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dalla fine del lavoro al superlavoro
- Subject: dalla fine del lavoro al superlavoro
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Tue, 05 Mar 2002 06:42:55 +0100
dal manifesto di venerdi 1 marzo 2002 01 Marzo 2002 Lavori in corso Le tesi sulla fine del lavoro alla luce del superlavoro che caratterizza le società industriali e della crisi del welfare state. Un libro dello studioso brasiliano Ricardo Antunes LUIGI CAVALLARO "Il meglio del mio libro - scriveva Marx a Engels il 24 agosto 1867, a ridosso della pubblicazione del primo libro del Capitale - è il doppio carattere del lavoro subito messo in rilievo nel primo capitolo, a seconda che esso si esprima in valore d'uso o in valore di scambio". Benché Marx attribuisse grande rilievo a questa indicazione, al punto da precisare che su di essa "riposa tutta la comprensione dei facts", non sembra che coloro che tuttora continuano a cercare nella riflessione del Moro una o più chiavi per la comprensione del tempo presente vi diano granché rilievo. La riprova è costituita dall'infinita querelle sulla tesi della "fine del lavoro", sostenitori e detrattori della quale passano il tempo a rovesciarsi l'uno contro l'altro tonnellate di empiria che mostrerebbe ora la crescita assoluta del numero dei salariati (e quindi che il lavoro è senza fine), ora la crescita della disoccupazione (e quindi che il lavoro è finito). E' a questo riguardo che ho trovato estremamente interessante un libretto di Ricardo Antunes, sociologo brasiliano dell'Università di Campinas (Rio de Janeiro), dal titolo Addio al lavoro? Metamorfosi del mondo del lavoro nell'età della globalizzazione (Biblioteca Franco Serantini, pp. 128, 10,33 euro). Come sottolinea Alain Bihr nella sua introduzione, la tesi centrale di questo libro (pubblicato originariamente nel 1995, più volte ristampato in Brasile e in America Latina e ora disponibile da noi grazie alla traduzione italiana di Antonino Infranca) è che le apparenti contraddizioni evocate dalla formula circa la cosiddetta "fine del lavoro" svaniscono non appena si ponga mente al "doppio carattere del lavoro" di cui si diceva prima, distinguendo opportunamente fra "lavoro concreto" (cioè lavoro che si rappresenta in oggetti d'uso, ossia capaci di soddisfare bisogni) e "lavoro astratto" (cioè lavoro che si rappresenta in valore, ossia in denaro, ossia in capitale). L'espressione "fine del lavoro", dice Antunes, rimanda infatti al "lavoro astratto" e può essere convenientemente rappresentata come crisi della produzione organizzata sulla base dei rapporti capitalistici, di cui gli alti tassi di disoccupazione imperanti in tutto il mondo costituiscono l'epifenomeno più rappresentativo. Si tratta di una crisi che - come Marx spiega proprio nel primo capitolo del primo libro del Capitale - origina dalla dinamica immanente alla produzione basata sul valore di scambio, giacché lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale, facendo sì che quantità sempre minori di lavoro si oggettivino in quantità sempre maggiori di merci, determina la caduta del loro valore di scambio e frustra così l'incentivo alla produzione capitalistica dei valori d'uso (cioè alla produzione di merci). Nasce da qui, da questa dinamica, il duplice paradosso per cui, sulla base del modo di produzione capitalistico, si "sottoproduce" sistematicamente rispetto al livello di piena occupazione e lo sviluppo della produttività sociale del lavoro si manifesta sotto forma di "caduta tendenziale del saggio del profitto". E benché questi paradossi segnino un'intera epoca storica, quella del dominio del modo di produzione capitalistico sugli altri modi di produrre e distribuire la ricchezza sociale con esso coesistenti, è anche vero che non solo la crescita costante della disoccupazione negli ultimi trent'anni, ma soprattutto la circostanza che il capitale non riesca più a riprodursi ai tassi di crescita del secolo XIX (se non nelle periferie del pianeta, dove le condizioni della vita sociale ricalcano più dappresso quelle prevalenti due secoli fa in Europa e nell'America del Nord) costituiscono evidenze empiriche che dovrebbero indurci a riflettere sulla sensatezza di attribuire al capitale un potere che viceversa appare sempre più l'espressione rovesciata di una nostra intrinseca debolezza. Il problema, infatti, è che la "fine del lavoro astratto", vale a dire la crisi dei rapporti di produzione capitalistici, non equivale affatto - dice ancora Antunes - alla "fine del lavoro" concreto, cioè alla fine di quel processo di appropriazione e trasformazione della natura per fini particolari in cui si sostanzia ogni processo lavorativo: anzi, una "fine del lavoro", in questo senso, non è nemmeno ipotizzabile, giacché finirebbe la vita stessa ("Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è cosa che ogni bambino sa", scrisse Marx in una celebre lettera a Kugelmann). Piuttosto, in considerazione del fatto che, fin da quando ha avuto termine la produzione per l'autosussistenza, il lavoro umano, oltre ad una forma materiale, ha sempre avuto bisogno di acquisire anche una forma sociale (che si manifesta nel modo in cui si rendono disponibili per la società i mezzi e i prodotti del lavoro, onde distinguiamo diversi modi di produzione), la "fine del lavoro astratto" di cui