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i cablatori folli soffocati
- Subject: i cablatori folli soffocati
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 31 May 2002 19:22:09 +0200
il manifesto - 26 Maggio 2002 I cablatori folli soffocati dai loro cavi Le ultime bancarotte rivelano gli errori di chi ha sovrastimato la domanda e riempito il mondo di reti per trasportare dati, come in Italia, dove solo il 5% delle fibre è «acceso». Di fatto, in questi tempi di crisi, è dagli atti dei processi che, sempre più spesso, si capisce quel che accade nelle nuove tecnologie FRANCO CARLINI L'ultimo fallimento nel mondo delle telecomunicazioni è di soli due giorni fa; si chiama KPNQwest ed è olandese. Ha portato i libri in tribunale e con tutta probabilità chiuderà definitivamente. Non è un nome tra i più noti, al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori, ma anche così il fallimento è assolutamente tipico delle turbolenze dei tempi. Dunque KPNQwest è, o forse è meglio dire era, un trasportatore di dati, al servizio specialmente delle aziende. I due soci, che alla fine hanno deciso di lasciar perdere e di non coprire le perdite con un nuovo investimento di capitali, sono l'americana Qwest (47%) e l'olandese KPN (40%). L'idea era di stendere reti in fibra ottica su tutto il continente europeo, per poi rivendere o affittare quei tubi ad altri operatori di telecomunicazione o alle aziende che abbiano molto traffico di bit tra le loro diverse sedi. In breve tempo avevano realizzato un'ottima copertura europea: 18 paesi, dall'Estonia al Portogallo, dalla repubblica ceca alla Romania. In tutto 25 mila chilometri di fibra ottica, a loro volta connessi ai 300 mila della Qwest americana. Il gioiello dell'intero sistema è Euroring che, come dice la parola, è un anello in fibra a alta portata, che collega le 60 maggiori città europee; all'interno di queste la società ha realizzato delle reti metropolitane (Man) e installato dei centri di servizi telematici. Nel 2001 il fatturato era stato di 810 milioni di euro, con perdite di 266 milioni. Da lì si è aperta la voragine, al fondo della quale risulta una esposizione per 2 miliardi di euro che nessuno dei soci più intende ripianare. La storia è in qualche modo paradigmatica ed è simile (sia pure cambiando il contesto) a quella di altri fallimenti, come quello assolutamente disastroso dell'altra grande azienda americana del trasporto dati, WorldCom. Il modello, oggi entrato in crisi, suonava così: l'esplosione di Internet e dei servizi di comunicazione a larga banda richiede grandi infrastrutture che avvolgano il mondo di fibre ottiche; dunque vale la pena di stendere molti cavi, collegando specialmente le grandi città degli affari, perché a quel punto i possessori dei tubi si troveranno in posizione di vantaggio e avranno la coda davanti agli uffici per comprare o affittare il transito su quelle reti. In altre parole: «cablate, cablate, qualcuno comprerà». Non è andata così. Una recente indagine condotta sulle reti in fibra italiane segnala questa sconvolgente situazione: di tutta la fibra stesa per la penisola, solo il 5 per cento è «acceso», ovvero collegato a qualcosa. Il restante è fibra «scura» e cioè cavi depositati nel terreno che per il momento non portano da nessuna parte. Gli errori commessi dai cablatori folli sono stati sostanzialmente due. Intanto molti di loro hanno posato la fibra dove era più facile e meno costoso (per esempio nelle grandi pianure americane), ma si sono fermati alle porte delle città. Il vero vantaggio invece è quello di arrivare al portone di casa degli utenti, ma quegli ultimi chilometri sono assai costosi. Così si genera il paradosso di un eccesso di offerta sulle grandi dorsali, mentre la domanda metropolitana di connettività magari non viene soddisfatta. Il secondo errore, forse più comprensibile, deriva dall'aver sovrastimato l'aumento del traffico di bit. Questo effettivamente continua a ritmi più che sostenuti, ma sono venuti meno nel frattempo i grandi clienti della New Economy, le aziende dot com che acquistavano quote significative delle dorsali Internet, per farvi transitare i loro dati. Succede dunque che per capire cosa succede nelle nuove tecnologie occorra sempre più spesso esaminare gli atti dei processi. Dunque dal tribunale fallimentare varrà la pena di volare in America, per guardare più da vicino due altre storie. La prima riguarda Oracle e lo Stato della California. L'aggressiva Oracle è leader in un terreno cruciale del