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lo sviluppo non e' il rimedio alla mondializzazione
- Subject: lo sviluppo non e' il rimedio alla mondializzazione
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 21 Jun 2002 06:42:41 +0200
intervento di serge latouche all'iniziaitiva di giovedi 13 giugno a Genova, sala del camino, camera di Commercio Lo sviluppo non è il rimedio alla mondializzazione, è il problema! Esiste una quasi-umanità a sinistra (e anche al centro) per denunciare i danni di una mondializzazione liberale, se non addirittura ultra-liberale. Questa critica consensuale si articola su questi sei punti: 1) la denuncia delle disuguaglianze crescenti tanto tra il Nord e il Sud, quanto all'interno di ciascun paese. La polarizzazione della ricchezza tra le regioni e tra gli individui raggiunge infatti livelli insoliti. Secondo l'ultimo rapporto del PNUD, se la ricchezza del pianeta si è moltiplicata di sei volte dopo il 1950, il reddito medio degli abitanti di 100 dei 174 paesi censiti è in piena regressione e anche l'aspettativa di vita. Le tre persone più ricche del mondo hanno una fortuna superiore al PIB totale dei 48 paesi più poveri! Il patrimonio dei 15 individui più fortunati supera il PIB di tutta l'Africa subsahariana. Infine, i beni delle 84 persone più ricche supera il PIB della Cina con il suo 1miliardo e 200 milioni di abitanti! 2) La trappola del debito per i paesi del Sud con le sue conseguenze sullo sfruttamento sconsiderato delle ricchezze naturali e la reivenzione del servaggio e della schiavitù (in particolare dei bambini). 3) La distruzione dell'ecosistema e le minacce che l'inquinamento fanno pesare sulla sopravvivenza del pianeta. 4) La fine del welfare, la distruzione dei servizi pubblici e lo smantellamento dei sistemi di protezione sociale. 5) "L'onnimarchandisation", con i traffici di organi, lo sviluppo delle "industrie culturali" e uniformizzanti, la corsa alla brevettabilità dell'essere vivente. 6) L'indebolimento degli Stati-nazione e l'aumento di potere delle multinazionali come "i nuovi padroni del mondo". Ma, in queste condizioni, non è più questione di sviluppo, in particolare al Sud, ma soltanto di aggiustamenti strutturali. Per il sociale, si fa largamente appello a ciò che Bernard Hours chiama elegantemente "un samu mondiale" di cui le ONG umanitarie, coloro che gestiscono l'emergenza sono lo strumento fondamentale . Il terzo settore o l'economia sociale e solidale hanno la vocazione a soddisfare lo stesso obiettivo al Nord: supplire alle carenze del mercato (i "market faillures"). Lo sviluppo non può dunque essere il rimedio ai mali di cui è responsabile in ultima istanza. Esso fa parte di tutto il problema come la mondializzazione che ha generato. Esso deve, più ancora di questa, essere demistificato, cosa invero meno facile e meno "popolare"... Il (ri)sviluppo è il rimedio? Tutto sommato, in parecchi lo pensano, e in particolare tutti coloro che esaltano "un'altra mondializzazione". Bisognerebbe ritornare allo sviluppo correggendolo, se sarà il caso, dei suoi effetti negativi. Uno sviluppo "durevole" o "sostenibile" appare così come una panacea sia per il Sud che per il Nord. É più o meno la conclusione di quello che noi abbiamo sentito a Porto Alegre. Se la retorica pura dello sviluppo, che si fa prassi grazie all'espertocrazia volontarista non fa più cassetta, il complesso di convinzioni escatologiche in una prosperità materiale possibile per tutti che si può definire come "lo sviluppismo", resta intatto. Smitizzando tale "sviluppismo" si ritrovano smitizzate in profondità anche l'occidentalizzazione e la mondializzazione. Si contribuisce così a lottare seriamente contro l'impero e l'influenza del pensiero unico. Tale aspirazione "ingenua" ad un ritorno dello sviluppo testimonia al tempo stesso una perdita di memoria e un'assenza di analisi sul significato storico di tale sviluppo. a) L'oblio della storia. Ritorniamo sui "trenta (anni) gloriosi". La regolazione keyneso - fordista di cui si sente oggi la nostalgia è come la repubblica che diventa bella sotto l'impero. Si è dimenticato in fretta che nel maggio 1968, è proprio quella società del "ben-essere", che