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se il mondo batte cassa
- Subject: se il mondo batte cassa
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Mon, 29 Jul 2002 06:39:45 +0200
il manifesto - 18 Luglio 2002 ------------------------------------------------ Se il mondo batte cassa LUIGI CAVALLARO Se il mondo batte cassa Lo sviluppo dell'economia mondiale evidenzia due modelli di politica monetaria. Il primo, che ha segnato tutti i «gloriosi trenta anni keynesiani», ha cercato di limitare la crescita dei mercati finanziari internazionali. Il secondo, che caratterizza questo inizio millennio, punta alla creazione di un mercato finanziario globale che ha il suo centro negli Usa. In entrambi i casi, gli stati-nazione mantengono intatto il loro ruolo centrale nella definizione delle politiche monetarie, a differenza di quanto sostengono i cantori della fine delle sovranità nazionali. Alcune considerazioni a partire da «Il granello di sabbia. I pro e i contro della Tobin tax», un libro curato da Riccardo Bellofiore ed Emiliano Brancaccio e edito da Feltrinelli LUIGI CAVALLARO Secondo John Stuart Mill, uno dei sintomi del permanere della barbarie nei rapporti economici internazionali del XIX secolo era costituito dal fatto che quasi tutti i paesi indipendenti preferivano affermare la propria nazionalità conservando una propria moneta particolare, ancorché ciò avvenisse a discapito di ciascun paese e dei suoi vicini. E' chiaro che, se Mill avesse ragione, la nostra ostinazione nel mantenere, ancor oggi, codesta «barbarie» dovrebbe ritenersi frutto solo d'irredimibile imbecillità. Prima di indagare questo problema, può essere però opportuno chiarire in che senso l'esistenza di più monete può essere assunta come sintomo dell'esistenza di distinte (e potenzialmente conflittuali) sovranità nazionali. Consideriamo una versione semplificata del modello di Mundell e Fleming, il più classico dei contributi alla modellistica in tema di politica economica in regime di economia aperta, e immaginiamo due paesi, ciascuno dei quali produce una merce che è un sostituto imperfetto di un'altra, prodotta nell'altro paese. Supponiamo che esista perfetta mobilità dei capitali e che, allo scopo di combattere un eccesso di disoccupazione dovuto a carenza di domanda, nel primo paese l'autorità monetaria decida di avviare una politica monetaria espansiva, riducendo il tasso di sconto. La conseguenza immediata è la riduzione dei tassi d'interesse e un aumento della quantità di moneta a disposizione dei consumatori e degli imprenditori, che - sotto certe condizioni, che qui non esaminiamo - inducono un aumento della spesa globale, sia per investimenti che per consumi. Ne viene un aumento delle importazioni e, naturalmente, un aumento dell'accumulazione del capitale nel secondo paese, dove - correlativamente - il tasso di interesse aumenta. Ora, la differenza fra i tassi d'interesse non può permanere in regime di perfetta mobilità dei capitali, essendo tipico di questi ultimi spostarsi là dove maggiori sono i rendimenti. Di conseguenza, se fra i due paesi esiste un sistema di cambi flessibili (nel senso che nessuna delle autorità monetarie assume come proprio obiettivo il mantenimento di un certo livello del tasso di cambio fra le valute), lo squilibrio fra i tassi d'interesse si tradurrà in un deprezzamento della valuta del primo paese rispetto a quella del secondo paese, dal momento che i capitali tenderanno a uscire da l primo paese (che registrerà uno squilibrio della bilancia dei pagamenti) e ad affluire nel secondo paese. Ma a seguito del mutamento del rapporto di cambio, le merci prodotte nel primo paese diverranno relativamente più convenienti per i consumatori del secondo paese: aumenteranno, di conseguenza, le importazioni di quest'ultimo dal primo paese, il che indurrà in quest'ultimo paese la ripresa del processo d'accumulazione, a discapito proprio del secondo paese. Anche in questa forma semplificata, il modello illustra chiaramente le potenzialità della politica monetaria: in regime di cambi flessibili, l'autorità monetaria di un paese può senz'altro spostare «altrove» le difficoltà in cui si dibatte la propria economia (non per caso la manovra di politica monetaria qui esaminata è definita beggar-thy-neighbour). Non solo, ma per suo tramite si comprende anche un altro fenomeno tipico delle economie aperte, e cioè la tendenza delle manovre espansive a diffondersi da un paese all'altro: è evidente, infatti, che l'unica contromisura a disposizione del secondo paese per evitargli di «importare» la congiuntura sfavorevole del primo paese è quella di ribassare a sua volta i tassi d'interesse, cercando di spostare su un terzo paese le conseguenze della manovra del primo; il terzo, a sua volta, farà altrettanto e, in questo modo, gli effetti dell'espansione monetaria avviata nel primo paese raggiungeranno tutti i paesi coinvolti nel commercio internazionale. Non è casuale, allora, che, come corollario