industrialismo all'italiana



da liberazione di mercoledi 12 giugno 2002
  
Una crisi dovuta alla poca lungimiranza dei vertici  
Industrialismo all'italiana  
Oscar Marchisio 
 
L'aveva detto Razzelli, responsabile internazionale della Fiat anni fa:
«Puntiamo sulla Cina, pensiamo a un nuovo prodotto per la mobilità di massa
con cui ripensare il veicolo urbano». 
La pensava così anche Giorgio Garuzzo, "fatto fuori" (e finito alla
Olivetti) appena insediato il nuovo assetto dei vertici del Lingotto, con
Gianni Agnelli presidente d'onore, Cesare Romiti presidente e Paolo
Cantarella amministratore del gruppo, e con Roberto Testore (ora in
Finmeccanica) che gli era subentrato alla guida di Fiat Auto. 

Come sempre arrogante e poco creativo, Paolo Cantarella non solo aveva
risposto: «Che ci frega della Cina. Noi puntiamo sull'Argentina, dove
abbiamo lobbies e appoggi politici», con un acume e una lungimiranza che
ora si disvela in tutta la sua entità e gravità, ma aveva anche cercato in
tutti i modi di zittire e penalizzare Razzelli e la sua autonomia mentale e
creativa, sino ad "espellerlo" dal gruppo. E assieme lui, a poco a poco, se
ne è andata un'intera generazione di dirigenti "dissidenti" o anche solo
critici verso le scelte di un industrialismo conservativo e delle rendite
di posizione che hanno caratterizzato in tutti questi anni l'establishment
e la "famiglia". 


Il nodo dello sviluppo 
Così Cantarella ha impedito alla Fiat di affrontare uno dei nodi dello
sviluppo, e cioè il nuovo possibile veicolo popolare, necessario a un
enorme mercato come quello cinese. Perché non ha aperto le porte
all'incredibile domanda di auto di medie e piccole dimensioni del mercato
cinese? Perché con la Cina si sarebbe aperta una nuova fase dello sviluppo
dell'auto e quindi dello sviluppo capitalistico. Una fase a cui il gruppo
di Torino non ha saputo mettere mano o di cui non ha voluto farsi carico. 

Si tratta infatti di affrontare per la prima volta una vera e propria crisi
del modello fordista basato sul motore a combustione e sul petrolio, in
quanto la dimensione del mercato cinese impone la rivoluzione del modello
di mobilità attuale, poiché una domanda di 500 o 600 milioni di auto mette
in crisi radicale sia l'ambiente a livello mondiale sia il sistema urbano
cinese, fatto di grandi concentrazioni metropolitane come Pechino, Hongkong
o Shanghai, la cui sterminata "banlieu" o meglio l'interland antropizzato
contiene dai 17 ai 20 milioni di abitanti, ma fatto anche delle migliaia di
"medie" aggregazioni rurali e di centri "minori", in continua crescita
demografica e conseguente espansione edilizia a colpi di centinaia di
migliaia se non di qualche milione di nuovi cittadini, attratti
dall'esplosione del fenomeno industriale e postindustriale della
new-economy (anche qui come a Giakarta, Singapore, Seul e Bombay percepita
come una sorta di nuova corsa all'oro) e da una crescita della ricchezza
misurata nell'ultimo decennio in 7-8 punti percentuali di Pil l'anno. 


Un modello obsoleto
Il nostro modello applicato alla Cina distrugge l'attuale livello di
capitalismo. Ciò induce una "rivoluzione" economica e produttiva a partire
dai fondamentali, dunque dalla catena "auto di massa-produzione di massa". 

In Cina per innovare non dobbiamo solo produrre auto ma pensare globalmente
la mobilità come un prodotto sistemico. 

Solo dall'alleanza fra città e gestione della mobilità nascerà infatti la
nuova soluzione per la mobilità individuale. E questo è il nuovo confine su
cui si sta arrovellando la concorrenza internazionale, a cominciare dagli
americani che non sono riusciti fino a questo momento a mettere a fuoco la
dimensione e la direzione dello sviluppo del capitalismo cinese. Confine e
prospettiva su cui Cantarella e la Fiat sono miseramente naufragati, pur
godendo di prestigio e di buone entrature a Pechino, avendo invece
investito sugli insediamenti in Brasile e Argentina, scommettendo su
rapporti politico-economici preferenziali intessuti per anni con quei
regimi, e puntando con stralunata miopia sullo sviluppo del Sudamerica,
travolto da ben altre crisi economiche e politiche, direttamente derivate
dagli interessi e dall'egemonia dei vicini e ingombranti Stati Uniti. 


Il male e la medicina
Ora non si tratta di vendere alla General Motors, come pensa Paolo Fresco,
o di ristrutturare i 
concessionari come pensa, si fa per dire, quel creativo di Giancarlo
Boschetti, ma di affrontare in modo industriale quello che è stato
l'origine della Fiat, e cioè la mobilità di massa a basso costo nelle nuove
aree di sviluppo: la Cina, appunto, e poi l'India e l'Africa. 

Questa è la sfida e questo è il dilemma progettuale in cui si dibatte la
Fiat e non solo la Fiat; ovvero la mobilità come prodotto industriale.
Questo apre una nuova fase "planetaria" nel settore dell'auto, dove diventa
determinante la ricerca e lo sviluppo sia dei "propulsori puliti", sia
delle dimensioni spaziali dei veicoli, sia delle forme gestionali. 

In una parola, si tratta di innovare il prodotto veicolare partendo dal
risparmio energetico e da un vero programma di contrazione delle emissioni
inquinanti, come richiede il protocollo di Tokyo; dalla valutazione
dell'impatto sullo spazio urbano e sulla percorribilità delle strade, cioè
sui criteri basilari di un'economia dei trasporti; e dalle
telecomunicazioni applicate alla condivisione dei mezzi e
all'ottimizzazione dei percorsi e dei consumi. Ad esempio progettando e
fabbricando uno "Zev: Zero emission vehicle", a proprietà multipla e a
gestione con carta di credito. Ovvero la rivoluzione. Capitalistica,
s'intende.