veniva denunciata come la società dei consumi e la società dello spettacolo capace di generare soltanto la noia di una vita fatta di "metrò-lavoro-nanna", e fondata sul lavoro a catena, ripetitivo e alienante. Se si esaltano ancora spesso i circoli virtuosi di questo sviluppo che costituisce un "gioco-vincente-vincente-vincente" si dimenticano spesso i due perdenti: il terzo-mondo e la natura. Certo, lo Stato guadagnava, il padronato guadagnava e i lavoratori, sostenendo la pressione, miglioravano il loro tenore di vita, ma la natura era saccheggiata senza vergogna (e di questi noi non abbiamo finito di pagare il conto.), mentre il terzo mondo delle indipendenze sprofondava sempre più nel sotto-sviluppo e nella perdita della propria identità culturale. Comunque sia, questo capitalismo regolato dall'era dello sviluppo sarà stato una fase transitoria verso la mondializzazione . b) L'assenza di analisi del significato storico dello sviluppo. Ricordiamo la cinica formula di Henry Kissinger: "La mondializzazione non è che il nuovo nome della politica egemonica americana". Se lo sviluppo non è stato che il proseguimento della colonizzazione attraverso altri mezzi, la nuova mondializzazione, a sua volta, non è che il proseguimento dello sviluppo con altri mezzi. Lo Stato si nasconde dietro il mercato. Gli stati-nazione che si erano già fatti più attenti nel passaggio dal modello della colonizzazione allo sviluppo lasciano il passo al profitto della dittatura dei mercati (da loro stessi organizzati...), con il loro strumento di gestione l'FMI, che impone i piani di aggiustamento strutturale . Tuttavia, se le "forme" cambiano considerevolmente (e non solo le forme) occorre sempre fare i conti con slogans e ideologie che mirano a legittimare l'impresa egemonica dell'Occidente e, oggi, particolarmente degli Stati Uniti. In questo approccio non viene rimesso in questione l'immaginario economico. Si ritrova sempre l'occidentalizzazione del mondo con la colonizzazione degli spiriti attraverso il progresso, la scienza e la tecnica. L'economicizzazione e la tecnicizazzione del mondo sono spinte al loro punto d'arrivo. Ora, è proprio questo che costituisce la fonte di tutti i mali di cui si accusa la mondializzazione. II L'impostura dello sviluppo Il vero sviluppo è definito, nel rapporto della commissione del Sud, come "un processo che permette agli esseri umani di sviluppare la loro personalità, di acquistare fiducia in se stessi e di condurre un'esistenza degna e piena" . È evidente che quel tipo di sviluppo non si è mai realizzato da nessuna parte. È la ragione per la quale bisogna denunciare l'etnocentrismo del concetto stesso di sviluppo e l'attuale forma perniciosa in cui sta risorgendo nello sviluppo durevole. a) L'etnocentrismo dello sviluppo. Il concetto di sviluppo è intrappolato in un dilemma: se la parola sviluppo vuol dire tutto e il suo contrario, allora indica in particolare tutte le esperienze storiche di dinamica culturale della storia dell'umanità, dalla Cina degli Han all'impero Inca. In questo caso non indica niente in particolare, non ha alcun significato utile per promuovere una politica, è meglio sbarazzarsene. Se invece ha un contenuto proprio, tale contenuto indica allora necessariamente ciò che esso ha in comune con l'esperienza occidentale del decollo dell'economia così come si è strutturata a partire, diciamo, dalla rivoluzione industriale in Inghilterra negli anni 1750 -1800. In questo caso, qualunque sia l'aggettivo che gli si accosti, il contenuto implicito o esplicito dello sviluppo è la crescita economica, l'accumulazione del capitale, con tutti gli effetti positivi e negativi che conosciamo: competizione spietata, crescita senza limiti delle disuguaglianze, saccheggio senza ritegno della natura. Ora, il nocciolo duro che tutti gli sviluppi hanno in comune con quella esperienza è legato a "valori" che sono il progresso, l'universalismo, il dominio della natura, la razionalità quantificabile. Questi valori sui quali poggia lo sviluppo e, particolarmente il progresso, non corrispondono affatto alle aspirazioni universali profonde . Esse sono legate alla storia dell'Occidente, raccolgono poca eco nelle altre