i cablatori folli soffocati



     
 
il manifesto - 26 Maggio 2002
 
I cablatori folli soffocati dai loro cavi 
Le ultime bancarotte rivelano gli errori di chi ha sovrastimato la domanda
e riempito il mondo di reti per trasportare dati, come in Italia, dove solo
il 5% delle fibre è «acceso». Di fatto, in questi tempi di crisi, è dagli
atti dei processi che, sempre più spesso, si capisce quel che accade nelle
nuove tecnologie
FRANCO CARLINI
L'ultimo fallimento nel mondo delle telecomunicazioni è di soli due giorni
fa; si chiama KPNQwest ed è olandese. Ha portato i libri in tribunale e con
tutta probabilità chiuderà definitivamente. Non è un nome tra i più noti,
al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, ma anche così
il fallimento è assolutamente tipico delle turbolenze dei tempi. Dunque
KPNQwest è, o forse è meglio dire era, un trasportatore di dati, al
servizio specialmente delle aziende. I due soci, che alla fine hanno deciso
di lasciar perdere e di non coprire le perdite con un nuovo investimento di
capitali, sono l'americana Qwest (47%) e l'olandese KPN (40%). L'idea era
di stendere reti in fibra ottica su tutto il continente europeo, per poi
rivendere o affittare quei tubi ad altri operatori di telecomunicazione o
alle aziende che abbiano molto traffico di bit tra le loro diverse sedi. In
breve tempo avevano realizzato un'ottima copertura europea: 18 paesi,
dall'Estonia al Portogallo, dalla repubblica ceca alla Romania. In tutto 25
mila chilometri di fibra ottica, a loro volta connessi ai 300 mila della
Qwest americana. Il gioiello dell'intero sistema è Euroring che, come dice
la parola, è un anello in fibra a alta portata, che collega le 60 maggiori
città europee; all'interno di queste la società ha realizzato delle reti
metropolitane (Man) e installato dei centri di servizi telematici. Nel 2001
il fatturato era stato di 810 milioni di euro, con perdite di 266 milioni.
Da lì si è aperta la voragine, al fondo della quale risulta una esposizione
per 2 miliardi di euro che nessuno dei soci più intende ripianare. La
storia è in qualche modo paradigmatica ed è simile (sia pure cambiando il
contesto) a quella di altri fallimenti, come quello assolutamente
disastroso dell'altra grande azienda americana del trasporto dati,
WorldCom. Il modello, oggi entrato in crisi, suonava così: l'esplosione di
Internet e dei servizi di comunicazione a larga banda richiede grandi
infrastrutture che avvolgano il mondo di fibre ottiche; dunque vale la pena
di stendere molti cavi, collegando specialmente le grandi città degli
affari, perché a quel punto i possessori dei tubi si troveranno in
posizione di vantaggio e avranno la coda davanti agli uffici per comprare o
affittare il transito su quelle reti. In altre parole: «cablate, cablate,
qualcuno comprerà».

Non è andata così. Una recente indagine condotta sulle reti in fibra
italiane segnala questa sconvolgente situazione: di tutta la fibra stesa
per la penisola, solo il 5 per cento è «acceso», ovvero collegato a
qualcosa. Il restante è fibra «scura» e cioè cavi depositati nel terreno
che per il momento non portano da nessuna parte.

Gli errori commessi dai cablatori folli sono stati sostanzialmente due.
Intanto molti di loro hanno posato la fibra dove era più facile e meno
costoso (per esempio nelle grandi pianure americane), ma si sono fermati
alle porte delle città. Il vero vantaggio invece è quello di arrivare al
portone di casa degli utenti, ma quegli ultimi chilometri sono assai
costosi. Così si genera il paradosso di un eccesso di offerta sulle grandi
dorsali, mentre la domanda metropolitana di connettività magari non viene
soddisfatta.

Il secondo errore, forse più comprensibile, deriva dall'aver sovrastimato
l'aumento del traffico di bit. Questo effettivamente continua a ritmi più
che sostenuti, ma sono venuti meno nel frattempo i grandi clienti della New
Economy, le aziende dot com che acquistavano quote significative delle
dorsali Internet, per farvi transitare i loro dati.

Succede dunque che per capire cosa succede nelle nuove tecnologie occorra
sempre più spesso esaminare gli atti dei processi. Dunque dal tribunale
fallimentare varrà la pena di volare in America, per guardare più da vicino
due altre storie. La prima riguarda Oracle e lo Stato della California.
L'aggressiva Oracle è leader in un terreno cruciale del software, quello
degli archivi elettronici, o database. I suoi software capaci di gestire
milioni di transazioni, aggiornando al volo gli archivi, sono una
componente assolutamente cruciale dell'economia digitalizzata; senza tali
macina-numeri non potrebbero funzionare le banche, né l'ufficio delle
imposte e nemmeno molti siti Internet. La quota di mercato è di tutto
riguardo, il 42,5 per cento, ma è scesa di 4,4 punti l'anno scorso, per via
della concorrenza congiunta di Ibm (dall'alto) e di Microsoft (dal basso).