dell'avvenuta materializzazione dell'«Impero» - l'ordinamento giuridico del capitalismo mondializzato, anzi il capitalismo stesso che, trionfando, si è fatto Stato, secondo la definizione di Michael Hardt e Toni Negri nel loro fortunato Empire - si sia argomentata la scomparsa di quella relativa autonomia decisionale in materia di politica monetaria e di determinazione dei flussi merceologici che, secondo il modello di Mundell e Fleming, permette ai paesi più forti di regolare il loro ciclo economico interno, esportando nei paesi più deboli le proprie interne contraddizioni (si veda Andrea Fumagalli, Christian Marazzi, Adelino Zanini, La moneta nell'Impero, con prefazione di Toni Negri, Verona, Ombre Corte, pp. 117, 9,30). Una sovranità monetaria nazionale, infatti, non è punto compatibile con l'«Impero»: l'affermarsi di un mercato mondiale, secondo questa concezione, implica la decostruzione monetaria dei mercati nazionali, la dissoluzione dei regimi nazionali e/o regionali della regolazione monetaria e la loro subordinazione alla logica dei mercati finanziari, onde non sarebbero più - scrive Marazzi - le variazioni dei tassi d'interesse nei paesi-centro a guidare l'afflusso e il deflusso dei capitali rispetto alla periferia, ma i mercati finanziari ad imporre alle autorità monetarie nazionali quelle variazioni dei tassi necessarie ad assicurarne la liquidità. Ora, è senz'altro indubitabile che la disintermediazione dell'offerta di servizi finanziari a vantaggio di intermediari non bancari, l'esplosione dei cosiddetti prodotti derivati, la crescente integrazione dei mercati finanziari resa possibile dalla rivoluzione informatica e, in prospettiva (come sottolinea Zanini), lo sviluppo della cosiddetta e-money sono fattori che, enfatizzando la mobilità dei capitali, riducono i gradi di libertà della politica (e dunque della sovranità) monetaria. Ed è altrettanto indubitabile, si potrebbe aggiungere, che i risultati sconfortanti dei test econometrici cui è stata sottoposta la modellistica concernente l'andamento dei tassi di cambio, onde saggiarne la capacità previsiva, confermano a contrario che sui mercati finanziari conta non tanto la conoscenza dei cosiddetti «fondamentali», cioè delle determinanti ultime dei tassi di cambio di lungo periodo su cui le varie autorità monetarie basano le loro manovre, quanto piuttosto la capacità dei singoli operatori di indovinare come si muoverà il mercato nei prossimi dieci minuti, capacità che dipende a sua volta dall'istituirsi e dal permanere di «convenzioni» che, per il fatto stesso di fondarsi sulla comunicazione implicita o esplicita tra i vari operatori, travalicano la determinazione territoriale delle autorità monetarie. Ma ciò significa soltanto che, in regime di cambi flessibili, la politica monetaria diventa politica di cambio, nel senso che la sua capacità di fungere da stimolo dell'economia dipende dal deprezzamento del cambio e dai suoi effetti sulla bilancia commerciale, ossia dallo spostamento della domanda estera e nazionale verso merci nazionali, che viene assunto come obiettivo anche a costo di provocare shock deflazionistici in altri paesi. Che ciò enfatizzi il carattere destabilizzante della politica monetaria, piuttosto che ridurne (o addirittura escluderne) la portata, e renda desiderabile «gettare sabbia negli ingranaggi ben oliati del sistema» è, mi sembra, la lezione fondamentale che si può ricavare dall'insegnamento di James Tobin, la cui coerenza riformista in tema di tassazione delle transazioni finanziarie internazionali - recentemente revocata in dubbio da interessate e corsare «brevi» del quotidiano di Confindustria - il lettore italiano può finalmente verificare dalla sua «viva voce» in un ricco volume curato da Riccardo Bellofiore ed Emiliano Brancaccio (Il granello di sabbia. I pro e i contro della Tobin tax, Feltrinelli, pp. 138, 8,00 euro). Il motivo può essere compreso tornando a considerare la versione semplificata del modello di Mundell e Fleming, che sopra abbiamo presentato, ma supponendo, stavolta, che tra i due paesi viga un accordo che prevede un regime di cambi fissi. Se nel primo paese viene avviata una politica monetaria espansiva, la diminuzione del tasso d'interesse rispetto all'altro paese mette capo (come nell'esempio precedente) ad un peggioramento del saldo dei movimenti di capitale; d'altra parte, all'aumento della spesa per consumi e per investimenti corrisponde un deterioramento del saldo delle partite correnti. L'uno e l'altro deficit implicano un deflusso di riserve valutarie (e quindi di base monetaria) all'estero, che termina solo quando l'autorità monetaria adotta opportune contromisure per ripristinare la soluzione iniziale. Supponendo (come nell'esempio precedente) che vi sia perfetta mobilità di capitali, non si avrà alcuna temporanea riduzione del tasso d'interesse, dal momento che la perdita di riserve valutarie indurrà l'autorità monetaria a intervenire immediatamente al rialzo. La conclusione è