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le servitu' di maastricht
- Subject: le servitu' di maastricht
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sun, 14 Jul 2002 08:39:50 +0200
dalla rivista del manifesto lugio 2002 numero 30 luglio-agosto 2002 Sommario La politica economica LE SERVITU’ DI MAASTRICHT Emiliano Brancaccio La recente conversazione tra Rossana Rossanda e Sergio Cofferati (1) ha avuto il merito di portare alla luce alcune questioni fondamentali di politica economica dell’Unione, sulle quali da alcuni mesi le sinistre europee sono timidamente tornate a interrogarsi. Durante la conversazione Cofferati ha ribadito l’assoluta necessità di proseguire le battaglie in corso per la difesa dei diritti: dalla campagna contro la modifica dell’Articolo 18 alla ferma opposizione nei confronti delle deleghe in materia di scuola, fisco e previdenza avanzate dal governo. Sul piano più circoscritto della politica macroeconomica, invece, Cofferati non sembra essersi allontanato dall’idea di Europa che emerse dal Consiglio di Lisbona del 2000, poco prima che le sinistre al governo iniziassero la parabola discendente che stiamo tuttora registrando. Occorre ricordare che il documento finale di Lisbona, oltre a evocare un orizzonte di sviluppo fondato sulla «crescita delle conoscenze e dei saperi», confermò la piena adesione dei paesi membri dell’Unione al Trattato di Maastricht e al Patto di stabilità di Amsterdam. Questa duplice conclusione del Vertice di Lisbona suscitò, all’epoca, numerose perplessità. In particolare, nella combinazione tra politiche restrittive e crescita economica fondata sulla conoscenza, molti lessero il tentativo di suggerire all’Europa intera un’edizione aggiornata della vecchia ‘via tedesca’ allo sviluppo, uno sviluppo trainato dalla competitività e dalle esportazioni. Quel tentativo venne considerato maldestro per molti buoni motivi, tra i quali il semplice fatto che l’interscambio commerciale tedesco si realizza in massima parte all’interno dell’Unione europea, risultando quindi difficilmente riproducibile all’esterno della stessa a meno di gravi squilibri commerciali e finanziari a livello mondiale. La ‘crescita basata sulla conoscenza’ tracciata a Lisbona, insomma, apparve ben presto scarsamente compatibile con i rigidi vincoli macroeconomici imposti dagli accordi di Maastricht e di Amsterdam. Quel che preme sottolineare qui, comunque, è che affermando che quegli accordi non rappresentano necessariamente un vincolo ma «possono perfino stimolare» l’azione politica degli Stati europei, Cofferati sembra aver scelto la via della continuità in tema di politica economica dell’Unione. La posizione di Cofferati, come è noto, è tuttora condivisa dai principali esponenti delle sinistre europee. In Germania, grazie anche alla defenestrazione di Lafontaine nel 1999, la fedeltà del governo socialdemocratico al Trattato di Maastricht non è mai stata messa in discussione. In Francia, gli sporadici distinguo avanzati da Jospin sono stati più che compensati dalla linea rigorista del ministro delle Finanze Fabius. Quanto all’Italia, l’elevato debito pubblico e una sorta di consequenziale sindrome del ‘Pinocchio redento’, hanno sempre reso il dibattito sulla politica macroeconomica europea ancor più proibito che altrove. Se poi diamo uno sguardo al presente, il dato preoccupante che sta emergendo in questi mesi (e che risulta almeno in parte confermato dalle dichiarazioni di Cofferati) è che, nonostante la dura sequenza di sconfitte subita in questi anni, i gruppi dirigenti delle sinistre europee non sembrano affatto intenzionati a tentare un cambio di rotta. Anzi, si direbbe che in seguito ai crescenti segnali di insofferenza verso il Patto di stabilità da parte delle destre al governo, causati dalla necessità di fronteggiare il forte rallentamento dell’economia, le sinistre abbiano reagito rimarcando la loro acritica adesione all’attuale palinsesto di politica economica europea, e invocando un giorno sì e l’altro pure ulteriori manovre restrittive al fine di rispettare a ogni costo gli impegni di Maastricht e Amsterdam. Varrà sempre la pena di ribadire che questa ‘deriva