la sfida dell'art.18



dal nuovo.it

   editoriali  
  
  
Domenica, 26 Maggio 2002    18:49  
  
   
 
La sfida di D'Amato è ora l'art.18

 
 di Raffaele Morese 
 
Confindustria fa l' azionista del Governo
Ma, dopo un anno, non ha avuto granché
D'Amato deve ora riempire il sacco vuoto
Altrimenti tramonta lo stellone della sua lobby
Chi si attendeva particolari novità dal Presidente della Confindustria
D’Amato è rimasto deluso. La sua relazione all’Assemblea annuale è rimasta
nel solco della linea scelta due anni fa dalla maggioranza degli
industriali. Quella di una Confindustria che si fida più di un Governo
amico che di un asse preferenziale con il sindacato. Una Confindustria più
lobby che soggetto concertativo. 

Forte dell’80% dei consensi con cui gli è stato rinnovato il mandato
biennale, D’Amato non si è  scostato di un millimetro dall’impronta che
diede due anni fa sconfiggendo il candidato della Fiat, il concertativo per
eccellenza, Callieri. E’ vero che ha bacchettato il Governo, ha criticato
la politica delle riforme annunciate e non fatte, ha gelato l’ottimismo di
Tremonti sulla crescita del PIL. Ma non ha preso le distanze. Non ha
delineato preferenzialità nuove. Si è comportato più da azionista di
riferimento, non molto soddisfatto del modo come è assolto il mandato dato,
che da soggetto autonomo. 

Ed ha incassato l’applauso di Berlusconi che ha capito perfettamente che le
critiche non significano caduta di fiducia. Sono avvertimento di un
disagio, sollecitazione a non alzare troppo la palla con il rischio di non
colpirla, preoccupazione di una perdita di controllo della situazione
sociale ed economica. 

Le stesse parole spese, in positivo, sul sindacato non devono trarre in
inganno. Non c’è cambiamento di strategia. Resta un interlocutore. Che si
può incrociare o no. Con cui si può convenire o no. Unitariamente o no. Il
lusinghiero giudizio speso sul suo passato non riguarda il futuro.
L’investimento sul sindacato è secondario. Angeletti e Pezzotta, più che
Cofferati sono i più maltrattati da questa relazione. L’investimento è
sulla politica. A cui si chiede di agire. E sollecitamente. Da vera lobby. 

E’ questa la differenza con la Confindustria di Fossa e a risalire fino a
Carli. Non a caso Abete è tra i più critici. Quelle che si sentivano e
agivano come soggetti di interessi specifici. E come tali coinvolgenti
altri soggetti sociali con la stessa vocazione. E, convergentemente,
ponendosi in modo dialettico ed autonomo come interlocutori delle forze
politiche e del Governo. E’ la scelta di agire con una visione complessiva
delle esigenze del Paese che ha alimentato la cultura della concertazione.
Una cultura che portava le parti sociali oltre la logica dello scambio. 

La crisi della concertazione – iniziata, per la verità, prima della
stagione di D’Amato e forse non addebitabile del tutto alla Confindustria –
è crisi della vocazione del soggetto generale. Scrollarsi di dosso la
responsabilità concertativa è sembrato, alla maggioranza degli industriali,
ai “berlusconini” come li chiamò Agnelli, un atto liberatorio. Senza quel
fardello, gli interessi si sarebbero tutelati meglio. Questo messaggio
accompagnò l’ascesa di D’Amato. 

Ma il lobbismo pretende risultati. Derubricando la Confindustria da
soggetto generale a lobby è resa più trasparente la conta tra il dare e
l’avere, il divario tra le aspettative e i risultati si fa più marcato.
Come più vistoso appare il costo della perdita della pace sociale non
bilanciato da scelte d politica economica vantaggiose. E D’Amato, dopo un
anno di Governo amico, prende atto che la concertazione è sparita nel
lessico corrente e nella prassi comune ma alla lobby non è stato dato
granché. Infatti, la fronda interna accomuna l’ala concertativa – veramente
minoritaria, per ora – e quella della riscossione rapida e netta. 

A Berlusconi che ha chiesto tempo, perché “riformare è maledettamente
difficile”, la Confindustria non volta le spalle. L’applaude, anche se meno
calorosamente di un anno fa. Ma il sacco vuoto è troppo evidente. D’Amato
dovrà riempirlo, se vuole che la dottrina del “facciamo i nostri interessi”
ne esca vincente. E la consapevolezza che la spesa pubblica corre troppo,
la crescita meno del previsto e le operazioni di maquillage del bilancio
dello Stato ipotizzate da Tremonti non si possono ripetere nel tempo
obbligano D’Amato a tenere duro sull’articolo 18. Se non c’è neanche
quello, il sacco rischia di rimanere floscio. E con esso si affloscerebbe
lo stellone della lobby. La partita è concretamente ardua e a D’Amato non è
concesso altro che andare fino in fondo.