deleuze, Felix Guattari e Michael Foucault per capire come il computer stava modificando le forme di controllo sociale. Allora - il libro fu pubblicato a metà degli anni Novanta - David Lyon sosteneva che la privacy era messa a dura prova dalla pervasività del computer. Ma non era solo questo il problema che gli stava a cuore. Gli interessava molto di più la sorte della democrazia, dato che il silicio consegnava nelle mani delle grandi corporation un potere di controllo come mai era accaduto nel passato. E questo, in fondo, è il filo conduttore del suo ultimo libro tradotto in Italia, La società sorvegliata (Feltrinelli, pp. 272, ? 25, con una introduzione di Stefano Rodotà). Lei scrive diffusamente di una tendenza a una «spettacolarizzazione del privato», che ha come conseguenza una erosione dei confini tra la sfera pubblica e quella privata. Ma come viene riconfigurata quella «capacità di negoziare le condizioni che delimitano le relazioni sociali» su cui si basa la predominante concezione della privacy nelle società capitalistiche moderne? Per prima cosa, dobbiamo partire dal fatto che sia il concetto di «sorveglianza» che quello di «privacy» sono profondamente mutati negli ultimi decenni. In passato, la sorveglianza era l'oggetto su cui concentravano il loro interesse solo e soltanto poche istituzioni. Mi riferisco essenzialmente alla forze di polizia. Ora, tutte le istituzioni, dalla polizia alle imprese, dagli operatori di marketing alla scuola e alla sanità, svolgono una continua opera di monitoraggio sui comportamenti quotidiani, dal consumo al lavoro, dalle scelte etiche o religiose alle preferenze sessuali. In altri termini, è la vita sociale e le forme di vita individuali che sono messe sotto controllo. Allo stesso tempo, anche il significato di privacy muta. E se storicamente la riservatezza era lo spazio al riparo dallo sguardo pubblico, cioè una zona di immunità dalle ingerenze della società nella propria vita privata, attualmente per privacy si intende la ripresa di controllo del flusso dei propri dati personali. La sorveglianza non è più quindi monopolio delle burocrazie governative. Può spiegare come questo monopolio statale della sorveglianza è venuto meno? La parola chiave è appunto monopolio. Anche in questo caso dobbiamo distinguere il presente dal passato. Nelle società capitaliste, la sorveglianza è sempre stata di competenza dello stato-nazione e coinvolgeva le forze di sicurezza interne, polizia, servizi segreti, in alcuni casi l'esercito. Con il welfare state, il compito è stato esteso alle istituzioni che erogavano i servizi sociali al fine di appurare che fossero rispettate le norme per accedere appunto ai servizi sociali. Ora non è più solo così. C'è sorveglianza sul luogo di lavoro, non solo per misurare la produttività individuale, ma per verificare che la vita extralavorativa corrisponda a standard di efficienza e di sicurezza. Prendiamo una pratica molto diffusa nei paesi anglosassoni. Quando si fa una domanda di lavoro, ci sono alcune quesiti a cui bisogna rispondere che riguardano la propensione o meno ad assumere sostanze stupefacenti, alcol, le convinzioni religiose o le preferenze sessuali. Oppure le imprese cercano di appurare lo stato di salute del dipendente o se, nella sua famiglia di provenienza, ci siano stati casi di deficit genetico. Puoi ovviamente non rispondere, ma è una scelta che depone a tuo sfavore, perché giudicata poco collaborativa. Fin qui siamo comunque nel campo della ricerca di informazioni. Il discorso diventa ancor più inquietante se l'impresa richiede informazioni al servizio sanitario nazionale o alle banche per accertare le condizioni del tuo conto individuale o della tua biografia «sanitaria». Lo stesso accade per quanto riguarda le preferenze culturali o di consumo. Si acquista una merce al supermercato, pagandola con una carta di credito: quei dati vengono memorizzati e spesso venduti a società che pianificano il marketing di determinate imprese. Anche in questo