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treni i cento pezzi inglesi
- Subject: treni i cento pezzi inglesi
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Fri, 17 May 2002 06:38:26 +0200
il manifesto - 12 Maggio 2002 Treni, i cento pezzi inglesi Viaggio nel welfare inglese al tempo di Blair, prima puntata. Intervista a Andrew Murray, autore di un'analisi documentata e spietata della privatizzazione di British rail, le Fs inglesi MARCO D'ERAMO LONDRA Sono sceso dall'Eurostar a Waterloo Station. Mentre nella pianura francese il treno filava come una pallottola e il tunnel sotto la Manica è stato percorso in soli 20 minuti, in Inghilterra il convoglio ha rallentato così brutalmente da ricordare una battuta di François Mitterrand: «Le ferrovie inglesi ti lasciano tutto il tempo che vuoi per ammirare la campagna». L'anno scorso ho perso l'aereo a Gatwick perché il treno per l'aeroporto si era fermato all'improvviso nel bel mezzo di questa campagna e vi aveva riposato per un'oretta. Ormai nel Regno Unito arrivi in stazione e scopri che il tuo treno è stato cancellato. Perciò il mio viaggio nel welfare britannico sotto il governo del New Labour lo inizio nel nord di Londra da una palazzina fine `800 dagli interni foderati in legno scuro, che ospita, tra l'altro, l'Aslef (Associated society of locomotive engineers and firemen, «associazione dei macchinisti e fuochisti» che, in quest'espressione, ricorda la sua nascita in era vittoriana, al tempo delle locomotive a vapore). L'Aslef ha 16.000 iscritti, la quasi totalità dei conducenti di treno inglesi. Qui incontro Andrew Murray, sulla quarantina - un (lontano) passato come redattore del giornale comunista Morning star - che dell'Aslef è portavoce e che ha scritto il libro più completo sul disastro delle ferrovie britanniche: Off the Rail: Britain's Great Rail Crisis. Cause, Consequenses and Cure (Verso, 2001: «Deragliamento: la grande crisi delle ferrovie britanniche. Cause, conseguenze e cure»). In effetti la privatizzazione di British rail (Br) si è rivelata un tale disastro (e non solo in senso metaforico: per l'incuria si sono infatti moltiplicati letali disastri ferroviari) che perfino l'alfiere del liberismo, il settimanale The Economist ha scritto a suo tempo che le ferrovie inglesi sono l'esempio da manuale di come una privatizzazione non deve essere fatta. Il governo conservatore giustificò infatti la privatizzazione di Br con due ragioni, una di carattere economico: i sussidi alle ferrovie creavano un buco senza fondo alle finanze pubbliche; ma è curioso che nessuno si lamenti perché lo stato finanzia a fondo perduto le strade che noi percorriamo con le nostre automobili: anche il mantenimento delle vie asfaltate crea buchi come quello delle vie ferrate. E poi c'è la ragione addotta a ogni privatizzazione, la concorrenza che - secondo i teorici del libero mercato - ridurrebbe i costi e aumenterebbe l'efficienza: effetti tutti da verificare, alla luce di Lealtà, defezione e protesta, quel grande libro in cui Albert Hirschman mostra come la concorrenza privata al servizio pubblico ne abbia spesso diminuito, e non accresciuto, l'efficienza, semplicemente perché, via via che il servizio pubblico si degrada, nessuno più protesta, ma passa (defeziona) direttamente al concorrente privato. Ma il problema peculiare della ferrovia è che essa è intrinsecamente monopolista: non ha senso costruire binari paralleli per far viaggiare ferrovie concorrenti e che - sullo stesso binario - la concorrenza è puramente nominale perché le due compagnie si devono accordare tra loro per orari e quindi tariffe. Privatizzare significa solo sostituire un monopolio privato a un monopolio pubblico. Per evitare questa ovvia critica, i conservatori di John Major sbriciolarono Br a tal punto che Murray intitola il suo primo capitolo «La ferrovia