ragioneristica’ delle sinistre costituisce, con buona probabilità, la causa prima della crisi degli ultimi anni. Infatti, come cercheremo di chiarire in questo articolo, l’impianto di Maastricht non solo è totalmente privo di serie basi analitiche, ma soprattutto costituisce sul piano politico una vera e propria camicia di forza, tale da rendere alla lunga insostenibile il perseguimento di tutti gli obiettivi attorno ai quali le sinistre europee potrebbero ritrovare l’identità e i consensi perduti, incluse le battaglie sui diritti attualmente in corso in Europa. Per evidenziare l’inconsistenza analitica dell’impianto di Maastricht esamineremo le argomentazioni solitamente avanzate in difesa dei due capisaldi fondamentali dell’Unione monetaria europea: il vincolo dei ‘conti pubblici in ordine’ e la ‘lotta all’inflazione’. Riguardo al vincolo dei conti pubblici, una norma del Trattato dell’Unione europea, approvata a Maastricht nel 1992 e ribadita ad Amsterdam nel 1997, impone ai paesi sottoscrittori di situare il deficit e il debito pubblico rispettivamente al di sotto del 3% e del 60% del Pil. Questi vincoli risultano rafforzati dal fatto che, sotto date condizioni, un paese che sfondasse il limite del 3% verrebbe sottoposto a una procedura sanzionatoria. Un regolamento approvato nel 1997, denominato «Patto di stabilità e di crescita», esige inoltre che i paesi membri facciano convergere il bilancio annuale verso il pareggio o il surplus (cioè il deficit dovrà tendere a valori medi uguali o minori di zero). A differenza dei vincoli imposti dal Trattato, le ulteriori restrizioni introdotte con il Patto di stabilità non sono state accompagnate da sanzioni, ma vengono considerate fondamentali per garantire il rispetto del limite del 3% anche in situazioni di recessione. I vincoli al deficit e al debito pubblico sono stati ufficialmente giustificati dalla necessità di garantire la ‘sostenibilità’ dei bilanci dei paesi membri. Nelle torri d’avorio dell’accademia, però, tutti sanno che le fondamenta analitiche di questa giustificazione sono d’argilla. Nel 1998 l’economista keynesiano Luigi Pasinetti fece notare come, nonostante la vasta letteratura sviluppatasi attorno a questo tema, nessun contributo fosse riuscito a dimostrare che l’obiettivo della sostenibilità esige proprio il rispetto degli specifici limiti del 3% e del 60% (2). Pasinetti aggiunse che la ragione per cui la fondatezza di quei limiti non è stata provata deriva dal fatto che la prova è impossibile: infatti, se per sostenibilità finanziaria si intende un andamento non esplosivo del rapporto tra debito e Pil, questo verrà assicurato da infinite combinazioni del deficit e del debito, senza alcuna necessità che tali combinazioni corrispondano agli specifici limiti imposti a Maastricht. Oltre a evidenziare l’infondatezza dei vincoli sui conti pubblici, Pasinetti tenne poi a sottolineare un fatto troppo spesso dimenticato, e cioè che una onesta valutazione della sostenibilità finanziaria di un paese andrebbe sempre effettuata sul debito totale dello stesso, cioè non solo sul debito pubblico ma anche sul debito privato. A tal proposito, egli notò pure che i paesi con un basso debito pubblico sono spesso caratterizzati da un elevato debito privato, foriero quest’ultimo di forti rischi di instabilità finanziaria a causa dell’impossibilità, per i debitori privati, di ricorrere alla tassazione per il rimborso dei crediti. Se si considera che le recenti crisi finanziarie di Enron e di moltissime altre grandi compagnie non sono affatto dipese da brogli o da scarsa trasparenza ma dalla tendenza strutturale del capitalismo deregolato a produrre esplosioni cicliche del debito privato, si comprenderà la rilevanza dell’analisi di Pasinetti per una interpretazione non ingenua delle fibrillazioni finanziarie degli ultimi due anni. Le puntuali osservazioni di Pasinetti non sono rimaste isolate: vi si sono aggiunti numerosi altri interventi, tra i quali quelli dei premi Nobel James Tobin e Joseph Stiglitz, tutti concordi nel rilevare l’assoluta infondatezza degli accordi di Maastricht. Uno dei pochi contributi controcorrente, teso a colmare la lacuna segnalata da