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i prigionieri del ciclo economico
- Subject: i prigionieri del ciclo economico
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 11 Jun 2002 06:38:02 +0200
il manifesto - 07 Giugno 2002 I prigionieri del ciclo economico Il lavoro come ospite inatteso della new economy. L'analisi del ruolo dei fondi pensione, dell'economia dell'attenzione e del keynesimo di guerra dopo l'11 settembre nell'ultimo libro di Christian Marazzi BENEDETTO VECCHI Il volume di Christian Marazzi Capitale e linguaggio pubblicato dalla casa editrice DeriveApprodi (pp. 166, 11 euro) riprende, rielaborandole, le lezione tenute dall'autore presso l'Università della Calabria lo scorso anno e che avevano avuto una prima pubblicazione da parte dell'editore Rubbettino. Di quelle lezioni è rimasta l'impostazione iniziale e la chiarezza necessaria a una esposizione che vuol evidenziarehiarire i punti di continuità e le discontinuità dell'attuale modo di produzione capitalistica. Da qui, la meticolosità con cui Marazzi elenca i case studies, i riferimenti bibliografici, le posizioni in campo di quella che l'autore definisce «finanziarizzazione dell'economia capitalistica»: espressione che evoca antiche discussioni in campo marxista e non solo, ma da cui il libro prende creativamente congedo. Per Marazzi, la continuità dell'economia mondiale risiede nel rapporto sociale di produzione capitalistico che è alla sua base e che ha una vocazione per così dire universale. Il capitalismo è quindi cosmopolita perché deve espandersi continuamente per evitare la crisi. Solo così, afferma l'autore, possiamo comprendere appieno il colonialismo prima e l'imperialismo poi. Anche il ruolo alcune volte «egemonico» del capitale finanziario nella produzione della ricchezza può essere ed è già stato spiegato attraverso alcuni meccanismi «interni» dell'accumulazione capitalistica. Ad esempio, Marazzi concorda con quanti sottolineano che l'attuale globalizzazione non è molto dissimile da quello che accade nel primo decennio del Novecento. Allo stesso tempo accoglie il punto di vista di chi sostiene l'interdipendenza tra economia reale e capitale finanziario. La discontinuità che segna l'attuale capitalismo va ricercata, sostiene a ragione Marazzi, nel cambiamento della natura e delle forme del lavoro. E' questa la parte di Capitale e linguaggio che si legge tutta di un fiato, per l'indubbia capacità di esemplificazione dell'autore nello spiegare comportamenti e fenomeni sociali. Per Marazzi, la genesi del capitalismo postfordista va ricercata nei turbolenti anni Settanta, quando il modo di regolare il conflitto tra capitale e forza-lavoro entra in crisi. Una crisi dovuta alla rigidità imposta dalle lotte operaie nella grande fabbrica e all'esaurimento della spinta propulsiva del welfare state in quanto «pianificazione» del capitale del ciclo economico. Le lotte contro il lavoro salariato, afferma Marazzi, rompono le mura della fabbrica e si diffondono nella società, investendo anche il welfare state. Sul piano internazionale, la crisi petrolifera costringe l'amministrazione americana ad esportare la sua crisi. E' l'inizio della controrivoluzione neoliberista, che smantella il potere operaio in fabbrica attraverso l'uso capitalistico delle tecnologie informatiche. Ma se questa è la risposta «interna», quella a livello internazionale punta a deregolamentare le norme di circolazione dei capitali e di «allocazione» del capitale finanziario. Sono questi gli anni della crescita della borsa, grazie anche all'entrata in campo dei fondi pensione che cercano sbocchi per «rendimenti crescenti» dei capitali investiti. Una prima contraddizione è quindi evidente. Di fronte al ridimensionamento del welfare state, la forza-lavoro opera sul versante della «finanziarizzazione dell'economia domestica» per garantirsi redditi adeguati per l'acquisto di quelle protezioni sociali in precedenza previste dallo stato sociale. Il «capitalismo dei fondi pensione» costringe però a ridefinire i rapporti tra il centro e la periferia dell'economia capitalistica. Secondo il vecchio leit motiv del pensiero critico, non c'è sviluppo senza sottosviluppo: così i fondi pensioni dei salariati nel centro dell'economia mondiale sono «complici» della riproduzioni delle feroci gerarchie che condannano buona parte del pianeta a una condizione di sudditanza. A questo punto però entra in campo un altro fattore: il lavoro, o meglio il lavoro vivo. Il capitalismo postfordista vede il linguaggio, la conoscenza, il sapere come forze produttive. Nell'analisi di Marx era il dispiegarsi del general intellect in macchine. Più arditamente, Marazzi sostiene, anche qui a ragione, che il general intellect è lavoro vivo. E' questo, quindi, il bandolo della matassa da sbrogliare, in particolar modo se la forza-lavoro manifesta una certa razionalità (Marazzi la chiama «la razionalità della moltitudine») nel mantenere alto il proprio potere d'acquisto e a intraprendendere stategie di difesa dalle politiche neoliberiste. Questo non significa ovviamente che è all'opera una poltica «sovversiva». Più semplicemente, si tratta di comportamenti razionali di autodifesa, che diventano un ostacolo per il capitale quando si manifesta la crisi. L'autore ripete più volte che la crisi è sempre stato lo strumento da parte del capitale per ritrovare punti di «equilibrio sistemico». Anche in questo caso la crisi della new economy ha questa valenza politica. Una crisi di sovrapproduzione di merci «informazionali» che incontra il limite biologico dell'attenzione. Ma questa «economia dell'attenzione» apre un altro capitolo, quello che ancora in corso, esploso in tutta la sua drammaticità con l'11 Settembre. La guerra e il «keynesismo di guerra» dell'ammistrazione Bush è però solo il prologo di un mutamento ancora all'insegna del regime del lavoro salariato. Compito del pensiero critico è quindi di mantenere alta l'attenzione e una capacità di spiegare i passaggi in corso. Capacità e chiarezza espositiva che fanno di Capitale e linguaggio uno dei migliori testi per fornire coordinate utili per muoversi nel mondo attuale.
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