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industrialismo all'italiana
- Subject: industrialismo all'italiana
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Sat, 15 Jun 2002 06:52:08 +0200
da liberazione di mercoledi 12 giugno 2002 Una crisi dovuta alla poca lungimiranza dei vertici Industrialismo all'italiana Oscar Marchisio L'aveva detto Razzelli, responsabile internazionale della Fiat anni fa: «Puntiamo sulla Cina, pensiamo a un nuovo prodotto per la mobilità di massa con cui ripensare il veicolo urbano». La pensava così anche Giorgio Garuzzo, "fatto fuori" (e finito alla Olivetti) appena insediato il nuovo assetto dei vertici del Lingotto, con Gianni Agnelli presidente d'onore, Cesare Romiti presidente e Paolo Cantarella amministratore del gruppo, e con Roberto Testore (ora in Finmeccanica) che gli era subentrato alla guida di Fiat Auto. Come sempre arrogante e poco creativo, Paolo Cantarella non solo aveva risposto: «Che ci frega della Cina. Noi puntiamo sull'Argentina, dove abbiamo lobbies e appoggi politici», con un acume e una lungimiranza che ora si disvela in tutta la sua entità e gravità, ma aveva anche cercato in tutti i modi di zittire e penalizzare Razzelli e la sua autonomia mentale e creativa, sino ad "espellerlo" dal gruppo. E assieme lui, a poco a poco, se ne è andata un'intera generazione di dirigenti "dissidenti" o anche solo critici verso le scelte di un industrialismo conservativo e delle rendite di posizione che hanno caratterizzato in tutti questi anni l'establishment e la "famiglia". Il nodo dello sviluppo Così Cantarella ha impedito alla Fiat di affrontare uno dei nodi dello sviluppo, e cioè il nuovo possibile veicolo popolare, necessario a un enorme mercato come quello cinese. Perché non ha aperto le porte all'incredibile domanda di auto di medie e piccole dimensioni del mercato cinese? Perché con la Cina si sarebbe aperta una nuova fase dello sviluppo dell'auto e quindi dello sviluppo capitalistico. Una fase a cui il gruppo di Torino non ha saputo mettere mano o di cui non ha voluto farsi carico. Si tratta infatti di affrontare per la prima volta una vera e propria crisi del modello fordista basato sul motore a combustione e sul petrolio, in quanto la dimensione del mercato cinese impone la rivoluzione del modello di mobilità attuale, poiché una domanda di 500 o 600 milioni di auto mette in crisi radicale sia l'ambiente a livello mondiale sia il sistema urbano cinese, fatto di grandi concentrazioni metropolitane come Pechino, Hongkong o Shanghai, la cui sterminata "banlieu" o meglio l'interland antropizzato contiene dai 17 ai 20 milioni di abitanti, ma fatto anche delle migliaia di "medie" aggregazioni rurali e di centri "minori", in continua crescita demografica e conseguente espansione edilizia a colpi di centinaia di migliaia se non di qualche milione di nuovi cittadini, attratti dall'esplosione del fenomeno industriale e postindustriale della new-economy (anche qui come a Giakarta, Singapore, Seul e Bombay percepita come una sorta di nuova corsa all'oro) e da una crescita della ricchezza misurata nell'ultimo decennio in 7-8 punti percentuali di Pil l'anno. Un modello obsoleto Il nostro modello applicato alla Cina distrugge l'attuale livello di capitalismo. Ciò induce una "rivoluzione" economica e produttiva a partire dai fondamentali, dunque dalla catena "auto di massa-produzione di massa". In Cina per innovare non dobbiamo solo produrre auto ma pensare globalmente la mobilità come un prodotto sistemico. Solo dall'alleanza fra città e gestione della mobilità nascerà infatti la nuova soluzione per la mobilità individuale. E questo è il nuovo confine su cui si sta arrovellando la concorrenza internazionale, a cominciare dagli americani che non sono riusciti fino a questo momento a mettere a fuoco la dimensione e la direzione dello sviluppo del capitalismo cinese. Confine e prospettiva su cui Cantarella e la Fiat sono miseramente naufragati, pur godendo di prestigio e di buone entrature a Pechino, avendo invece investito sugli insediamenti in Brasile e Argentina, scommettendo su rapporti politico-economici preferenziali intessuti per anni con quei regimi, e puntando con stralunata miopia sullo sviluppo del Sudamerica, travolto da ben altre crisi economiche e politiche, direttamente derivate dagli interessi e dall'egemonia dei vicini e ingombranti Stati Uniti. Il male e la medicina Ora non si tratta di vendere alla General Motors, come pensa Paolo Fresco, o di ristrutturare i concessionari come pensa, si fa per dire, quel creativo di Giancarlo Boschetti, ma di affrontare in modo industriale quello che è stato l'origine della Fiat, e cioè la mobilità di massa a basso costo nelle nuove aree di sviluppo: la Cina, appunto, e poi l'India e l'Africa. Questa è la sfida e questo è il dilemma progettuale in cui si dibatte la Fiat e non solo la Fiat; ovvero la mobilità come prodotto industriale. Questo apre una nuova fase "planetaria" nel settore dell'auto, dove diventa determinante la ricerca e lo sviluppo sia dei "propulsori puliti", sia delle dimensioni spaziali dei veicoli, sia delle forme gestionali. In una parola, si tratta di innovare il prodotto veicolare partendo dal risparmio energetico e da un vero programma di contrazione delle emissioni inquinanti, come richiede il protocollo di Tokyo; dalla valutazione dell'impatto sullo spazio urbano e sulla percorribilità delle strade, cioè sui criteri basilari di un'economia dei trasporti; e dalle telecomunicazioni applicate alla condivisione dei mezzi e all'ottimizzazione dei percorsi e dei consumi. Ad esempio progettando e fabbricando uno "Zev: Zero emission vehicle", a proprietà multipla e a gestione con carta di credito. Ovvero la rivoluzione. Capitalistica, s'intende.
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