Pasinetti, è provenuto dal prof. Giancarlo Gandolfo, il quale ha recentemente avanzato una spiegazione dei vincoli di Maastricht quali «condizioni di equilibrio» dell’economia europea (3). È possibile tuttavia dimostrare che la soluzione di Gandolfo, per quanto ingegnosa, risulterebbe compatibile con qualsiasi tasso di disoccupazione: un risultato inservibile da un punto di vista strettamente politico, a meno di voler ammettere ciò che si è finora sempre negato, e cioè che la disoccupazione rappresenta, da tempo, la variabile residuale della politica economica europea (4). I vincoli di Maastricht, dunque, quelli di cui ogni giorno si parla e che ispirano miti, leggende e titoli a nove colonne su veri o presunti ‘buchi di bilancio’, quei vincoli non hanno alcun fondamento, e non possono trovarlo né nell’obiettivo della sostenibilità riportato nei documenti ufficiali, né tantomeno nel concetto ‘neutro’ di equilibrio proveniente dalla teoria economica. Quei vincoli, allora, appaiono per quello che sono, vale a dire strumenti di lotta politica volti al progressivo ridimensionamento del settore pubblico rispetto al settore privato dell’economia europea. A conferma di ciò, basterà sapere che un’adesione permanente al Patto di stabilità e al relativo obbligo di situare il deficit annuo attorno a un livello medio nullo o negativo, avrebbe quale conseguenza di lungo periodo il risultato paradossale di un azzeramento totale dello stock di debito pubblico! E se ciò non bastasse, potrà essere utile ricordare che Theo Waigel, ex ministro delle Finanze tedesco e attivissimo costruttore dei Trattati europei, rivelò le determinanti politiche dei vincoli di Maastricht dichiarando che, benché analiticamente infondati, essi sarebbero comunque serviti «a far fare un bel po’ di dieta agli Stati membri», e a insegnare ai cittadini europei a contare di più sulle proprie gambe. Si è a questo punto inevitabilmente tentati di chiedersi se la pensino allo stesso modo gli esponenti del centro-sinistra che, negli ultimi tempi, hanno fatto del rispetto tassativo di quei vincoli la loro bandiera nello scontro politico quotidiano con il governo. Non è comunque ai soli vincoli al deficit e al debito pubblico che è attribuibile una origine strettamente politica e conflittuale. Le medesime determinanti risiedono infatti nell’altro caposaldo della politica economica europea, quello della lotta all’inflazione. A tal proposito, sono anni che nei circuiti accademici e politici prevale una visione sostanzialmente armonica dei fenomeni inflazionistici, in base alla quale il rialzo dei prezzi costituirebbe un male per tutta la collettività, e quindi meriterebbe di esser combattuto senza scrupoli e con ogni mezzo. Ma la verità è che, quando si parla di andamento dei prezzi, occorrerebbe sempre tener conto del fatto che esso genera vincitori e sconfitti. Basti in tal senso osservare che dalla prolungata disinflazione dell’ultimo ventennio è derivato uno straordinario spostamento dei redditi a favore dei possessori di attività finanziarie. Lo spostamento si verifica perché, in fase di disinflazione, assieme ai prezzi rallentano i redditi ma non gli oneri finanziari: questi infatti continuano a correre sia perché sono stati contratti, in epoca d’inflazione, a tassi d’interesse molto elevati, sia perché gli alti tassi tendono a persistere a causa del comportamento non accomodante della Banca centrale. Questo fenomeno distributivo, talvolta definito ‘effetto Fisher’, si è rivelato particolarmente forte in Italia, dove il rallentamento dei prezzi ha dato luogo in pochi anni a una distribuzione del reddito dai debitori (cioè soprattutto dallo Stato) ai creditori stimabile intorno al 5% del Pil (5). Stando così le cose, ci sarebbe molto da obiettare all’idea, tanto cara al nostro presidente della Repubblica, secondo cui «la disinflazione è stata il premio per un sacrificio collettivo». Per le modalità in cui il rallentamento dei prezzi si è verificato, infatti, sarebbe piuttosto il caso di parlare della disinflazione come della causa di un sacrificio collettivo, pagato in primo luogo dai beneficiari della spesa pubblica e dai lavoratori contribuenti, i