caso, ad esercitare la sorveglienza non è più solo lo stato-nazione. Il salto verso la società della sorveglianza si ha però quando le banche-dati che hanno acquisito i dati individuali possono essere collegate tra loro. Lo stesso si può dire per tutto ciò che riguarda la sicurezza. Le telecamere diffuse per le strade, nei supermercati, nei centri commerciali tendono a creare una rete di controlli al fine di prevenire furti o rapine. Ma anche in questo caso è sempre più frequente che i sistemi di sicurezza privati sono collegati alle banche dati delle forze di polizia. Voglio inoltre sottolineare un fenomeno di cui, però, non si riesce ancora a tracciare i confini precisi. Mi riferisco al rafforzamento dei sistemi di sorveglianza della polizia e delle forze di sicurezza dopo l'attentato dell'11 settembre alle Torri Gemelle. Al di là dei singoli provvedimenti presi da questa o quella nazione, è sicuro che quel fatto sta modificando profondamente la società della sorveglianza. Nel volume lei parla di un circolo virtuoso tra privatizzazione del rischio e aumento della sorveglianza... Si può parlare di circolo virtuoso solo nel senso che la privatizzazione del rischio accelera il monitoraggio della vita quotidiana. Dobbiamo però partire anche da un altro punto di vista se vogliamo comprendere come funziona il circolo virtuoso al quale accennava. Quando i rischi - e le conseguenti informazioni che possono rappresentare un business per le imprese - sono definiti, c'è una variabile che entra in campo: tutte le tecnologie della sorveglianza hanno un legame diretto con le paure e i timori di una parte della popolazione di una minaccia dell'ordine sociale o di una possibile limitazione dei loro consumi. In sintesi, tutti noi siamo continuamente classificati in categorie che determinano strategie e obiettivi delle istituzioni preposte alla sorveglianza. Strategie e obiettivi che sono perseguiti spesso con la nostra complicità. Nel precedente libro, lei si diffondeva sul synopticon, cioè su una proliferazione di tecnologie e istituzioni della sorveglianza. Su questo, lei parla di una una orchestrazione sociale che tende a un aumento della sorveglianza. Non è certo un «superpanopticon», quanto una forma molto sofisticata di «synopticon». Lei che ne pensa? Nella mia attività di studioso ha cercato sempre di comprendere come operassero le differenti varietà di tecnologie della sorveglianza. Questo mi ha portato ad affermare che non ci troviamo di fronte né al vecchio panopticon descritto dal filosofo e ingegnere inglese Jeremy Bentham, né a una sua superfetazione. Nel caso del modello proposto da Bentham eravamo di fronte a un potere esercitato da un oscuro osservatore. Nel panopticon, quindi i pochi osservano i molti. Quello che intendevo sottolineare nel libro L'occhio elettronico è che ci troviamo di fronte a una situazione in cui i molti scrutano e controllano i pochi. Un mutamento nelle forme di controllo che ha delle ripercussioni profonde nel tessuto sociale. Quando scrissi quel libro, ho definito, assieme ad altri, questa dinamica di controllo sociale come synopticon. Ora, sto lavorando a un libro sulla «Sorveglianza dopo l'11 settembre» nel quale riprendo questo concetto. Le immagini dell'attacco e del crollo del World Trade Center sono state ossessivamente riproposte per mesi dai media. E' un chiaro esempio dei molti che vedono i pochi. E tuttavia ritengo che il crollo delle Twin Towers abbiano allo stesso tempo rafforzato le richieste di maggiore misure di sorveglianza che ricordano proprio il modello centralizzato di controllo. Tutto ciò per dimostrare che la società della sorveglianza prevede diverse modalità di controllo sociale, da quello tradizionale - l'oscuro osservatore che scruta i molti senza essere visto - a quello synoptico - i molti che scrutano i pochi. Per aumentare la tassonomia del controllo sociale possiamo anche annotare ciò che io definisco comopticon. Si tratta di un fenomeno abbastanza recente che ha a che fare