parla Antunes reca con sé la necessità di risolvere il quesito circa la nuova e superiore forma attraverso cui tornare a connettere i bisogni sociali e l'attività lavorativa volta a soddisfarli. Con la conseguenza - aggiungo io - che l'incapacità di elaborare le risposte adeguate può implicare una sorta di "coazione a ripetere", tale per cui, contro ogni evidenza, ci si ostina a credere nella persistente validità di rapporti di produzione ormai palesemente inidonei a consentire alla società di esprimere tutte le sue potenzialità creative. Un errore del genere, però, si paga caro. Quando certi rapporti di produzione non sono più in grado di mediare efficacemente lo sviluppo delle forze produttive sociali, ogni pretesa della società di costringere queste ultime entro il vecchio involucro non può che comportare un impoverimento generalizzato: questa è una verità talmente palese che fu enunciata sia da Marx che da Keynes, benché il secondo non potesse soffrire il primo (che, dal canto suo, non poté conoscerlo). La durezza di questa verità è la realtà che stiamo sperimentando sulla nostra pelle da quando, manifestatasi la prima "crisi di crescita" del Welfare State, abbiamo ritenuto di affidare nuovamente all'impresa privata - cioè ai rapporti di produzione capitalistici - il compito di trarci fuori dall'impasse: la crescita della disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la compressione salariale e l'attacco ai diritti sociali ne costituiscono l'evidenza migliore. Sotto questo profilo, il rilievo (corrente anche a sinistra) per cui il lavoro salariato "aumenta", nel senso che aumenta complessivamente il numero dei salariati, può "mostrare" soltanto la perdurante necessità del lavoro "concreto", cioè della necessità di soddisfare, in una qualsiasi forma, certi bisogni sociali, ma certo non "dimostra" l'idoneità allo scopo dei rapporti di produzione capitalistici. Caso mai, dà conto della nostra impotenza a risolvere adeguatamente i problemi riproduttivi emersi a metà degli anni Settanta, quando la strategia di impiegare (direttamente o indirettamente) alle pubbliche dipendenze i lavoratori eccedentari rispetto ai bisogni della macchina capitalistica mostrò la corda, a causa dello scollamento intervenuto fra le attività messe in moto dallo Stato (scuola, sanità, previdenza, trasporti, ecc.) e i bisogni che, in ipotesi, queste avrebbero dovuto soddisfare. Qui, però, il discorso di Antunes si fa più sfumato. Egli, da un lato, ritiene giustamente che occorra tornare ad appropriarsi del tempo reso disponibile dallo sviluppo della produttività sociale del lavoro - e che per ora si spreca in forma di disoccupazione di massa - mediante la riduzione generalizzata dell'orario di lavoro. Ma, cogliendo il valore di mero presupposto di questa strategia (alcuni anni fa, Giovanni Mazzetti la paragonò efficacemente all'acquisto di un paio d'occhiali per chi è miope: gli risolve il problema di vedere, ma non quello di scegliere cosa vedere), sostiene, dall'altro lato, che occorrerebbe reimpiegare questo tempo in una produzione orientata al valore d'uso, nel senso di "cose veramente utili". Così facendo, però, egli dimentica che anche le merci sono valori d'uso (anzi, possono porsi come valore di scambio solo in quanto riescano a essere valori d'uso) e finisce con l'eludere il problema cruciale, che è quello della nuova veste sociale che questo valore d'uso dovrebbe assumere in conseguenza della negazione della forma di merce. Di più: nonostante anche in America Latina comincino a fare capolino teorie che sostengono che il finanziamento pubblico del Welfare State ha operato una "rivoluzione copernicana", detronizzando il valore di scambio dal ruolo di "nervo centrale" della costituzione sociale (Francisco de Oliveira, ad esempio, ha parlato espressamente di un "modo socialdemocratico della produzione"), Antunes sembra non distinguere - conformemente a molta tradizione marxista europea e americana degli anni Settanta e Ottanta - fra capitalismo e Stato, precludendosi così la possibilità di scorgere il progresso costituito dall'altra forma sociale che, proprio grazie allo Stato, il valore d'uso ha assunto nella modernità: la forma di "diritto" (allo studio, alla salute, all'assistenza in caso di disoccupazione, vecchiaia, infermità ecc.). Intendiamoci: che il capitalismo e lo Stato vadano accomunati in quanto trasposizioni della forza produttiva sociale, mi pare indiscutibile. Purché non si dimentichi quel fondamentale insegnamento marxiano della Questione ebraica, secondo cui lo Stato, per quanto strumento indiretto, rappresenta comunque un progresso nella storia del riconoscimento delle forze produttive sociali come forces propres degli individui. In quest'ottica, innalzare la bandiera del "terzo settore" contro lo Stato, offrendo con ciò ai nostri avversari un insperato aiuto nella privatizzazione della sfera pubblica in atto da anni, sarebbe, oltre che politicamente dissennato, anche palesemente contraddittorio con la crescente rivendicazione di "diritti" cui assistiamo ai nostri giorni. Un diritto, spiegava Kelsen, si può rivendicare solo se dall'altra parte c'è un simmetrico obbligo: e chi vorreste chiamare a garante del vostro diritto alla salute o allo studio o all'ambiente salubre, un imprenditore?
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