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usa : crisi ciclica e crisi strutturale
- Subject: usa : crisi ciclica e crisi strutturale
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 29 Sep 2002 07:51:27 +0200
il manifesto - 21 Settembre 2002 Crisi ciclica e crisi strutturale Alla radici della recessione dell'economia statunitense gli eccessivi squilibri nella distribuzione del reddito ROBERTO SCHIATTARELLA Il cattivo andamento dell'economia americana che si è cominciato a delineare all'inizio del 2001 sembra aver sorpreso molti, nonostante l'ovvia considerazione che anche la più lunga fase espansiva del dopoguerra sperimentata da un paese industriale presto o tardi sarebbe dovuta terminare. La sorpresa non sta dunque nel fatto in se, quanto nel prolungarsi di una fase recessiva che appare privo di giustificazione alla luce del buon senso corrente. Dopo quasi vent'anni di esaltazione del mercato, di libera circolazione dei capitali, del profitto come strumento di crescita economica, é difficile spiegarsi l'insorgere di una crisi in un paese che ha tutte le caratteristiche necessarie per garantire il più alto sviluppo economico possibile. Non c'è dubbio che gli analisti hanno in passato trascurato indicazioni che avrebbero potuto mettere in evidenza le incongruenze dello sviluppo statunitense. Le spiegazioni correntemente date della straordinaria fase di crescita dell'economia Usa, individuate nell'alto livello delle competenze tecnologiche, in un'efficiente organizzazione dei mercati, in un ruolo dello stato ridotto, se non marginale, in un bilancio pubblico in attivo, in un livello della tassazione basso ed in un ugualmente basso livello di protezione sociale, in un mercato del lavoro particolarmente flessibile, hanno un difetto evidente. Presuppongono una sistematica supremazia nel tempo delle performance Usa che invece non c'è stata. Queste caratteristiche infatti rendevano diversa la realtà europea e giapponese rispetto a quella americana già negli anni `50 e per oltre trent'anni sono state l'economia europea e giapponese ad avere sistematicamente le migliori performance economiche. D'altra parte si è trascurato l'incerto andamento della bilancia commerciale Usa - che è il principale indicatore di competitività di un paese - e in particolare il continuo peggioramento del saldo della componente ad alta tecnologia. Ma la sorpresa trova la sua origine soprattutto nel fatto che gli schemi interpretativi che ieri spiegavano lo sviluppo non permettono oggi di comprendere il significato di quanto sta avvenendo. Il problema sta nel fatto che per capire l'eccezionale crescita degli anni `90 ed i pericoli che incombono sull'economia Usa occorre guardare soprattutto alle particolari condizioni della domanda che si sono venute a creare per effetto dell'importanza assunta dai movimenti dei capitali: hanno permesso infatti agli Usa di trasformare un proprio limite strutturale, la bassa propensione al risparmio, in un importante fattore di sviluppo. Infatti ha messo a disposizione di un'economia caratterizzata da un'alta propensione al consumo, un'alta domanda, le risorse indispensabili per finanziare gli investimenti necessari per sostenere quest'alta domanda. Ovviamente la politica economica americana si è dovuto porre il problema di rendere effettivo questo afflusso di capitali creando condizioni favorevoli attraverso politiche mirate a creare e mantenere aspettative positive sull'andamento dei corsi azionari, sull'andamento dei tassi di interesse e sulle prospettive di cambio tra il dollaro e le altre monete. Ma nel raggiungimento di questo obiettivo è stata aiutata anche dal fatto che, in una situazione in cui i capitali di tutto il mondo sono liberi di muoversi, il sistema economico che ha un ruolo centrale nel mondo occidentale costituisce un polo naturale di attrazione (rafforzato dal fatto che New York è il centro finanziario più importante al mondo). Ed è proprio questo vantaggio che ha svolto un ruolo cruciale nell'avviare lo sviluppo Usa. L'afflusso spontaneo di risorse finanziarie ha in primo luogo avviato una crescita consistente dei corsi dei titoli in borsa che, per il gioco delle aspettative, si è autoalimentata; in secondo luogo, ha determinato una rivalutazione del dollaro che, ancora una volta, per il gioco delle aspettative si è avvitata su se stessa attirando nuovi capitali. La lievitazione del valore delle azioni, in un paese in cui l'investimento in borsa è diffuso tra le famiglie, ha generato il cosiddetto effetto ricchezza, cioè un cambiamento nei comportamenti delle famiglie legato ad un aumento della loro ricchezza. Il forte aumento dei consumi ha alimentato una crescita della domanda interna che, a sua volta, ha spinto in alto la crescita del reddito. Questo ha migliorato le prospettive di vendita delle imprese ed ha fatto aumentare il valore dei titoli, creando in questo modo un circuito virtuoso di crescita. Questo meccanismo è durato finché sono affluiti capitali verso gli Usa. Ma per attirare capitali occorre creare aspettative