società. Le società animiste, per esempio, non condividono la fede nel dominio della natura, come non la condividono il buddismo o l'induismo. La costituzione indiana prevede e prescrive il rispetto degli animali, in conseguenza di questo alcuni tribunali hanno condannato la produzione di conserve. Al di là dei miti sui quali è basata, l'idea dello sviluppo è totalmente priva di senso e le prassi ad essa legate sono assolutamente impossibili perché inpensabili e vietate. Oggi tali valori occidentali sono precisamente quelli che bisogna rimettere in discussione per trovare una soluzione ai problemi del mondo contemporaneo (e della "mondializzazione" liberale) ed evitare le catastrofi verso le quali ci porta l'economia mondiale. È chiaro che è lo sviluppo realmente esistente quello che da due secoli domina, che ingigantisce i problemi sociali e ambientalistici attuali: esclusione, sovrappopolamento, povertà, inquinamenti vari ecc. Lo "sviluppismo" manifesta la logica economica in tutto il suo rigore. In questo paradigma non c'è posto per il rispetto della natura reclamato dagli ecologisti né per il rispetto dell'uomo rivendicato dagli umanitaristi. Lo sviluppo realmente esistente appare, dunque, nella sua verità e lo sviluppo alternativo come una mistificazione. Accostando al concetto di sviluppo un aggettivo, non si tratta veramente di mettere in questione l'accumulazione capitalista, al più si tratta di aggiungere un elemento sociale o una componente ecologica alla crescita economica come non molto tempo fa si è potuto aggiungervi una dimensione culturale. Se ci si concentra sulle conseguenze sociali, come la povertà, il tenore di vita, i bisogni essenziali, o sulla nocività arrecata all'ambiente, occorre evitare gli approcci olistici o globali di un'analisi della dinamica planetaria di una Megamacchina tecno-economica che è funzionale alla concorrenza senza pietà e ormai senza volto. Che si voglia o no, non si può impedire che lo sviluppo sia diverso da quello che è stato. Lo sviluppo è stato ed è l'occidentalizzazione del mondo6. Le parole si radicano nella storia; esse sono legate con le rappresentazioni che sfuggono, il più delle volte, alla coscienza di coloro che parlano, ma che hanno presa sulle nostre emozioni. Ci sono parole dolci, parole che recano sollievo al cuore e parole che feriscono. Ci sono parole che mettono in subbuglio un popolo e sconvolgono il mondo. E poi ci sono parole velenose, parole che penetrano nel sangue come una droga, pervertono il desiderio e ottenebrano il giudizio. Sviluppo è una di queste parole tossiche. Si può, certo, proclamare che ormai "un buon sviluppo, è prima di tutto valorizzare quello che facevano i genitori, avere delle radici", 7 è definire una parola attraverso il suo contrario. Lo sviluppo è stato, è e sarà prima di tutto uno sradicamento. Ha soprattutto comportato una crescita dell'eterenomia a detrimento dell'autonomia delle società. b) L'impostura dello sviluppo durevole/sostenibile. Il fatto di aggiungere il qualificativo "durevole" o "sostenibile" non fa che imbrogliare un po' di più le cose. Così, circola in questo momento un manifesto per uno sviluppo sostenibile firmato da parecchie celebrità tra cui Jean - Claude Camdessus, l'ex Presidente del Fondo Monetario Internazionale. Sephan Schmeideny, animatore di un'associazione di industriali sensibili alla difesa dell'ambiente, consulente di Maurice Strong presidente del P.N.U.E. per l'organizzazione di Rio '92, scrive: "Il funzionamento di un sistema di mercato libero e concorrenziale, in cui i prezzi integrano i costi della difesa dell'ambiente con le altri componenti economiche, costituisce il fondamento di uno sviluppo durevole". Alcuni economisti neo-classici dicono con un pizzico di provocazione, ma non senza fondamento, che sono loro i veri sostenitori dello sviluppo durevole, con l'instaurazione dei "diritti di inquinare" e la creazione del mercato della difesa dell'ambiente. L'economista John Richard Hicks, con la sua concezione del reddito, sarebbe così, senza saperlo, il primo teorizzatore dello sviluppo durevole/sostenibile. Si chiama ossimoro (o antinomia) una figura retorica che consiste nel giustapporre