usa : crisi ciclica e crisi strutturale



     
 
il manifesto - 21 Settembre 2002 
 
 
Crisi ciclica e crisi strutturale 
Alla radici della recessione dell'economia statunitense gli eccessivi
squilibri nella distribuzione del reddito
ROBERTO SCHIATTARELLA
Il cattivo andamento dell'economia americana che si è cominciato a
delineare all'inizio del 2001 sembra aver sorpreso molti, nonostante
l'ovvia considerazione che anche la più lunga fase espansiva del dopoguerra
sperimentata da un paese industriale presto o tardi sarebbe dovuta
terminare. La sorpresa non sta dunque nel fatto in se, quanto nel
prolungarsi di una fase recessiva che appare privo di giustificazione alla
luce del buon senso corrente. Dopo quasi vent'anni di esaltazione del
mercato, di libera circolazione dei capitali, del profitto come strumento
di crescita economica, é difficile spiegarsi l'insorgere di una crisi in un
paese che ha tutte le caratteristiche necessarie per garantire il più alto
sviluppo economico possibile. Non c'è dubbio che gli analisti hanno in
passato trascurato indicazioni che avrebbero potuto mettere in evidenza le
incongruenze dello sviluppo statunitense. Le spiegazioni correntemente date
della straordinaria fase di crescita dell'economia Usa, individuate
nell'alto livello delle competenze tecnologiche, in un'efficiente
organizzazione dei mercati, in un ruolo dello stato ridotto, se non
marginale, in un bilancio pubblico in attivo, in un livello della
tassazione basso ed in un ugualmente basso livello di protezione sociale,
in un mercato del lavoro particolarmente flessibile, hanno un difetto
evidente. Presuppongono una sistematica supremazia nel tempo delle
performance Usa che invece non c'è stata. Queste caratteristiche infatti
rendevano diversa la realtà europea e giapponese rispetto a quella
americana già negli anni `50 e per oltre trent'anni sono state l'economia
europea e giapponese ad avere sistematicamente le migliori performance
economiche. D'altra parte si è trascurato l'incerto andamento della
bilancia commerciale Usa - che è il principale indicatore di competitività
di un paese - e in particolare il continuo peggioramento del saldo della
componente ad alta tecnologia.

Ma la sorpresa trova la sua origine soprattutto nel fatto che gli schemi
interpretativi che ieri spiegavano lo sviluppo non permettono oggi di
comprendere il significato di quanto sta avvenendo. Il problema sta nel
fatto che per capire l'eccezionale crescita degli anni `90 ed i pericoli
che incombono sull'economia Usa occorre guardare soprattutto alle
particolari condizioni della domanda che si sono venute a creare per
effetto dell'importanza assunta dai movimenti dei capitali: hanno permesso
infatti agli Usa di trasformare un proprio limite strutturale, la bassa
propensione al risparmio, in un importante fattore di sviluppo. Infatti ha
messo a disposizione di un'economia caratterizzata da un'alta propensione
al consumo, un'alta domanda, le risorse indispensabili per finanziare gli
investimenti necessari per sostenere quest'alta domanda.

Ovviamente la politica economica americana si è dovuto porre il problema di
rendere effettivo questo afflusso di capitali creando condizioni favorevoli
attraverso politiche mirate a creare e mantenere aspettative positive
sull'andamento dei corsi azionari, sull'andamento dei tassi di interesse e
sulle prospettive di cambio tra il dollaro e le altre monete. Ma nel
raggiungimento di questo obiettivo è stata aiutata anche dal fatto che, in
una situazione in cui i capitali di tutto il mondo sono liberi di muoversi,
il sistema economico che ha un ruolo centrale nel mondo occidentale
costituisce un polo naturale di attrazione (rafforzato dal fatto che New
York è il centro finanziario più importante al mondo).

Ed è proprio questo vantaggio che ha svolto un ruolo cruciale nell'avviare
lo sviluppo Usa. L'afflusso spontaneo di risorse finanziarie ha in primo
luogo avviato una crescita consistente dei corsi dei titoli in borsa che,
per il gioco delle aspettative, si è autoalimentata; in secondo luogo, ha
determinato una rivalutazione del dollaro che, ancora una volta, per il
gioco delle aspettative si è avvitata su se stessa attirando nuovi
capitali. La lievitazione del valore delle azioni, in un paese in cui
l'investimento in borsa è diffuso tra le famiglie, ha generato il
cosiddetto effetto ricchezza, cioè un cambiamento nei comportamenti delle
famiglie legato ad un aumento della loro ricchezza. Il forte aumento dei
consumi ha alimentato una crescita della domanda interna che, a sua volta,
ha spinto in alto la crescita del reddito. Questo ha migliorato le
prospettive di vendita delle imprese ed ha fatto aumentare il valore dei
titoli, creando in questo modo un circuito virtuoso di crescita.