in cento pezzi». Lei parla sempre di «cento pezzi» per descrivere lo smembramento di Br, ma quanti sono esattamente questi cento pezzi? In realtà sono di più. La zona grigia è costituita dai subappalti. Il governo Major smembrò Br in cinque grandi categorie: 1) materiale viaggiante, la cui proprietà fu divisa fra 3 compagnie, 2) rotaie e stazioni che però non poterono essere suddivise e furono mantenute sotto il controllo di un'unica compagnia, Railtrack; 3) il settore merci merci spartito in 7 società; 4) l'infrastruttura e la manutenzione affidate a 13 compagnie: 5) le compagnie che operano i treni, 25 all'inizio poi consolidatesi. Dalla privatizzazione a oggi c'è stato un processo di concentrazione da un lato (sulle 25 compagnie che gestiscono treni, le quattro più grandi controllano il 70% del traffico) e di ulteriore suddivisione dall'altro. La frammentazione è così complicata che fa la gioia degli avvocati perché moltiplica all'infinito le spese legali nella stipula dei contratti e nelle cause civili per la non osservanza, tutte spese che si ripercuotono sui costi e quindi sui prezzi del biglietto o sulla qualità del servizio, o su ambedue. Inoltre, in questo smembramento, le compagnie «operanti i treni», come la Virgin, diventano società puramente virtuali, mere marche (brands), visto che non possiedono niente, né i treni né i binari né le stazioni. Ma il più grave è che, per aumentare i profitti e i dividendi ai propri azionisti, la società che possedeva binari e stazioni, Railtrack, tendeva a risparmiare sulla manutenzione (da qui i disastri ferroviari): da notare che il servizio per gli utenti si degradava, i dividendi per gli azionisti aumentavano. Anche le imprese di manutenzione hanno sempre lesinato, e hanno evitato le riparazioni che costavano più care anche se più urgenti, sempre in nome del profitto. Per tornare alla sua domanda, è difficile dire il numero esatto delle società in cui è stata frazionata Br perché nel conto rientrano ditte piccolissime che si occupano dell'introduzione di tecnologia informatica o che assicurano la componentistica per le ruote. Ma in tutto sono più di cento. Secondo l'Economist, la privatizzazione è fallita anche perché le concessioni sono state attribuite per un periodo troppo breve per ammortizzare gli importanti investimenti necessari per migliorare le ferrovie. Non è vero. Alcune concessioni erano a corto termine, ma altre erano a lungo termine, alcune erano per 5 anni, altre per 20 anni: e con queste ultime non è andata affatto meglio. Il problema vero è che il capitalismo inglese, la City di Londra come Wall Street, è interessato solo agli utili e ai dividendi a brevissimo termine, a tre mesi, indipendentemente dalla durata della concessione. È la ragione per cui è impossibile rastrellare il capitale necessario per investimenti a lungo termine. Per esempio, mettere insieme i fondi per costruire la tratta ad alta velocità nella parte inglese dell'Eurotunnel si è rivelato molto più difficile che nel resto dell'Europa. Il suo libro è uscito a ottobre. Cosa è cambiato nelle ferrovie inglesi nel frattempo? È cambiato che il governo ha dichiarato in bancarotta Railtrack, la società che possiede le stazioni e i binari e le infrastrutture, e ha deciso di farla rilevare da una società non-profit, Network Rail, che agirà sotto la supervisione dell'Authority per i trasporti e in cui saranno rappresentati i passeggeri. Il passaggio di proprietà è finanziato dal governo per un costo di più di 7 miliardi di sterline (11,4 miliardi di euro), di cui 6,5 miliardi andranno ai creditori e 650 milioni per rilevare le azioni. Perché non semplicemente rinazionalizzare? Perché il governo non voleva rifare un'azienda statale, ma anche perché ci sono complicazioni legali, ci sono gli interessi dei piccoli azionisti da garantire (i fondi pensione