quali hanno subito più degli altri la riduzione delle erogazioni dello Stato e l’incremento delle imposte. Se consideriamo poi che l’abbattimento dell’inflazione è stato ottenuto soprattutto grazie all’accettazione della politica di moderazione salariale da parte dei lavoratori, e se si tiene conto di ciò che abbiamo appena detto, e cioè che proprio alla disinflazione dobbiamo buona parte dell’aumento degli oneri finanziari dello Stato e delle conseguenti politiche restrittive, lo scenario che emerge ha un che di perverso: il sacrificio dei lavoratori salariati ha ingenerato il sacrificio dei beneficiari della spesa pubblica e dei contribuenti, ossia degli stessi lavoratori salariati. Ma l’andamento dei prezzi non genera vincitori e sconfitti solo nelle fasi fortemente dinamiche, come quella della disinflazione degli anni passati. Anche quando si tratta di preservare i bassi livelli d’inflazione conseguiti, le implicazioni distributive possono essere fortissime. Prendiamo ancora una volta il Trattato dell’Unione. Questo esonera la Banca centrale europea (Bce) da qualsiasi impegno esplicito relativo alla crescita economica e all’occupazione, limitandosi ad attribuirle «l’obiettivo principale della stabilità dei prezzi». Con il tramonto delle politiche di moderazione salariale e in seguito alle prime avvisaglie di rivendicazione da parte dei sindacati europei, la Bce ha interpretato questo incarico in modo decisamente estensivo: in seguito a un aumento dei salari del 4%, ottenuto dai sindacati tedeschi dopo anni di contenimenti, la Banca centrale si è infatti dichiarata pronta a inaugurare una nuova stagione di rialzi dei tassi d’interesse, il tutto molto prima che si registrassero concrete tensioni inflazionistiche e, soprattutto, senza alcun riguardo ai segnali recessivi che tuttora attraversano il continente. Non occorrerà scomodare lo Sraffa dei neoricardiani o il Keynes antagonista di Churchill per ricavare, da un simile comportamento, la seguente ipotesi: che con l’ascesa delle destre al governo e il conseguente deficit di mediazione con le rappresentanze sindacali, la Bce abbia deciso di assumere i salari monetari come principale variabile di riferimento per la politica monetaria al fine di accentuare il proprio ruolo di regolatore del conflitto distributivo in Europa. Se questa ipotesi si rivelasse azzeccata, meriterebbe qualche riflessione (e magari qualche ripensamento) il fatto che una simile linea politica possa esser stata decisa in assoluta libertà rispetto agli altri organi comunitari, dal momento che il Trattato attribuisce alla Bce un grado di indipendenza dal potere politico che non ha pari nel mondo. I dogmi dei conti pubblici in ordine e della lotta all’inflazione hanno dunque profondamente inciso sul Trattato dell’Unione e sulle conseguenti linee di politica economica europea. Avallando prima quei dogmi, per poi addirittura riconoscersi in essi, le sinistre europee hanno contribuito in questi anni al consolidamento di uno scenario politico apparentemente privo di alternative, basato sull’immiserimento del ruolo dello Stato in Europa e sulla difesa degli interessi dei ceti più ricchi, in particolare dei possessori di attività finanziarie. A un decennio di distanza dall’approvazione del trattato di Maastricht, è forse giunto il momento di tornare a riflettere sui forti dubbi espressi da larghi settori delle sinistre durante i lavori preparatori di quel Trattato, dubbi che vennero frettolosamente fugati dalle turbolenze politiche dell’epoca e dal monetarismo allora imperante. Tornare sui propri passi, ammettere gli errori compiuti e abbandonare la linea della continuità in tema di politica economica potrebbe forse rivelarsi doloroso per qualcuno, ma è l’unica strada razionale da intraprendere per superare l’attuale, autolesionistica sudditanza verso i dogmi della tecnocrazia europea e gli interessi che essa, più o meno consapevolmente, tende a proteggere. La rottura con gli schemi del passato potrebbe concretizzarsi nella seguente proposta, sulla quale è maturata negli ultimi anni un’ampia convergenza tra gli economisti. La proposta consiste nel rimpiazzare gli attuali vincoli europei