protezionismo nell'era globale



dal manifesto

 
 
il manifesto - 04 Maggio 2002 
 
Protezionismo nell'era globale
L'economia mondiale rallenta, le barriere doganali si alzano. Epicentro gli
Stati uniti, con onde d'urto forti in Europa. Guerra dell'acciaio, del
legname, dei sussidi agli agricoltori, dietro il paravento dell'Omc. E il
Sud del mondo subisce ancora una volta
ANGELA PASCUCCI
Un dialogo fra sordi ben riuscito, l'ultimo vertice tra Stati uniti e
Unione europea che ha visto il Medioriente mescolarsi all'acciaio e ai
sussidi agricoli, in un pesante groviglio di dissensi, davanti ai quali
solo l'understatement era possibile, a meno di andare a uno scontro
irreversibile. Un incontro inutile, stante che ormai il fatto compiuto
prevale sulla diplomazia. A dimostrarlo sono le guerre in corso, tutte.
Perché quelle che si combattono sulla canna del fucile accompagnano quelle
condotte colpendo gli interessi economici. E così, mentre l'economia
mondiale rallenta, torna alla grande il protezionismo più scoperto. Che la
febbre stia crescendo lo ha rilevato il «Rapporto» di una autorevole
società legale internazionale che prende a misura del livello di
protezionismo il numero delle nuove investigazioni sulle misure anti
dumping. Chi le applica afferma di volersi difendere, chi le critica
afferma di essere danneggiato e chiede le indagini. Risultato: nel 2001, le
investigazioni sono state 348, contro le 251 del 2000 e una media di 232
negli anni `90. Chi ha usato di più le misure anti-dumping, di salvaguardia
e i sussidi sono stati gli Usa e l'India, seguiti a ruota dall'Ue.

L'immagine data dalle cifre legali trova perfetto riscontro in una realtà
assai meno rarefatta e più recente. E' vero infatti che gli Stati uniti
hanno deciso di condurre la danza, ancora una volta, ma la musica che
suonano è ben conosciuta dall'Ue, che si è messa subito a ballare. Ma due
giganti che vorticano rischiano di calpestare tutti gli altri, in modo
ancor più brutale di quando fanno la grazia di preavvertire dove poggeranno
i loro devastanti piedi, come avviene durante i vertici dell'Organizzazione
mondiale del Commercio (Omc), il cui ruolo in questa fase è davvero
rivelatorio degli interessi che difende .

E' infatti proprio impugnando le «regole» dell'Omc che gli Usa hanno deciso
di imporre, a partire dal 5 marzo, dazi di «salvaguardia» fino al 30%
sull'import di acciaio. Le importazioni erano cresciute troppo, dice
Washington, per i prezzi troppo bassi dei concorrenti, e avevamo il diritto
di difendere le nostre industrie (molte delle quali già da tempo in
bancarotta). Infuriati i grandi produttori mondiali: Russia, Giappone,
Brasile, Ue. Ma solo la Commissione europea passa all'attacco: un astuto
piano di risposta che prevede tariffe punitive fino al 100% su alcuni
prodotti mirati: quelli provenienti dagli States che elettoralmente stanno
più a cuore a George Bush. Gli Usa hanno tempo fino a giugno per pensarci.
Sempre a termine di Omc, infatti, potrebbero evitare il peggio se, per
controbilanciare i danni ai produttori di acciaio europei, decidessero di
«favorire» altri prodotti made in Europe. Washington risponde picche. Ma
intanto Bruxelles ha già innalzato un muro tariffario contro le produzioni
siderurgiche di altri paesi che, respinte dallo sbarramento americano,
volessero «invadere» i mercati europei.

Giovedì, Romano Prodi, uscito da quattro ore di colloqui con Bush, ha
dichiarato che l'Europa risolverà il contenzioso attraverso l'Omc. Ma,
visto l'uso fatto finora dell'Organizzazione, tirata in ballo per dire
tutto e il suo contrario, non è chiaro cosa il commissario europeo intenda
dire. Tanto più che, proprio nello stesso momento in cui lui e il premier
spagnolo Aznar erano intrattenuti alla Casa bianca, la Camera dei
Rappresentanti Usa regalava agli agricoltori americani quasi cinque
miliardi di dollari l'anno per i prossimi sei anni.

Tra siderurgici e coltivatori di cotone e cereali americani, un pensiero
affettuoso è andato anche all'industria del legname, protetta contro la
concorrenza del legname canadese da recentissime tariffe del 29%.

Un rush protezionistico a tutto campo che contingentemente si giustifica
con la scadenza delle elezioni a medio termine di novembre, assai
importanti per il consolidamento dell'amministrazione Bush. Ma che nel
lungo periodo proietta uno scenario inquietante, dove una politica estera
interventista all'estremo si congiunge a una concezione dell'interesse
nazionale degna del più chiuso isolazionismo. Un cocktail micidiale da
imperialismo predatorio che precipita, oscurandoli, su un tempo travagliato
e un orizzonte di sviluppo incerto dove tutte le potenze economiche
sembrano incapaci di uscire dal mercantilismo più cieco. Persino l'ultimo
Rapporto dell'Unctad (la Conferenza delle Nazioni unite sullo sviluppo e il
commercio) si accorge del fossato «tra la retorica e la realtà dell' ordine
economico internazionale liberista. Questo scarto è del tutto evidente nel
sistema commerciale internazionale. Nello stesso momento in cui i governi
esaltano le virtù del libero scambio, sono sempre più inclini a intervenire
per proteggere le loro clientele locali che si sentono minacciate dai venti
freddi della concorrenza». E il capo del Fmi, Horst Koehler, è dovuto
andare in Burkina Faso, il miglior produttore di cotone mondiale, per
capire che le politiche commerciali di Usa e Ue sono «perverse», visto che
i sussidi concessi ai coltivatori di cotone americani superano il valore
dell'intera produzione dell'Africa sub sahariana. Idem dicasi per i sussidi
europei ai produttori di zucchero.

Ma quella del libero scambio è sempre stata una virtù molto offesa, che
solo pochi ingenui si sentirebbero di difendere. Come ben sa anche
l'America latina, cortile di casa degli Usa. E' dal 1987 che l'export
brasiliano di succo d'arancia concentrato e surgelato è colpito dagli
States con misure protezionistiche anti dumping del 16%. Il Cile, da parte
sua, subisce dal 1998 sanzioni commerciali contro l'export di salmone
fresco e funghi secchi. L'Argentina, il paese che «non riesce a esportare
niente perché non è competitivo», l'anno scorso è stata colpita con misure
anti dumping fino al 66% sul suo export di miele, un settore che fino al
novembre scorso faceva affluire oltre 86 milioni di dollari e dava da
vivere a migliaia di contadini. E' chiara la speranza di Washington che,
quando il continente sudamericano sarà stremato, troverà finalmente
attraente persino l'Alca, l'area di libero scambio dal Canada alla Terra
del fuoco.