software, quello degli archivi elettronici, o database. I suoi software capaci di gestire milioni di transazioni, aggiornando al volo gli archivi, sono una componente assolutamente cruciale dell'economia digitalizzata; senza tali macina-numeri non potrebbero funzionare le banche, né l'ufficio delle imposte e nemmeno molti siti Internet. La quota di mercato è di tutto riguardo, il 42,5 per cento, ma è scesa di 4,4 punti l'anno scorso, per via della concorrenza congiunta di Ibm (dall'alto) e di Microsoft (dal basso). Il capo della Oracle si chiama Larry Ellison, ha una biografia dura, di ragazzo povero che si è fatto da solo, ma che da grande è divenuto fortissimo e assai aggressivo. Viene considerato il grande antagonista, persino sul piano umano, di Bill Gates e infatti, se fosse solo per questo, gli è pari in spregiudicatezza e iattanza. La Oracle dunque riuscì a suo tempo a strappare un contratto ipermiliardario allo Stato della California, del valore di 95 milioni di dollari. Nei mesi scorsi, a un esame più approfondito, è venuto fuori che quella somma era francamente esagerata, per una quarantina di milioni circa, di dollari. Alcuni dei responsabili degli acquisti dello stato si sono dovuti dimettere, altri stanno difendendo davanti agli inquirenti e in tutte le maniere la loro buona fede. Il caso, attualmente in discussione presso un tribunale californiano, ha già prodotto comunque la rescissione del contratto e soprattutto la restituzione delle donazioni che alcuni politici dello stato avevano ricevuto dalla Oracle, come contributo alle loro campagne elettorali. Il governatore Davis ha restituito 25 mila dollari e 50 mila sono stati restituiti dall'avvocato generale dello stato, Bill Lockyer. Le donazioni, che per legge devono essere pubbliche e registrate, erano state fatte due settimane dopo la firma dell'importante contratto. Diciamo che è una forma di bustarella palese. C'è grande attesa ora per l'imminente testimonianza del lobbysta che agì per conto della Oracle, Ravi Mehta. Il signore in questione (che negoziò il contributo elettorale della Oracle al governatore) è una figura tutta da scoprire: nel recente passato infatti fu il presidente del Comitato Etico dello stato, a metà degli anni `90, quando il governatore era il conservatore Pete Wilson. Ma da quel posto venne infine licenziato, dato il comportamento eccessivamente disinvolto. A compensazione del licenziamento ricevette l'incarico di «special prosecutor» (una specie di pubblico minisero speciale) della California del sud e nei sei mesi successivi, ci ricorda il quotidiano Sacramento Bee", fatturò 300 mila dollari allo stato, con tariffa oraria di 250 dollari e per ringraziare i suoi protettori politici aprì 70 procedimenti d'accusa contro i loro oppositori politici. Di passaggio trovò anche il modo di usare i soldi di un cliente per farsi riverniciare la Porsche. Il secondo illuminante processo di questi giorni è forse meno truffaldino, almeno in punta di diritto, ma anche più interessante, perché, sgonfiata la bolla delle New Economy, mette in luce i meccanismi che la alimentarono. Essi non erano la tecnologia elettronica, né l'innovazione, ma semmai la tecnica e l'invenzione creativa di tipo finanziario. Sotto accusa c'è, niente di meno, che la rispettabile banca di investimenti Goldman Sachs che nel 1999 curò l'andata in borsa (IPO) del sito di giocattoli eToys.com che intendeva rivaleggiare con la robusta catena di giocattoli, diffusa in tutto il mondo, Toys 'R Us. Il prezzo allora stabilito da Goldman Sachs per l'offerta era di soli 20 dollari che schizzarono a 76 in poche ore. Ora i creditori e gli ex azionisti della società, nel frattempo fallita, sostengono che la banca giocò sporco: infatti avrebbe passato a una serie di investitori amici molte azioni di eToys, a un prezzo di favore e avrebbe appositamente stabilito un prezzo iniziale molto basso. In questo modo chi aveva già in mano le azioni poteva rapidamente realizzare un bel surplus, rivendendole alle frotte di piccoli investitori che stavano accorrendo. Una cosa è certa: l'incubatore californiano Idealab in cambio delle sue prestazioni ottenne prima dell'IPO 20 milioni di azioni al valore di mezzo centesimo l'una. Nei mesi successivi Idealab vendette 3,8 milioni di azioni, realizzando una plusvalenza di 193 milioni di dollari. Sembra che da alcuni dei clienti privilegiati la banca abbia ricevuto indietro parte delle plusvalenze così realizzate.
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