Il capo della Oracle si chiama Larry Ellison, ha una biografia dura, di
ragazzo povero che si è fatto da solo, ma che da grande è divenuto
fortissimo e assai aggressivo. Viene considerato il grande antagonista,
persino sul piano umano, di Bill Gates e infatti, se fosse solo per questo,
gli è pari in spregiudicatezza e iattanza. La Oracle dunque riuscì a suo
tempo a strappare un contratto ipermiliardario allo Stato della California,
del valore di 95 milioni di dollari. Nei mesi scorsi, a un esame più
approfondito, è venuto fuori che quella somma era francamente esagerata,
per una quarantina di milioni circa, di dollari. Alcuni dei responsabili
degli acquisti dello stato si sono dovuti dimettere, altri stanno
difendendo davanti agli inquirenti e in tutte le maniere la loro buona fede.

Il caso, attualmente in discussione presso un tribunale californiano, ha
già prodotto comunque la rescissione del contratto e soprattutto la
restituzione delle donazioni che alcuni politici dello stato avevano
ricevuto dalla Oracle, come contributo alle loro campagne elettorali. Il
governatore Davis ha restituito 25 mila dollari e 50 mila sono stati
restituiti dall'avvocato generale dello stato, Bill Lockyer. Le donazioni,
che per legge devono essere pubbliche e registrate, erano state fatte due
settimane dopo la firma dell'importante contratto. Diciamo che è una forma
di bustarella palese.

C'è grande attesa ora per l'imminente testimonianza del lobbysta che agì
per conto della Oracle, Ravi Mehta. Il signore in questione (che negoziò il
contributo elettorale della Oracle al governatore) è una figura tutta da
scoprire: nel recente passato infatti fu il presidente del Comitato Etico
dello stato, a metà degli anni `90, quando il governatore era il
conservatore Pete Wilson. Ma da quel posto venne infine licenziato, dato il
comportamento eccessivamente disinvolto. A compensazione del licenziamento
ricevette l'incarico di «special prosecutor» (una specie di pubblico
minisero speciale) della California del sud e nei sei mesi successivi, ci
ricorda il quotidiano Sacramento Bee", fatturò 300 mila dollari allo stato,
con tariffa oraria di 250 dollari e per ringraziare i suoi protettori
politici aprì 70 procedimenti d'accusa contro i loro oppositori politici.
Di passaggio trovò anche il modo di usare i soldi di un cliente per farsi
riverniciare la Porsche.

Il secondo illuminante processo di questi giorni è forse meno truffaldino,
almeno in punta di diritto, ma anche più interessante, perché, sgonfiata la
bolla delle New Economy, mette in luce i meccanismi che la alimentarono.
Essi non erano la tecnologia elettronica, né l'innovazione, ma semmai la
tecnica e l'invenzione creativa di tipo finanziario. Sotto accusa c'è,
niente di meno, che la rispettabile banca di investimenti Goldman Sachs che
nel 1999 curò l'andata in borsa (IPO) del sito di giocattoli eToys.com che
intendeva rivaleggiare con la robusta catena di giocattoli, diffusa in
tutto il mondo, Toys 'R Us. Il prezzo allora stabilito da Goldman Sachs per
l'offerta era di soli 20 dollari che schizzarono a 76 in poche ore. Ora i
creditori e gli ex azionisti della società, nel frattempo fallita,
sostengono che la banca giocò sporco: infatti avrebbe passato a una serie
di investitori amici molte azioni di eToys, a un prezzo di favore e avrebbe
appositamente stabilito un prezzo iniziale molto basso. In questo modo chi
aveva già in mano le azioni poteva rapidamente realizzare un bel surplus,
rivendendole alle frotte di piccoli investitori che stavano accorrendo. Una
cosa è certa: l'incubatore californiano Idealab in cambio delle sue
prestazioni ottenne prima dell'IPO 20 milioni di azioni al valore di mezzo
centesimo l'una. Nei mesi successivi Idealab vendette 3,8 milioni di
azioni, realizzando una plusvalenza di 193 milioni di dollari. Sembra che
da alcuni dei clienti privilegiati la banca abbia ricevuto indietro parte
delle plusvalenze così realizzate.