Questo meccanismo è durato finché sono affluiti capitali verso gli Usa. Ma
per attirare capitali occorre creare aspettative vantaggiose sui mercati
Usa sia in termini di redditività degli investimenti che di rivalutazione
del cambio. E questo non può essere fatto per un periodo illimitato di
tempo. Il meccanismo di sviluppo si è inceppato quando le imprese si sono
accorte di avere capacità produttiva in eccesso e hanno ridimensionato i
piani di investimento. Il ridimensionamento degli investimenti ha infatti
segnalato agli investitori internazionali l'esistenza di un rallentamento
nella crescita della domanda interna Usa con il conseguente peggioramento
delle prospettive delle aziende e del loro valore in borsa. L'afflusso dei
capitali verso la borsa statunitense è diminuito ed è calato il corso dei
titoli. Il problema dell'attuale congiuntura sta nel fatto che una
diminuzione del valore atteso in borsa delle imprese, se percepita come
durevole, può mettere in discussione l'intero meccanismo di sviluppo. Crea
infatti un effetto ricchezza al contrario; colpisce i consumi delle
famiglie, incidendo per questa via sulla domanda e sulle prospettive di
vendita delle imprese. Con l'effetto ulteriore di diminuire di nuovo illoro
valore atteso in borsa. Dando vita, in altre parole, ad una spirale
recessiva estremamente pericolosa che, anche se non si è pienamente
avviata, se non fermata in tempo, tenderà ad autoalimentarsi coinvolgendo
nel tempo il sistema bancario.

Crisi ciclica dunque, quella dell'economia Usa, ma che, in quanto
espressione della rottura di un meccanismo di crescita che aveva funzionato
per un decennio, può essere anche considerata crisi di natura strutturale.
Neanche gli Usa possono riuscire a creare le condizioni per un afflusso
illimitato di capitali nel tempo. Il caso dei bilanci truccati di alcune
grandi imprese americane può essere visto come espressione di malavita
finanziaria solo se non si tiene conto del fatto che l'intero sistema di
sviluppo di quel paese si reggeva sulla necessità che le imprese americane
facessero profitti tali da giustificare una crescita del corso dei titoli
essenziale per mantenere alta la domanda. Crisi di cui è difficile capire
gli esiti anche per il contesto politico-culturale in cui si sta
sviluppando. L'amministrazione Bush, pur mostrando un certo pragmatismo dal
punto di vista delle politiche di intervento, fa difficoltà a riconvertirsi
ad una politica di "regole" dopo aver fatto delle capacità autoregolatrici
del mercato la propria bandiera.

Crisi che probabilmente inciderà sulla cultura economica non solo di
sinistra, anche se si riuscirà ad impedire che si avviti su se stessa, come
peraltro c'è da augurarsi. I ripensamenti saranno tanto più significativi
quanto minori saranno le capacità di controllo sulla congiuntura, quanto
più sarà profonda e quanto più durerà la recessione. Certo é che già da
oggi alcune lezioni si possono trarre da quanto è accaduto, e cioé:

a) le politiche di intervento del governo Usa, che nell'ultimo anno sono
state sempre più incisive, sono anche sempre meno coerenti con la cultura
economica dominante. Se la crisi non si è ancora pienamente esplicitata
questo è dovuto all'intenso lavoro delle istituzioni economiche. Questa
esperienza ripropone la centralità del ruolo della politica economica nello
sviluppo e dovrebbe indurre i governanti europei ad un maggior coraggio nel
disegnare le politiche di intervento;

b) il fatto che gli Usa si propongano come il paese moderno per eccellenza
deve essere visto anche come espressione della necessità degli Usa di
attrarre capitali. Una sorta di campagna d'immagine che, più che proporre
un modello di sviluppo da esportare, si pone l'obiettivo di definire una
gerarchia di «supposte» capacità strutturali tra i paesi. Di questo
occorrerebbe tener conto quando si vogliono importare ricette estranee alla
nostra tradizione (anche se è possibile considerare interessanti alcuni
aspetti dell'esperienza americana);

c) far coincidere gli interessi generali di un paese con quelli delle
imprese è operazione più che discutibile sul piano culturale non solo se si
ragiona in termini di equità ma anche di efficienza. Lo spostamento della
distribuzione del reddito a favore dei profitti che si è realizzato in
tutti i paesi industriali nell'ultimo decennio ha finito col comprimere i
consumi che costituiscono un importante fattore di stabilità, ed aumentare
il ruolo di fattori di instabilità come i movimenti internazionali di
capitali. Le politiche del lavoro volte a spostare sul lavoro (e quindi
sulle famiglie) il costo della discontinuità della crescita, attraverso una
maggiore facilità di licenziamento, così come quelle che depotenziano il
ruolo dello stato in tema di malattia e pensioni in favore di un sistema di
assicurazione privato sono tutte accomunate dal fatto che, spostando il
rischio dalle imprese alle famiglie, incidono sul livello dei consumi (le
famiglie devono tutelarsi dal rischio), e quindi sulla stabilità e sulla
crescita dei sistemi economici. E un mondo economicamente più instabile è
anche un mondo più difficile da governare.