due parole contraddittorie, come "l'ocura chiarezza", cara a Victor Hugo, "che vien giù dalle stelle...". Tale processo inventato dai poeti per esprimere l'inisprimibile è sempre più utilizzato dai tecnocrati per far credere nell'impossibile. Così una guerra pulita, una mondializzazione dal volto umano, un'economia solidale o sana ecc. Lo sviluppo durevole è una di queste antinomie. Il problema dello sviluppo sostenibile non è tanto con la parola sostenibile, che è una bella espressione, quanto il concetto di sviluppo che è decisamente una "parola tossica". In effetti, sostenibile significa che l'attività umana non deve creare un livello di inquinamento superiore alla capacità di rigenerazione dell'ambiente naturale. Questo non è che l'applicazione del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas: "Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la continuità di una vita autenticamente umana sulla terra". Tuttavia, il significato storico e pratico dello sviluppo, legato al programma della modernità, è fondamentalmente contrario alla continuità così concepita. Si è visto che lo sviluppo è un'impresa che mira a mercificare le relazioni degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, di valorizzare, di trarre profitto dalle risorse naturali e umane. La mano invisibile e l'equilibrio degli interessi ci assicurano che tutto è per il meglio nel migliore dei mondi possibili. Perché preoccuparsi? La maggior parte degli economisti, che siano liberali o marxisti, sono favorevoli alla concezione che permette allo sviluppo economico di perdurare. Così l'economista marxista, Gerard d'Estanne De Bernis dichiara: "Qui non si tratta di fare semantica, né di chiedersi se l'aggettivo "durevole" (sostenibile) aggiunga qualcosa alle definizioni classiche dello sviluppo, teniamo piuttosto conto dell'aria che tira e parliamo come tutti quanti. Beninteso, durevole non rimanda all'idea di lunghezza, ma di irreversibilità (...). Il fatto è che il processo di sviluppo di paesi come l'Algeria, il Brasile, la Corea del Sud, l'India o il Messico non si è rivelato "durevole" (sostenibile): le contraddizioni non tenute sotto controllo hanno spazzato via i risultati degli sforzi compiuti, e condotto alla regressione8. Non si può "salvare" lo sviluppo contrapponendolo alla crescita. Effettivamente, poiché lo sviluppo viene definito da Rostow come "self-sustaining growth" (crescita auto-sostenibile), l'aggiunta dell'aggettivo durevole o sostenibile (allo sviluppo) è inutile e costituisce un pleonasmo. È ancora più lampante con la definizione di Mesarovic e Pestel9. Per questi, è la crescita omogenea, meccanica e quantitativa, che è insostenibile, ma una crescita "organica", definita attraverso l'interazione degli elementi sulla totalità, è un obiettivo sopportabile. Ora, storicamente, tale definizione biologica, è precisamente quella dello sviluppo. Le finezze di Herman Daly, che tentano di definire uno sviluppo con una crescita nulla, non sono sostenibili, né in teoria, né in pratica10. Come nota Nicholas Georgescu Roegen: "Lo sviluppo durevole non può in alcun modo essere superato dalla crescita economica (...). In verità, chi ha mai potuto pensare che lo sviluppo non implichi necessariamente qualche crescita?".11 In ogni caso per gli autori del rapporto Brumdland che hanno lanciato l'espressione non vi è alcun dubbio. Essi propongono un volume di crescita annuale dal 5 al 6% per i paesi in via di sviluppo e dal 3 al 4% per i paesi industrializzati12. In definitiva, si può dire che affiancando l'aggettivo durevole al concetto di sviluppo, è chiaro che non è proprio il caso di rimettere in discussione lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da due secoli, al massimo occorre aggiungervi una componente ecologica. È più che discutibile che ciò sia sufficiente a risolvere i problemi. È perché, in fin dei conti, lo sviluppo durevole, questa contraddizione in termini, è terrificante e desolante! Almeno, con lo sviluppo non durevole e insostenibile , si poteva conservare la speranza che tale processo mortifero avrebbe avuto una fine. Si sarebbe arrestato un giorno, vittima delle sue contraddizioni, dei suoi fallimenti, del suo