vantaggiose sui mercati Usa sia in termini di redditività degli investimenti che di rivalutazione del cambio. E questo non può essere fatto per un periodo illimitato di tempo. Il meccanismo di sviluppo si è inceppato quando le imprese si sono accorte di avere capacità produttiva in eccesso e hanno ridimensionato i piani di investimento. Il ridimensionamento degli investimenti ha infatti segnalato agli investitori internazionali l'esistenza di un rallentamento nella crescita della domanda interna Usa con il conseguente peggioramento delle prospettive delle aziende e del loro valore in borsa. L'afflusso dei capitali verso la borsa statunitense è diminuito ed è calato il corso dei titoli. Il problema dell'attuale congiuntura sta nel fatto che una diminuzione del valore atteso in borsa delle imprese, se percepita come durevole, può mettere in discussione l'intero meccanismo di sviluppo. Crea infatti un effetto ricchezza al contrario; colpisce i consumi delle famiglie, incidendo per questa via sulla domanda e sulle prospettive di vendita delle imprese. Con l'effetto ulteriore di diminuire di nuovo illoro valore atteso in borsa. Dando vita, in altre parole, ad una spirale recessiva estremamente pericolosa che, anche se non si è pienamente avviata, se non fermata in tempo, tenderà ad autoalimentarsi coinvolgendo nel tempo il sistema bancario. Crisi ciclica dunque, quella dell'economia Usa, ma che, in quanto espressione della rottura di un meccanismo di crescita che aveva funzionato per un decennio, può essere anche considerata crisi di natura strutturale. Neanche gli Usa possono riuscire a creare le condizioni per un afflusso illimitato di capitali nel tempo. Il caso dei bilanci truccati di alcune grandi imprese americane può essere visto come espressione di malavita finanziaria solo se non si tiene conto del fatto che l'intero sistema di sviluppo di quel paese si reggeva sulla necessità che le imprese americane facessero profitti tali da giustificare una crescita del corso dei titoli essenziale per mantenere alta la domanda. Crisi di cui è difficile capire gli esiti anche per il contesto politico-culturale in cui si sta sviluppando. L'amministrazione Bush, pur mostrando un certo pragmatismo dal punto di vista delle politiche di intervento, fa difficoltà a riconvertirsi ad una politica di "regole" dopo aver fatto delle capacità autoregolatrici del mercato la propria bandiera. Crisi che probabilmente inciderà sulla cultura economica non solo di sinistra, anche se si riuscirà ad impedire che si avviti su se stessa, come peraltro c'è da augurarsi. I ripensamenti saranno tanto più significativi quanto minori saranno le capacità di controllo sulla congiuntura, quanto più sarà profonda e quanto più durerà la recessione. Certo é che già da oggi alcune lezioni si possono trarre da quanto è accaduto, e cioé: a) le politiche di intervento del governo Usa, che nell'ultimo anno sono state sempre più incisive, sono anche sempre meno coerenti con la cultura economica dominante. Se la crisi non si è ancora pienamente esplicitata questo è dovuto all'intenso lavoro delle istituzioni economiche. Questa esperienza ripropone la centralità del ruolo della politica economica nello sviluppo e dovrebbe indurre i governanti europei ad un maggior coraggio nel disegnare le politiche di intervento; b) il fatto che gli Usa si propongano come il paese moderno per eccellenza deve essere visto anche come espressione della necessità degli Usa di attrarre capitali. Una sorta di campagna d'immagine che, più che proporre un modello di sviluppo da esportare, si pone l'obiettivo di definire una gerarchia di «supposte» capacità strutturali tra i paesi. Di questo occorrerebbe tener conto quando si vogliono importare ricette estranee alla nostra tradizione (anche se è possibile considerare interessanti alcuni aspetti dell'esperienza americana); c) far coincidere gli interessi generali di un paese con quelli delle imprese è operazione più che discutibile sul piano culturale non solo se si ragiona in termini di equità ma anche di efficienza. Lo spostamento della distribuzione del reddito a favore dei profitti che si è realizzato in tutti i paesi industriali nell'ultimo decennio ha finito col comprimere i consumi che costituiscono un importante fattore di stabilità, ed aumentare il ruolo di fattori di instabilità come i movimenti internazionali di capitali. Le politiche del lavoro volte a spostare sul lavoro (e quindi sulle famiglie) il costo della discontinuità della crescita, attraverso una maggiore facilità di licenziamento, così come quelle che depotenziano il ruolo dello stato in tema di malattia e pensioni in favore di un sistema di assicurazione privato sono tutte accomunate dal fatto che, spostando il rischio dalle imprese alle famiglie, incidono sul livello dei consumi (le famiglie devono tutelarsi dal rischio), e quindi sulla stabilità e sulla crescita dei sistemi economici. E un mondo economicamente più instabile è anche un mondo più difficile da governare.
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