hanno investito in Railtrack), ci sono pretese dagli amministratori che avevano operato un take-over al momento della privatizzazione e che ora stanno cercando di offrire la compagnia a privati (si era fatta avanti una banca tedesca, WestLB che poi si è ritirata, ndr). In realtà il governo va verso una compagnia pubblica, ma non può dirlo, neanche a se stesso. La sua opinione sul governo Blair è ora molto diversa da quella, del tutto negativa espressa nel libro. Nei primi quattro anni, dal 1997, il governo non ha fatto nulla per le ferrovie, ma poi i disastri si sono accumulati, Railtrack era coperta dai debiti e qualcosa si doveva fare. Poi è stato nominato un ministro dei trasporti più attivo... Stephen Byers, che però è stato messo sulla graticola dai giornali... Non per quello che ha fatto nelle ferrovie, ma per affaires che riguardano i suoi funzionari. Non sappiamo se lui come ministro sopravviverà, ci interessa che sopravviva la sua politica. Ma Byers vuole privatizzare a tutti i costi la metropolitana di Londra, il Tube, contro il parere del sindaco Ken Livingston. La politica governativa sul Tube è stata decisa molto prima che Byers fosse ministro e dipende interamente dal cancelliere dello scacchiere Gordon Brown che è molto più potente di Byers, è potente quanto Tony Blair, e forse anche di più per gli affari interni. Non è facile capire perché mai Gordon Brown ci tenga tanto a privatizzare il Tube quando tutti gli esperti internazionali di trasporti urbani dicono che è insensato, quando gli utenti e i dipendenti sono contrari. Ma forse dipende dal fatto che Brown è scozzese, non ha interessi elettorali a Londra e quindi non è molto sensibile ad accontentare la base locale . E al primo ministro non interessa molto. Insomma il suo giudizio sul governo Blair è ora molto più positivo... Non molto più positivo, ma sì, per un aspetto più positivo. Quando scrivevo il libro, il governo non faceva niente per riportare le ferrovie nella sfera pubblica, si limitava a elargire enormi sussidi a compagnie private mal gestite e inefficienti. Adesso ha fatto un passo per riportare le ferrovie sotto il controllo pubblico, anche se non basta riprendere il controllo di Railtrack, ci vogliono altri passi. È inutile rinazionalizzare tutto il settore, tipo la piccola manutenzione o il catering, ma solo i grandi blocchi. Per quel che riguarda le compagnie virtuali che operano i treni, quando scadrà il franchising sarà facile farle tornare nella sfera pubblica. Il vero problema è la separazione tra proprietà dei treni e quella di binari e stazioni: va reintegrata la gestione di questi due settori, altrimenti il disservizio continuerà come prima. È solo un primo passo perché sarebbe necessario reintegrare sotto la sfera pubblica gran parte di quel che è stato sbriciolato e perché per migliorare realmente le ferrovie britanniche ci vorrebbe un investimento di almeno 60 miliardi di sterline (100 miliardi di euro). Comunque è la prima volta che il New Labour è costretto a invertire rotta: è la prima privatizzazione a essere rovesciata, anche se solo in parte finora. Ma di fronte a un simile disastro persino Tony Blair che ama tanto il big business non ha potuto far altro. Forse è il segno che il vento sta girando contro l'euforia per le soluzioni di mercato a tutti i costi. Gli inglesi sono pragmatici, non ideologici, e vedono che il privato non ha funzionato. Perché il problema si pone non solo per le ferrovie, ma anche per altre privatizzazioni che all'inizio sembravano un successo ma che ora sono in crisi, come il gas, come British Telecom, British Airways, Birtish Steel. Esco sotto una pioggerellina insistente: non tutte le altre persone con cui discuterò del welfare britannico condivideranno il seppur moderato ottimismo di Andrew Murray.
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