l'art.18 non disturba gli imprenditori capaci



   
il manifesto - 22 Maggio 2002 
 
IL NANISMO DELLE IMPRESE ITALIANE
L'art. 18 non disturba gli imprenditori capaci
ERNESTO GEPPI
Le imprese italiane, queste sconosciute. Dalla lettura del secondo capitolo
del rapporto annuale 2001 dell'Istat (scaricabile sul sito www.istat.it)
emerge con chiarezza un fatto: a ignorare la realtà delle imprese italiane
sono soprattutto governo e Confindustria. Continuano a prendersela con
l'art.18 dello Statuto dei lavoratori, il grande ostacolo - dicono - alla
crescita e alla competitività delle imprese: un'occhiata al grafico
contenuto a pag.74 del rapporto può servire a misurare la strumentalità di
quest'attacco. Sulla soglia dei 14 dipendenti non c'è nessun accumulo di
imprese timorose di crescere assumendo il quindicesimo. Confindustria
continua ad accanirsi contro costo del lavoro e retribuzioni che
frenerebbero la competitività? L'Istat documenta che le imprese con
migliori risultati economici, produttività e profitti, sono proprio quelle
che pagano meglio i propri lavoratori. Sono queste quelle che esportano,
che riescono a stare sui mercati esteri. Si è continuato in questi anni a
chiedere le gabbie salariali per il sud? Ebbene, lì il costo del lavoro è
già ora più basso del 16,5% rispetto alle imprese del nord-ovest, ma ciò
non sembra aver favorito la produttività delle imprese meridionali
(inferiore di oltre il 30% rispetto al nord ovest).

Come si legge nel rapporto, le imprese italiane - escludendo sommerso,
agricoltura e pesca - sono più di 4 milioni: un'impresa ogni 14 abitanti.
Vi lavorano 15 milioni di addetti, con ovvia prevalenza assoluta delle
piccolissime unità produttive. Sono 3,2 milioni infatti le imprese con uno
o due addetti (titolare e al massimo un dipendente). Metà degli occupati
nel settore privato lavora in imprese con meno di 10 addetti. Le meno di
10mila imprese con almeno 100 addetti esprimono invece solo un quarto dei
dipendenti.

Delle piccole imprese italiane si parla molto poco, mentre i media fanno
coincidere l'andamento dell'economia con quello dei listini delle meno di
300 imprese quotate nell'asfittica borsa di Milano. In realtà la piccola
impresa (oltre che il commercio e gli studi professionali), rappresenta una
quota cospicua degli addetti dell'industria manifatturiera e dei servizi.
Negli anni scorsi l'Istat aveva già segnalato che nel settore dei servizi
le imprese italiane sono mediamente più piccole di quelle degli altri paesi
Ue (compresi Grecia e Portogallo); lo stesso avviene nell'industria, con
qualche eccezione.

Ma come sono organizzate le imprese italiane, in particolare quelle più
piccole? Qual è la qualità dei loro comportamenti e strategie? Quest'anno
l'Istat, oltre a presentare i risultati economici, tenta di dare una
lettura di alcuni aspetti qualitativi. Ne emerge un quadro poco
lusinghiero. Un'ampia quota di piccole imprese non ha un impianto
organizzativo apprezzabile: scarsa informatizzazione, nessuna attività
innovativa o di ricerca e sviluppo, scarsissimi rapporti di collaborazione
con altre imprese, bassa qualità nella gestione delle risorse umane e poca
interazione con il mercato del lavoro. Meno del 10% delle imprese fino a
due addetti mostra profili organizzativi elevati; la percentuale sale di
poco, al 20% circa, per le imprese fra 3 e 9 addetti. Ovviamente, più le
imprese sono grandi e maggiore è il loro grado di complessità. Tuttavia
solo poco più di un terzo delle imprese con almeno 50 addetti ha introdotto
innovazioni negli ultimi tre anni e meno di un terzo ha svolto (o
commissionato) attività di ricerca e sviluppo. E meno del 30% ha rapporti
di collaborazione con altre imprese; neppure una su 10 collabora con
imprese straniere.

Vale la pena di sottolineare che, in tutte le classi dimensionali, le
imprese meglio organizzate sono anche quelle che pagano di più i propri
dipendenti, che presentano una migliore produttività, più elevati margini
di profitto e una più spiccata tendenza ad aumentare l'occupazione. Le
imprese con una più elevata produttività sono peraltro anche quelle che
maggiormente ricorrono a collaborazioni esterne e al lavoro flessibile.
Oltre un terzo delle imprese con almeno 50 addetti e un quarto di quelle
fra 20 e 49 addetti ricorrono ai lavoratori coordinati e continuativi,
mentre l'intensità del ricorso a questa forma di lavoro precario perde
rapidamente consistenza presso le imprese più piccole. Il fenomeno è
praticamente concentrato presso le imprese industriali sopra i 10 addetti.

Molto scarsi appaiono inoltre gli sforzi compiuti dalle imprese per
valorizzare i propri dipendenti. Meno del 20% delle imprese con almeno 10
addetti ha svolto corsi di formazione per il personale: l'Italia è, insieme
al Portogallo, all'ultimo posto nella graduatoria europea. In Danimarca,
Olanda, Irlanda, Germania e Belgio le analoghe percentuali sono tutte
ampiamente al di sopra del 70%.

A scorrere questi dati viene un dubbio: la parte meno capitalistica e meno
«moderna» del sistema economico italiano non sarà forse costituita proprio
dal sistema delle imprese? Diamo un occhiata alle forme giuridiche: quattro
milioni di imprese, di cui 3,4 milioni di ditte individuali e società di
persone e solo 600 mila società di capitali; di queste ultime solo poche
decine di migliaia sono società per azioni, e di queste meno di trecento
sono quotate in borsa. I servizi professionali sono un caso da manuale
della riluttanza a crescere delle imprese: sono attività regolate da ordini
professionali che controllano accessi, tariffe e standard di qualità. La
riforma tendente a introdurre le società di capitali (anche miste) fra
notai, commercialisti, avvocati e consulenti vari, a lungo auspicata
dall'Antitrust per favorire la nascita di imprese di medio-grandi, ha
subìto la forte opposizione degli stessi ordini, timorosi di perdere potere
e controllo.

E' solo un esempio. Evidentemente le imprese italiane non sono rilassate
nella gestione della proprietà, a cominciare dalle vecchie famiglie del
«salotto buono», quelle della borsa. Sarà per questo che le imprese non
vogliono crescere, avere obiettivi di lungo periodo, correre rischi sul
controllo. Ma se la colpa non è dell'art. 18 o dei salari, non sarà il caso
di cominciare a licenziare qualche imprenditore?