i prigionieri del ciclo economico



     
il manifesto - 07 Giugno 2002 
 
 
I prigionieri del ciclo economico 
Il lavoro come ospite inatteso della new economy. L'analisi del ruolo dei
fondi pensione, dell'economia dell'attenzione e del keynesimo di guerra
dopo l'11 settembre nell'ultimo libro di Christian Marazzi
BENEDETTO VECCHI
Il volume di Christian Marazzi Capitale e linguaggio pubblicato dalla casa
editrice DeriveApprodi (pp. 166, 11 euro) riprende, rielaborandole, le
lezione tenute dall'autore presso l'Università della Calabria lo scorso
anno e che avevano avuto una prima pubblicazione da parte dell'editore
Rubbettino. Di quelle lezioni è rimasta l'impostazione iniziale e la
chiarezza necessaria a una esposizione che vuol evidenziarehiarire i punti
di continuità e le discontinuità dell'attuale modo di produzione
capitalistica. Da qui, la meticolosità con cui Marazzi elenca i case
studies, i riferimenti bibliografici, le posizioni in campo di quella che
l'autore definisce «finanziarizzazione dell'economia capitalistica»:
espressione che evoca antiche discussioni in campo marxista e non solo, ma
da cui il libro prende creativamente congedo. Per Marazzi, la continuità
dell'economia mondiale risiede nel rapporto sociale di produzione
capitalistico che è alla sua base e che ha una vocazione per così dire
universale. Il capitalismo è quindi cosmopolita perché deve espandersi
continuamente per evitare la crisi. Solo così, afferma l'autore, possiamo
comprendere appieno il colonialismo prima e l'imperialismo poi. Anche il
ruolo alcune volte «egemonico» del capitale finanziario nella produzione
della ricchezza può essere ed è già stato spiegato attraverso alcuni
meccanismi «interni» dell'accumulazione capitalistica. Ad esempio, Marazzi
concorda con quanti sottolineano che l'attuale globalizzazione non è molto
dissimile da quello che accade nel primo decennio del Novecento. Allo
stesso tempo accoglie il punto di vista di chi sostiene l'interdipendenza
tra economia reale e capitale finanziario. La discontinuità che segna
l'attuale capitalismo va ricercata, sostiene a ragione Marazzi, nel
cambiamento della natura e delle forme del lavoro.

E' questa la parte di Capitale e linguaggio che si legge tutta di un fiato,
per l'indubbia capacità di esemplificazione dell'autore nello spiegare
comportamenti e fenomeni sociali. Per Marazzi, la genesi del capitalismo
postfordista va ricercata nei turbolenti anni Settanta, quando il modo di
regolare il conflitto tra capitale e forza-lavoro entra in crisi. Una crisi
dovuta alla rigidità imposta dalle lotte operaie nella grande fabbrica e
all'esaurimento della spinta propulsiva del welfare state in quanto
«pianificazione» del capitale del ciclo economico. Le lotte contro il
lavoro salariato, afferma Marazzi, rompono le mura della fabbrica e si
diffondono nella società, investendo anche il welfare state. Sul piano
internazionale, la crisi petrolifera costringe l'amministrazione americana
ad esportare la sua crisi. E' l'inizio della controrivoluzione
neoliberista, che smantella il potere operaio in fabbrica attraverso l'uso
capitalistico delle tecnologie informatiche. Ma se questa è la risposta
«interna», quella a livello internazionale punta a deregolamentare le norme
di circolazione dei capitali e di «allocazione» del capitale finanziario.
Sono questi gli anni della crescita della borsa, grazie anche all'entrata
in campo dei fondi pensione che cercano sbocchi per «rendimenti crescenti»
dei capitali investiti.

Una prima contraddizione è quindi evidente. Di fronte al ridimensionamento
del welfare state, la forza-lavoro opera sul versante della
«finanziarizzazione dell'economia domestica» per garantirsi redditi
adeguati per l'acquisto di quelle protezioni sociali in precedenza previste
dallo stato sociale. Il «capitalismo dei fondi pensione» costringe però a
ridefinire i rapporti tra il centro e la periferia dell'economia
capitalistica. Secondo il vecchio leit motiv del pensiero critico, non c'è
sviluppo senza sottosviluppo: così i fondi pensioni dei salariati nel
centro dell'economia mondiale sono «complici» della riproduzioni delle
feroci gerarchie che condannano buona parte del pianeta a una condizione di
sudditanza. A questo punto però entra in campo un altro fattore: il lavoro,
o meglio il lavoro vivo.

Il capitalismo postfordista vede il linguaggio, la conoscenza, il sapere
come forze produttive. Nell'analisi di Marx era il dispiegarsi del general
intellect in macchine. Più arditamente, Marazzi sostiene, anche qui a
ragione, che il general intellect è lavoro vivo. E' questo, quindi, il
bandolo della matassa da sbrogliare, in particolar modo se la forza-lavoro
manifesta una certa razionalità (Marazzi la chiama «la razionalità della
moltitudine») nel mantenere alto il proprio potere d'acquisto e a
intraprendendere stategie di difesa dalle politiche neoliberiste. Questo
non significa ovviamente che è all'opera una poltica «sovversiva». Più
semplicemente, si tratta di comportamenti razionali di autodifesa, che
diventano un ostacolo per il capitale quando si manifesta la crisi.

L'autore ripete più volte che la crisi è sempre stato lo strumento da parte
del capitale per ritrovare punti di «equilibrio sistemico». Anche in questo
caso la crisi della new economy ha questa valenza politica. Una crisi di
sovrapproduzione di merci «informazionali» che incontra il limite biologico
dell'attenzione. Ma questa «economia dell'attenzione» apre un altro
capitolo, quello che ancora in corso, esploso in tutta la sua drammaticità
con l'11 Settembre. La guerra e il «keynesismo di guerra»
dell'ammistrazione Bush è però solo il prologo di un mutamento ancora
all'insegna del regime del lavoro salariato. Compito del pensiero critico è
quindi di mantenere alta l'attenzione e una capacità di spiegare i passaggi
in corso. Capacità e chiarezza espositiva che fanno di Capitale e
linguaggio uno dei migliori testi per fornire coordinate utili per muoversi
nel mondo attuale.