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la sfida dell'art.18
- Subject: la sfida dell'art.18
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 28 May 2002 18:12:11 +0200
dal nuovo.it editoriali Domenica, 26 Maggio 2002 18:49 La sfida di D'Amato è ora l'art.18 di Raffaele Morese Confindustria fa l' azionista del Governo Ma, dopo un anno, non ha avuto granché D'Amato deve ora riempire il sacco vuoto Altrimenti tramonta lo stellone della sua lobby Chi si attendeva particolari novità dal Presidente della Confindustria D’Amato è rimasto deluso. La sua relazione all’Assemblea annuale è rimasta nel solco della linea scelta due anni fa dalla maggioranza degli industriali. Quella di una Confindustria che si fida più di un Governo amico che di un asse preferenziale con il sindacato. Una Confindustria più lobby che soggetto concertativo. Forte dell’80% dei consensi con cui gli è stato rinnovato il mandato biennale, D’Amato non si è scostato di un millimetro dall’impronta che diede due anni fa sconfiggendo il candidato della Fiat, il concertativo per eccellenza, Callieri. E’ vero che ha bacchettato il Governo, ha criticato la politica delle riforme annunciate e non fatte, ha gelato l’ottimismo di Tremonti sulla crescita del PIL. Ma non ha preso le distanze. Non ha delineato preferenzialità nuove. Si è comportato più da azionista di riferimento, non molto soddisfatto del modo come è assolto il mandato dato, che da soggetto autonomo. Ed ha incassato l’applauso di Berlusconi che ha capito perfettamente che le critiche non significano caduta di fiducia. Sono avvertimento di un disagio, sollecitazione a non alzare troppo la palla con il rischio di non colpirla, preoccupazione di una perdita di controllo della situazione sociale ed economica. Le stesse parole spese, in positivo, sul sindacato non devono trarre in inganno. Non c’è cambiamento di strategia. Resta un interlocutore. Che si può incrociare o no. Con cui si può convenire o no. Unitariamente o no. Il lusinghiero giudizio speso sul suo passato non riguarda il futuro. L’investimento sul sindacato è secondario. Angeletti e Pezzotta, più che Cofferati sono i più maltrattati da questa relazione. L’investimento è sulla politica. A cui si chiede di agire. E sollecitamente. Da vera lobby. E’ questa la differenza con la Confindustria di Fossa e a risalire fino a Carli. Non a caso Abete è tra i più critici. Quelle che si sentivano e agivano come soggetti di interessi specifici. E come tali coinvolgenti altri soggetti sociali con la stessa vocazione. E, convergentemente, ponendosi in modo dialettico ed autonomo come interlocutori delle forze politiche e del Governo. E’ la scelta di agire con una visione complessiva delle esigenze del Paese che ha alimentato la cultura della concertazione. Una cultura che portava le parti sociali oltre la logica dello scambio. La crisi della concertazione – iniziata, per la verità, prima della stagione di D’Amato e forse non addebitabile del tutto alla Confindustria – è crisi della vocazione del soggetto generale. Scrollarsi di dosso la responsabilità concertativa è sembrato, alla maggioranza degli industriali, ai “berlusconini” come li chiamò Agnelli, un atto liberatorio. Senza quel fardello, gli interessi si sarebbero tutelati meglio. Questo messaggio accompagnò l’ascesa di D’Amato. Ma il lobbismo pretende risultati. Derubricando la Confindustria da soggetto generale a lobby è resa più trasparente la conta tra il dare e l’avere, il divario tra le aspettative e i risultati si fa più marcato. Come più vistoso appare il costo della perdita della pace sociale non bilanciato da scelte d politica economica vantaggiose. E D’Amato, dopo un anno di Governo amico, prende atto che la concertazione è sparita nel lessico corrente e nella prassi comune ma alla lobby non è stato dato granché. Infatti, la fronda interna accomuna l’ala concertativa – veramente minoritaria, per ora – e quella della riscossione rapida e netta. A Berlusconi che ha chiesto tempo, perché “riformare è maledettamente difficile”, la Confindustria non volta le spalle. L’applaude, anche se meno calorosamente di un anno fa. Ma il sacco vuoto è troppo evidente. D’Amato dovrà riempirlo, se vuole che la dottrina del “facciamo i nostri interessi” ne esca vincente. E la consapevolezza che la spesa pubblica corre troppo, la crescita meno del previsto e le operazioni di maquillage del bilancio dello Stato ipotizzate da Tremonti non si possono ripetere nel tempo obbligano D’Amato a tenere duro sull’articolo 18. Se non c’è neanche quello, il sacco rischia di rimanere floscio. E con esso si affloscerebbe lo stellone della lobby. La partita è concretamente ardua e a D’Amato non è concesso altro che andare fino in fondo.
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