con la diffusione di Internet e con la tendenza a mettere telecamere che registrano la vita di tutti i giorni e che, collegandosi ad alcuni siti Internet, possono essere viste. In questo caso si tratta di una forma di controllo dove i pochi osservano altri pochi. Possono essere immagini che riguardano la vita sessuale di chi è ripreso, oppure sit-com realiste di una normale vita domestica. In ogni caso, c'è una forte convergenza tra differenti tipi di sorrveglianza che non esistenvano in passato e questo accade per la crescente integrazione di diverse tecnologie, sia che si tratti di database che reti di computer, di telecamere digitali che di telefoni cellulari. Tuttavia, ritengo che tale convergenza ha molto a che fare con l'esercizio del potere nella società capitalista e con il conflitto sociale nelle società capitaliste. Lei infatti scrive di «mutualità dilatabile» delle tecnologie digitali, cioè di tecnologie pensate per uno scopo e poi utilizzate anche per altri obiettivi. Si potrebbe quindi affermare che non c'è «società della sorveglianza» senza tecnologie digitali. E' d'accordo? Mi ripeto. Il concetto di una società della sorveglianza suggerisce l'idea che la vita è scrutata in ogni suo aspetto da una o più istituzioni sia pubbliche che private. Questo non sarebbe possibile senza le tecnologie digitali. Le reti telematiche di computer non solo la rendono possibile, permettendo il collegamento tra diverse banche dati, ma rafforzano le pratiche di controllo sociale, fornendo di volta in volta gli strumenti adatti. Tuttavia, non possiamo dimenticare che ci sono altre tecnologie che concorrono alla sorveglianza. Mi riferisco alle videocamere che riprendono volti, corpi, i quali a loro volta possono essere ridotti a un ammasso di bit e fornire la morfologia di un soggetto a rischio. E' quanto sta facendo Scotlan Yard, ma anche la polizia americana o canadese. Tutto ciò sposta il discorso a un altro lievello: come controllare i controllori? Si può parlare in forma moderna di sorveglianza solo in presenza della metropoli. Nelle «informational cities», le élite globali hanno bisogno di molte informazioni per garantire le loro «comunità recintate». Quindi il digital divide non riguarda solo le diseguaglianze tra Nord e Sud del mondo, ma anche le società capitaliste più sviluppate. Può spiegare meglio come opera il digital divide nelle metropoli occidentali? C'è un digital divide che riguarda i differenti livelli di accesso alle informazioni. E' quello che riguarda le differenza tra il Nord e il Sud del mondo. C'è inoltre anche un altro digital divide. Mi spiego meglio. Le differenze di classe, razziali, sessuali e le ineguaglianze sono rafforzate dalle nuove pratiche della sorveglianza. E questo lo vediamo meglio proprio nelle grandi metropoli. Prendiamo ad esempio la videosorveglianza nelle metropoli americane. Scrutano quasi ossessivamente tutti i movimenti dei giovani, in particolar modo se sono afroamericani. Lo stesso si può dire di come funzionano le polizze di assicurazione o sanitarie, che cambiano a seconda dei quartieri: più un quartiere è considerato a rischio, meno la polizza di assicurazione garantisce indennizzo o copertura in caso di rapina o malattia. Ma questo si ripercuote anche sugli spostamenti di capitale all'interno delle metropoli: chi mai investirà in un quartiere considerato a rischio? Pochi, accentuando così il suo degrado. In altri termini, le tecnologie di sorveglianza riproducono le differenze sociali, ampliandole. Certo, non è un fenomeno lineare. Possiamo infatti tranquillamente dire che alcune persone possono ottenere buoni servizi dalle imprese più facilmente di altre perché l'«algoritmo di sistema» li ha sorteggiati in base ad alcune parametri che stabiliscono le «categorie privilegiate». Ma questa casualità non contrasta però la tendenza di fondo, cioè che le tecnologie della sorveglianza acuiscono le differenze di classe, razziali, sessuali.
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