che, nell'ipotesi (e solo nell'ipotesi) di cambi fissi e perfetta mobilità dei capitali, la sovranità monetaria è nulla. Ora, fintanto che ciascuna moneta era convertibile in oro e quest'ultimo funzionava come «denaro mondiale» (à la Marx, per intenderci), si poteva contare su di una stabilità dei cambi pressoché analoga a quella vigente in regime di cambi fissi, dal momento che l'aumento di liquidità in un paese, mettendo capo ad un disavanzo della bilancia commerciale, avrebbe provocato un deflusso d'oro idoneo ad aggiustare la quantità di mezzi fiduciari in circolazione alle riserve auree effettivamente possedute dalla banca centrale. Ma da quando questa misura comune è venuta a mancare e i vari Stati-nazione hanno adottato sistemi di cartamoneta inconvertibile, cioè di moneta esclusivamente fiduciaria, non operano più i meccanismi (relativamente) automatici del gold standard e, in queste condizioni, la possibilità di ciascun paese di usare la politica monetaria per esportare all'estero le proprie difficoltà congiunturali è limitata soltanto dalla disponibilità degli operatori finanziari e commerciali di altri paesi a detenere la sua valuta: quanto più disponibilità c'è, tanto maggiori saranno i gradi di libertà della politica (e della sovranità) monetaria. Che sarà massima, ovviamente, per quel paese la cui moneta emerga (o venga imposta) come moneta di riserva internazionale: quest'ultimo, infatti, godrà di un vero e proprio «signoraggio» (come spiegò vent'anni fa il compianto Riccardo Parboni), che gli permetterà di comprare merci dal resto del mondo senza offrire nulla in cambio se non una moneta priva di valore intrinseco, e riuscirà così a «tassare» gli altri paesi, senza che essi se ne accorgano, in misura pari al tasso di espansione della massa della sua moneta in circolazione. Ciò, naturalmente, non significa che il paese che batte la moneta di riserva possa variare illimitatamente a proprio favore la redistribuzione del reddito mondiale via disavanzi commerciali finanziati dall'emissione di propria moneta: anche per esso, infatti, si pone un confidence problem, onde l'abuso del torchio monetario potrebbe spingere gli operatori a convertire la valuta in loro possesso in altre attività, pregiudicando in tal modo il buon esito della strategia. Piuttosto, vale ad evidenziare una rilevante asimmetria nella distribuzione del potere nello spazio del mercato mondiale, dal momento che la sovranità di cui gode il paese detentore della moneta di riserva non è comparabile con nessun'altra, e soprattutto evidenzia una potenziale conflittualità fra i membri della cosiddetta «aristocrazia» mondiale, giacché il paese la cui moneta funge da «denaro mondiale» si opporrà strenuamente a ogni accordo relativo al valore esterno della propria moneta e contrasterà ogni tentativo che dovessero compiere gli altri per istituire riserve valutarie alternative. Qual è la morale di queste scarne considerazioni? Sulla scorta di un suggerimento di Marcello de Cecco, si può metterla in questi termini. Il secolo appena concluso ci consegna due modelli di globalizzazione, entrambi gestiti dagli stati ma con una differenza fondamentale: il primo modello cerca di ridurre al minimo lo sviluppo di mercati finanziari internazionali, che risultano assai difficili da controllare, e tende a costruire lo spazio economico globale in modo che la divisione internazionale del lavoro ubbidisca alle necessità espresse dalle strutture burocratiche degli stati-nazione; il secondo, invece, mette alla propria base lo sviluppo di un mercato finanziario globale ed è pilotato da quello stato che riesce a collocarne al proprio interno il «cuore», in modo da trarne il massimo di beneficio (alla faccia di J.S. Mill) via politica monetaria. Entrambi sono frutto di precise scelte politiche, ispirate da un diverso modo di intendere il processo economico e le sue conseguenze sull'organizzazione sociale: il primo modello è di matrice euro-continentale, il secondo di ispirazione anglo-americana e, dopo i «trionfi» della versione inglese dei vent'anni precedenti la Grande Guerra e la parentesi dei «trenta gloriosi keynesiani», è di nuovo vincente nella versione americana post Bretton Woods. E allora? Stante l'impossibilità - ratione militari - di allocare altrove da Wall Street il centro del mercato finanziario mondiale, l'unico modo di contrastare gli effetti dirompenti della via americana alla globalizzazione è quello di indurre gli altri stati a concertare misure capaci di ridurre la libertà di movimento dei capitali. In quest'ottica - hanno ragione senz'altro Bellofiore e Brancaccio - l'istituzione di una Tobin tax, al di là dei vantaggi immediati che potrebbe comportare, avrebbe un impatto simbolico formidabile, per il solo fatto di imporsi ai governi in forza di una spinta «dal basso» dei movimenti. Diversamente, possiamo sempre affabulare d'imperi: non serve a nulla, ma è molto autoconsolatorio.
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