carattere insopportabile e per l'esaurimento delle risorse naturali... Si poteva così riflettere e lavorare per un post-sviluppo meno desolante, costruire una postmodernità accettabile. In particolare reintrodurre il sociale, la politica nel rapporto di scambio economico, ritrovare l'obiettivo del bene comune e di una qualità della vita nel commercio sociale. Lo sviluppo durevole ci sottrae ogni prospettiva di uscita, ci promette lo sviluppo per l'eternità! George W. Bush dichiarava, il 14 febbraio 2002 a Silver Spring davanti ai responsabili della meteorologia, che "poiché questa è la chiave del progresso ambientale, poiché questa fornisce le risorse che permettono di investire sulle tecnologie proprie, la crescita è la soluzione, non il problema"13. Noi invece affermiamo che, lungi dall'essere il rimedio alla mondializzazione, lo sviluppo economico costituisce la sorgente del male. Esso deve essere analizzato e denunciato come tale. La nostra sovracrescita economica supera già largamente la capacità di carico della terra. Se tutti gli abitanti del mondo consumassero come l'americano medio, i limiti fisici del pianeta sarebbero largamente superati14. Se si prende come indice del "peso" ambientale del nostro stile di vita "l'impatto" ecologico di questo sulla superficie terrestre necessaria, si ottengono risultati insostenibili sia dal punto di vista dell'equità rispetto ai diritti di prelievo sulla natura, sia da quello della capacità di rigenerazione della biosfera. Se si considerano i bisogni di materiali e di energia necessari per assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e dei consumi, e a ciò si aggiunge l'impatto ambientale e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori che lavorano per il World Wide Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo dell'umanità è di 1,8 ettari a testa, mentre un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5. Siamo dunque molto lontani dall'uguaglianza planetaria è più ancora da uno stile di civilizzazione durevole che dovrebbe limitarsi a 1,4 ettari, ammesso che la popolazione attuale resti stabile15. Queste cifre si possono discutere, ma esse sono sfortunatamente confermate da un numero considerevole di indici (che d'altra parte sono serviti a stabilirle). Così, perché l'allevamento intensivo in Europa funzioni, bisogna che un'area, per quelle che si chiamano "culture a fasce" equivalenti a sette volte quella di questo continente, sia impiegata in altri paesi per produrre l'alimentazione necessaria per gli animali così allevati su scala industriale16. Per sopravvivere o andare avanti, è dunque urgente organizzare la decrescita. Quando si è a Roma e si deve prendere il treno per Torino e si sale per errore su quello per Napoli, non è sufficiente rallentare la locomotiva, frenare o anche fermarsi, bisogna scendere e prendere un altro treno nella direzione opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile per i nostri figli, non bisogna soltanto moderare le tendenze attuali, bisogna decisamente uscire dallo sviluppo e dall'economicismo, come bisogna uscire dall'agricoltura produttivista, che ne è parte integrante, per smetterla con le mucche pazze e le aberrazioni transgeniche. Conclusione. Sia lo sviluppo, sia la mondializzazione sono "macchine" per affamare i popoli. Prima degli anni '70, in Africa, le popolazioni erano "povere" rispetto ai criteri occidentali, nel senso che esse disponevano di pochi beni manifatturieri, ma nessuno, in tempi normali, moriva di fame. Dopo 50 anni di sviluppo è cosa fatta. Meglio, in Argentina, paese di tradizionale allevamento bovino, prima dell'offensiva sviluppentista degli anni '80, si sprecava sconsideratamente la carne bovina, abbandonando le carni di secondo taglio. Oggi, la gente saccheggia i supermercati per sopravvivere, e i fondi marini, sfruttati senza vergogna dalle navi straniere, tra l''85 e il '95, per accrescere esportazioni senza grandi profitti per la popolazione, non possono più costituire una risorsa17. Come dice Vandana Shiva: "Sotto la maschera della crescita si nasconde, in effetti, la creazione della penuria"18. Serge Latouche
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