siamo tutti sorvegliati speciali



     
    
 
 
il manifesto - 15 Novembre 2002
 
Siamo tutti sorvegliati speciali 
Dal consumo al lavoro, dalle convinzioni religiose alle preferenze
sessuali, la realta sociale e le vite individuali sono messe sotto
controllo grazie alle tecnologie digitali. Un'intervista con David Lyon,
autore del libro Feltrinelli «La società sorvegliata», da ieri in libreria
BENEDETTO VECCHI
Ogni suo libro è da considerare come la tappa di un lungo viaggio alla
scoperta del rapporto tra le tecnologie e il controllo sociale. Il primo
scalo è stato in un grandissimo centro commerciale giapponese dove si
vendono tutti le ultime sfornate dell'elettronica di consumo, dalla
macchina fotografica alla videocamere, dal lettore di compact-disk al
computer portatile che ha più potenza elaborativa di quanto le umane
capacità possono immaginare. Ma in questo grande mall dei circuiti stampati
- descritto nel libro edito dal Mulino La società dell'informazione - David
Lyon annota con minuzia come minuscole telecamere scrutino le migliaia di
giovani e vecchi, uomini e donne, soffermandosi su un viso, selezionato tra
altre centinaia di volti. David Lyon è uno studioso canadese - insegna alla
Queen's University nell'Ontario - che si occupa di controllo sociale, ma
che non è molto interessato a elaborare una sofisticate teoria in materia.
Appunta, analizza, indaga le trasformazioni che hanno accompagnato la
sorveglianza nelle società capitaliste. Lo ha fatto ne L'occhio elettronico
(Feltrinelli), quando prese atto che il vecchio modello del Panopticon non
reggeva alla prova dei fatti e mise al lavoro le teorie di Gilles Deleuze,
Felix Guattari e Michael Foucault per capire come il computer stava
modificando le forme di controllo sociale. Allora - il libro fu pubblicato
a metà degli anni Novanta - David Lyon sosteneva che la privacy era messa a
dura prova dalla pervasività del computer. Ma non era solo questo il
problema che gli stava a cuore. Gli interessava molto di più la sorte della
democrazia, dato che il silicio consegnava nelle mani delle grandi
corporation un potere di controllo come mai era accaduto nel passato. E
questo, in fondo, è il filo conduttore del suo ultimo libro tradotto in
Italia, La società sorvegliata (Feltrinelli, pp. 272, ? 25, con una
introduzione di Stefano Rodotà).



Lei scrive diffusamente di una tendenza a una «spettacolarizzazione del
privato», che ha come conseguenza una erosione dei confini tra la sfera
pubblica e quella privata. Ma come viene riconfigurata quella «capacità di
negoziare le condizioni che delimitano le relazioni sociali» su cui si basa
la predominante concezione della privacy nelle società capitalistiche moderne?

Per prima cosa, dobbiamo partire dal fatto che sia il concetto di
«sorveglianza» che quello di «privacy» sono profondamente mutati negli
ultimi decenni. In passato, la sorveglianza era l'oggetto su cui
concentravano il loro interesse solo e soltanto poche istituzioni. Mi
riferisco essenzialmente alla forze di polizia. Ora, tutte le istituzioni,
dalla polizia alle imprese, dagli operatori di marketing alla scuola e alla
sanità, svolgono una continua opera di monitoraggio sui comportamenti
quotidiani, dal consumo al lavoro, dalle scelte etiche o religiose alle
preferenze sessuali. In altri termini, è la vita sociale e le forme di vita
individuali che sono messe sotto controllo. Allo stesso tempo, anche il
significato di privacy muta. E se storicamente la riservatezza era lo
spazio al riparo dallo sguardo pubblico, cioè una zona di immunità dalle
ingerenze della società nella propria vita privata, attualmente per privacy
si intende la ripresa di controllo del flusso dei propri dati personali.

La sorveglianza non è più quindi monopolio delle burocrazie governative.
Può spiegare come questo monopolio statale della sorveglianza è venuto meno?

La parola chiave è appunto monopolio. Anche in questo caso dobbiamo
distinguere il presente dal passato. Nelle società capitaliste, la
sorveglianza è sempre stata di competenza dello stato-nazione e coinvolgeva
le forze di sicurezza interne, polizia, servizi segreti, in alcuni casi
l'esercito. Con il welfare state, il compito è stato esteso alle
istituzioni che erogavano i servizi sociali al fine di appurare che fossero
rispettate le norme per accedere appunto ai servizi sociali. Ora non è più
solo così. C'è sorveglianza sul luogo di lavoro, non solo per misurare la
produttività individuale, ma per verificare che la vita extralavorativa
corrisponda a standard di efficienza e di sicurezza. Prendiamo una pratica
molto diffusa nei paesi anglosassoni.