con un modello alternativo di politica macroeconomica, fondato tra l’altro sulle seguenti due regole ‘keynesiane’: una politica monetaria tesa a condurre i tassi d’interesse reali verso lo zero, e comunque a dirigere il tasso d’interesse medio sui titoli pubblici stabilmente al di sotto del tasso di crescita del Pil; e una politica fiscale limitata soltanto dal rispetto del vincolo di un rapporto tra debito pubblico e Pil non crescente. È inutile precisare che l’introiezione di queste regole comporterebbe una rivoluzione copernicana nel palinsesto dell’Unione europea e nell’impianto delle relazioni finanziarie internazionali. Basti pensare al fatto che, per essere attuato, il seducente obiettivo dei tassi reali verso lo zero richiede che l’Europa promuova misure di progressiva segmentazione dei mercati finanziari internazionali al fine di accrescere i margini di controllo politico sui tassi d’interesse. In questo senso la campagna europea sulla Tobin tax costituisce un primo, significativo passo nella giusta direzione, che tuttavia non può assolutamente considerarsi sufficiente per il raggiungimento di mire così ambiziose (6). Si potrebbe a questo punto obiettare che non è certo da una serie di regole keynesiane di politica economica che deriverà ‘l’altro mondo possibile’ finora soltanto evocato. Questo tipo di obiezione viene solitamente avanzato in modo alquanto ingenuo, ad esempio proponendo improbabili dicotomie tra ‘sovranisti e mondialisti’ all’interno del movimento di Porto Alegre (7). Tuttavia, sotto certi aspetti, l’obiezione è sensata. Le regole keynesiane, infatti, si limitano ad accrescere enormemente le libertà di azione del politico, ma non sono di per sé in grado di stabilire in che modo quelle libertà verranno sfruttate. Prendiamo ad esempio la questione ambientale. Che la politica keynesiana venga indirizzata al sostegno di progetti militari e cornucopiani o a una profonda trasformazione dei processi produttivi a fini ecologici è questione aperta. È ormai assodato, d’altro canto, che la libertà di azione generata dalla politica keynesiana, se tende certamente ad agevolare i cornucopiani, diventa per gli ambientalisti una condizione necessaria di successo. Una rivoluzione ecologica esige infatti, più di ogni altra cosa, che l’avvenire assuma nuovamente valore ai nostri occhi, e che l’orizzonte temporale delle decisioni umane torni di conseguenza ad allungarsi. A tal fine non è affatto utile inseguire slogan fuorvianti come quello della ‘crescita zero’, emerso qualche tempo fa dal dibattito ecologista (8). È necessario, invece, abbattere i tassi d’interesse e moltiplicare le risorse pubbliche disponibili. In altre parole, sono necessarie delle regole keynesiane di politica economica. Ma non è solo nella doppia possibilità di un sentiero di sviluppo cornucopiano oppure ambientalista che è possibile rilevare come gli effetti della politica keynesiana dipendono fortemente dal contesto politico e culturale nel quale essa viene a realizzarsi. Un esempio ulteriore, in questo senso, ci viene offerto dal Manifesto contro la disoccupazione in Europa promosso dal premio Nobel Franco Modigliani e sottoscritto da molti autorevoli economisti, da Paul Samuelson a Paolo Sylos Labini (9). Nel presentare il manifesto, Modigliani sostenne che, attraverso l’abbattimento dei tassi di disoccupazione, una svolta keynesiana nella politica economica europea produrrebbe condizioni politiche favorevoli per riformare il mercato del lavoro e accrescere la libertà di licenziamento. Lo scenario prospettato da Modigliani è indubbiamente una possibilità. Ci sono tuttavia ragioni teoriche ed empiriche per considerarlo, in Europa, altamente improbabile. Sul piano teorico, infatti, la politica keynesiana riduce i costi fissi attraverso l’aumento dei volumi di attività, e riduce i costi unitari e i carichi fiscali attraverso una riduzione degli oneri finanziari. L’esperienza storica europea rivela inoltre che, abbattendo i tassi di disoccupazione, la politica keynesiana tende a rafforzare la posizione contrattuale dei lavoratori e ad esaltare il livello e la qualità delle loro rivendicazioni. Una politica keynesiana