Quando si fa una domanda di lavoro, ci sono alcune quesiti a cui bisogna
rispondere che riguardano la propensione o meno ad assumere sostanze
stupefacenti, alcol, le convinzioni religiose o le preferenze sessuali.
Oppure le imprese cercano di appurare lo stato di salute del dipendente o
se, nella sua famiglia di provenienza, ci siano stati casi di deficit
genetico. Puoi ovviamente non rispondere, ma è una scelta che depone a tuo
sfavore, perché giudicata poco collaborativa.

Fin qui siamo comunque nel campo della ricerca di informazioni. Il discorso
diventa ancor più inquietante se l'impresa richiede informazioni al
servizio sanitario nazionale o alle banche per accertare le condizioni del
tuo conto individuale o della tua biografia «sanitaria». Lo stesso accade
per quanto riguarda le preferenze culturali o di consumo. Si acquista una
merce al supermercato, pagandola con una carta di credito: quei dati
vengono memorizzati e spesso venduti a società che pianificano il marketing
di determinate imprese. Anche in questo caso, ad esercitare la sorveglienza
non è più solo lo stato-nazione. Il salto verso la società della
sorveglianza si ha però quando le banche-dati che hanno acquisito i dati
individuali possono essere collegate tra loro. Lo stesso si può dire per
tutto ciò che riguarda la sicurezza. Le telecamere diffuse per le strade,
nei supermercati, nei centri commerciali tendono a creare una rete di
controlli al fine di prevenire furti o rapine. Ma anche in questo caso è
sempre più frequente che i sistemi di sicurezza privati sono collegati alle
banche dati delle forze di polizia.

Voglio inoltre sottolineare un fenomeno di cui, però, non si riesce ancora
a tracciare i confini precisi. Mi riferisco al rafforzamento dei sistemi di
sorveglianza della polizia e delle forze di sicurezza dopo l'attentato
dell'11 settembre alle Torri Gemelle. Al di là dei singoli provvedimenti
presi da questa o quella nazione, è sicuro che quel fatto sta modificando
profondamente la società della sorveglianza.

Nel volume lei parla di un circolo virtuoso tra privatizzazione del rischio
e aumento della sorveglianza...

Si può parlare di circolo virtuoso solo nel senso che la privatizzazione
del rischio accelera il monitoraggio della vita quotidiana. Dobbiamo però
partire anche da un altro punto di vista se vogliamo comprendere come
funziona il circolo virtuoso al quale accennava. Quando i rischi - e le
conseguenti informazioni che possono rappresentare un business per le
imprese - sono definiti, c'è una variabile che entra in campo: tutte le
tecnologie della sorveglianza hanno un legame diretto con le paure e i
timori di una parte della popolazione di una minaccia dell'ordine sociale o
di una possibile limitazione dei loro consumi. In sintesi, tutti noi siamo
continuamente classificati in categorie che determinano strategie e
obiettivi delle istituzioni preposte alla sorveglianza. Strategie e
obiettivi che sono perseguiti spesso con la nostra complicità.

Nel precedente libro, lei si diffondeva sul synopticon, cioè su una
proliferazione di tecnologie e istituzioni della sorveglianza. Su questo,
lei parla di una una orchestrazione sociale che tende a un aumento della
sorveglianza. Non è certo un «superpanopticon», quanto una forma molto
sofisticata di «synopticon». Lei che ne pensa?

Nella mia attività di studioso ha cercato sempre di comprendere come
operassero le differenti varietà di tecnologie della sorveglianza. Questo
mi ha portato ad affermare che non ci troviamo di fronte né al vecchio
panopticon descritto dal filosofo e ingegnere inglese Jeremy Bentham, né a
una sua superfetazione. Nel caso del modello proposto da Bentham eravamo di
fronte a un potere esercitato da un oscuro osservatore. Nel panopticon,
quindi i pochi osservano i molti. Quello che intendevo sottolineare nel
libro L'occhio elettronico è che ci troviamo di fronte a una situazione in
cui i molti scrutano e controllano i pochi. Un mutamento nelle forme di
controllo che ha delle ripercussioni profonde nel tessuto sociale. Quando
scrissi quel libro, ho definito, assieme ad altri, questa dinamica di
controllo sociale come synopticon.

Ora, sto lavorando a un libro sulla «Sorveglianza dopo l'11 settembre» nel
quale riprendo questo concetto. Le immagini dell'attacco e del crollo del
World Trade Center sono state ossessivamente riproposte per mesi dai media.
E' un chiaro esempio dei molti che vedono i pochi. E tuttavia ritengo che
il crollo delle Twin Towers abbiano allo stesso tempo rafforzato le
richieste di maggiore misure di sorveglianza che ricordano proprio il
modello centralizzato di controllo. Tutto ciò per dimostrare che la società
della sorveglianza prevede diverse modalità di controllo sociale, da quello
tradizionale - l'oscuro osservatore che scruta i molti senza essere visto -
a quello synoptico - i molti che scrutano i pochi. Per aumentare la
tassonomia del controllo sociale possiamo anche annotare ciò che io
definisco comopticon.

Si tratta di un fenomeno abbastanza recente che ha a che fare con la
diffusione di Internet e con la tendenza a mettere telecamere che
registrano la vita di tutti i giorni e che, collegandosi ad alcuni siti
Internet, possono essere viste. In questo caso si tratta di una forma di
controllo dove i pochi osservano altri pochi. Possono essere immagini che
riguardano la vita sessuale di chi è ripreso, oppure sit-com realiste di
una normale vita domestica.

In ogni caso, c'è una forte convergenza tra differenti tipi di
sorrveglianza che non esistenvano in passato e questo accade per la
crescente integrazione di diverse tecnologie, sia che si tratti di database
che reti di computer, di telecamere digitali che di telefoni cellulari.
Tuttavia, ritengo che tale convergenza ha molto a che fare con l'esercizio
del potere nella società capitalista e con il conflitto sociale nelle
società capitaliste.

Lei infatti scrive di «mutualità dilatabile» delle tecnologie digitali,
cioè di tecnologie pensate per uno scopo e poi utilizzate anche per altri
obiettivi. Si potrebbe quindi affermare che non c'è «società della
sorveglianza» senza tecnologie digitali. E' d'accordo?

Mi ripeto. Il concetto di una società della sorveglianza suggerisce l'idea
che la vita è scrutata in ogni suo aspetto da una o più istituzioni sia
pubbliche che private. Questo non sarebbe possibile senza le tecnologie
digitali. Le reti telematiche di computer non solo la rendono possibile,
permettendo il collegamento tra diverse banche dati, ma rafforzano le
pratiche di controllo sociale, fornendo di volta in volta gli strumenti
adatti. Tuttavia, non possiamo dimenticare che ci sono altre tecnologie che
concorrono alla sorveglianza. Mi riferisco alle videocamere che riprendono
volti, corpi, i quali a loro volta possono essere ridotti a un ammasso di
bit e fornire la morfologia di un soggetto a rischio. E' quanto sta facendo
Scotlan Yard, ma anche la polizia americana o canadese. Tutto ciò sposta il
discorso a un altro lievello: come controllare i controllori?

Si può parlare in forma moderna di sorveglianza solo in presenza della
metropoli. Nelle «informational cities», le élite globali hanno bisogno di
molte informazioni per garantire le loro «comunità recintate». Quindi il
digital divide non riguarda solo le diseguaglianze tra Nord e Sud del
mondo, ma anche le società capitaliste più sviluppate. Può spiegare meglio
come opera il digital divide nelle metropoli occidentali?

C'è un digital divide che riguarda i differenti livelli di accesso alle
informazioni. E' quello che riguarda le differenza tra il Nord e il Sud del
mondo. C'è inoltre anche un altro digital divide. Mi spiego meglio. Le
differenze di classe, razziali, sessuali e le ineguaglianze sono rafforzate
dalle nuove pratiche della sorveglianza. E questo lo vediamo meglio proprio
nelle grandi metropoli. Prendiamo ad esempio la videosorveglianza nelle
metropoli americane. Scrutano quasi ossessivamente tutti i movimenti dei
giovani, in particolar modo se sono afroamericani. Lo stesso si può dire di
come funzionano le polizze di assicurazione o sanitarie, che cambiano a
seconda dei quartieri: più un quartiere è considerato a rischio, meno la
polizza di assicurazione garantisce indennizzo o copertura in caso di
rapina o malattia. Ma questo si ripercuote anche sugli spostamenti di
capitale all'interno delle metropoli: chi mai investirà in un quartiere
considerato a rischio? Pochi, accentuando così il suo degrado. In altri
termini, le tecnologie di sorveglianza riproducono le differenze sociali,
ampliandole. Certo, non è un fenomeno lineare. Possiamo infatti
tranquillamente dire che alcune persone possono ottenere buoni servizi
dalle imprese più facilmente di altre perché l'«algoritmo di sistema» li ha
sorteggiati in base ad alcune parametri che stabiliscono le «categorie
privilegiate». Ma questa casualità non contrasta però la tendenza di fondo,
cioè che le tecnologie della sorveglianza acuiscono le differenze di
classe, razziali, sessuali.