europea, quindi, da un lato contribuirebbe alla creazione di un surplus, e dall’altro potrebbe dar vita al clima politico necessario affinché la destinazione di quel surplus venga governata dalla volontà dei lavoratori di difendere ed ampliare i loro diritti, ovvero di decidere le condizioni alle quali essi sono disposti a far funzionare il sistema economico. Le considerazioni precedenti aiutano a comprendere due questioni. Innanzitutto, che nel considerare Alan Greenspan un keynesiano illuminato e Wim Duisenberg un monetarista ottuso, Modigliani e molti economisti americani hanno forse trascurato il fatto che, se applicata in Europa, la politica keynesiana potrebbe avere effetti sui rapporti di forza tra le classi molto più dirompenti che negli Stati Uniti. E in secondo luogo, che le grandi difficoltà incontrate in passato nella battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro, e le grandi ansie vissute oggi nel corso delle lotte in difesa dell’Articolo 18, dipendono in notevole misura dall’assenza di una politica keynesiana e quindi di un surplus aggiuntivo sulla cui destinazione battersi. Si potrebbe continuare a lungo in questa direzione, riportando altri possibili nessi tra una svolta di politica economica di orientamento keynesiano e il rilancio dei tanti obiettivi delle sinistre europee rimasti finora sospesi per aria. Si potrebbe ad esempio sottolineare che l’abbattimento degli oneri finanziari e il conseguente, straordinario aumento delle possibilità di spesa pubblica europea, consentirebbero di evitare decisioni sconcertanti per la loro enorme pericolosità sociale, come quelle che hanno portato alla riduzione in termini assoluti dei fondi strutturali destinati alle aree depresse proprio nel momento in cui veniva deciso l’allargamento ad Est dell’Unione europea. Si potrebbe aggiungere che, attraverso la segmentazione dei mercati finanziari e la possibilità di far tendere a zero i tassi d’interesse reali, la politica keynesiana permetterebbe di liberare i paesi poveri dalla morsa degli oneri finanziari più di qualsiasi, pur lodevole campagna di cancellazione del debito. Questi e molti altri esempi non fanno che sottolineare come sia possibile riconoscere, nella politica keynesiana, un credibile denominatore comune per le diverse anime delle sinistre europee, oggi frammentate, confuse, strette tra l’incudine del velleitarismo e il martello di una compiaciuta impotenza. Ma soprattutto, questi esempi testimoniano come la politica keynesiana debba considerarsi il necessario complemento delle battaglie sui diritti in corso. Chiunque intenda coerentemente sostenere quelle battaglie, dovrà prima o poi trovare la forza per condannare l’Europa di Maastricht e promuovere una radicale riforma del Trattato dell’Unione. note: 1 R. Rossanda, Il problema di Cofferati, «la rivista del manifesto», giugno 2002. 2 L. Pasinetti, The Myth (or Folly) of the 3% Deficit/GDP Maastricht ‘Parameter’, «Cambridge Journal of Economics», 22, 1998. 3 G. Gandolfo, International Finance and Open Macroeconomics, Springer Verlag 2001. 4 E. Brancaccio. e D. Marconi, Sulle proprietà di equilibrio dei parametri fiscali di Maastricht, Dipartimento di Teoria economica e applicazioni, Università Federico II di Napoli, 2002. 5 E. Brancaccio e D. Marconi, Possibili effetti collaterali della disinflazione, Coripe Piemonte, mimeo. 6 R. Bellofioree, E. Brancaccio (a cura di), Il granello di sabbia. I pro e i contro della Tobin tax, Feltrinelli 2002. Cfr. anche E. Brancaccio, Brevi note al testo di legge per l’introduzione di un’imposta sulle transazioni valutarie in Europa e in Italia, «Quale Stato», 4/2001-1/2002. 7 M. Hardt, Porto Alegre: Today’s Bandung?, «New Left Review», 14, 2002. Per una critica, cfr. A. Burgio, Due anime di Porto Alegre?, «la rivista del manifesto», 29, giugno 2002. 8 C. Ravaioli (a cura di), Lettera aperta agli economisti, Manifestolibri 2001. Cfr. anche E. Brancaccio, Gli orizzonti del keynesismo, «il manifesto», 2 ottobre 2001. 9 F. Modigliani et Al., An Economist’s Manifesto on Unemployment in the European Union, «Bnl Quaterly Review», 206, settembre 1998.
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