dalla fine del lavoro al superlavoro



dal manifesto di venerdi 1 marzo 2002

     
    
 
    
 

01 Marzo 2002 
  
 
   
Lavori in corso 
Le tesi sulla fine del lavoro alla luce del superlavoro che caratterizza le
società industriali e della crisi del welfare state. Un libro dello
studioso brasiliano Ricardo Antunes LUIGI CAVALLARO 




"Il meglio del mio libro - scriveva Marx a Engels il 24 agosto 1867, a
ridosso della pubblicazione del primo libro del Capitale - è il doppio
carattere del lavoro subito messo in rilievo nel primo capitolo, a seconda
che esso si esprima in valore d'uso o in valore di scambio". Benché Marx
attribuisse grande rilievo a questa indicazione, al punto da precisare che
su di essa "riposa tutta la comprensione dei facts", non sembra che coloro
che tuttora continuano a cercare nella riflessione del Moro una o più
chiavi per la comprensione del tempo presente vi diano granché rilievo. La
riprova è costituita dall'infinita querelle sulla tesi della "fine del
lavoro", sostenitori e detrattori della quale passano il tempo a
rovesciarsi l'uno contro l'altro tonnellate di empiria che mostrerebbe ora
la crescita assoluta del numero dei salariati (e quindi che il lavoro è
senza fine), ora la crescita della disoccupazione (e quindi che il lavoro è
finito).
E' a questo riguardo che ho trovato estremamente interessante un libretto
di Ricardo Antunes, sociologo brasiliano dell'Università di Campinas (Rio
de Janeiro), dal titolo Addio al lavoro? Metamorfosi del mondo del lavoro
nell'età della globalizzazione (Biblioteca Franco Serantini, pp. 128, 10,33
euro). Come sottolinea Alain Bihr nella sua introduzione, la tesi centrale
di questo libro (pubblicato originariamente nel 1995, più volte ristampato
in Brasile e in America Latina e ora disponibile da noi grazie alla
traduzione italiana di Antonino Infranca) è che le apparenti contraddizioni
evocate dalla formula circa la cosiddetta "fine del lavoro" svaniscono non
appena si ponga mente al "doppio carattere del lavoro" di cui si diceva
prima, distinguendo opportunamente fra "lavoro concreto" (cioè lavoro che
si rappresenta in oggetti d'uso, ossia capaci di soddisfare bisogni) e
"lavoro astratto" (cioè lavoro che si rappresenta in valore, ossia in
denaro, ossia in capitale).

L'espressione "fine del lavoro", dice Antunes, rimanda infatti al "lavoro
astratto" e può essere convenientemente rappresentata come crisi della
produzione organizzata sulla base dei rapporti capitalistici, di cui gli
alti tassi di disoccupazione imperanti in tutto il mondo costituiscono
l'epifenomeno più rappresentativo. Si tratta di una crisi che - come Marx
spiega proprio nel primo capitolo del primo libro del Capitale - origina
dalla dinamica immanente alla produzione basata sul valore di scambio,
giacché lo sviluppo della forza produttiva del lavoro sociale, facendo sì
che quantità sempre minori di lavoro si oggettivino in quantità sempre
maggiori di merci, determina la caduta del loro valore di scambio e frustra
così l'incentivo alla produzione capitalistica dei valori d'uso (cioè alla
produzione di merci).
Nasce da qui, da questa dinamica, il duplice paradosso per cui, sulla base
del modo di produzione capitalistico, si "sottoproduce" sistematicamente
rispetto al livello di piena occupazione e lo sviluppo della produttività
sociale del lavoro si manifesta sotto forma di "caduta tendenziale del
saggio del profitto". E benché questi paradossi segnino un'intera epoca
storica, quella del dominio del modo di produzione capitalistico sugli
altri modi di produrre e distribuire la ricchezza sociale con esso
coesistenti, è anche vero che non solo la crescita costante della
disoccupazione negli ultimi trent'anni, ma soprattutto la circostanza che
il capitale non riesca più a riprodursi ai tassi di crescita del secolo XIX
(se non nelle periferie del pianeta, dove le condizioni della vita sociale
ricalcano più dappresso quelle prevalenti due secoli fa in Europa e
nell'America del Nord) costituiscono evidenze empiriche che dovrebbero
indurci a riflettere sulla sensatezza di attribuire al capitale un potere
che viceversa appare sempre più l'espressione rovesciata di una nostra
intrinseca debolezza.
Il problema, infatti, è che la "fine del lavoro astratto", vale a dire la
crisi dei rapporti di produzione capitalistici, non equivale affatto - dice
ancora Antunes - alla "fine del lavoro" concreto, cioè alla fine di quel
processo di appropriazione e trasformazione della natura per fini
particolari in cui si sostanzia ogni processo lavorativo: anzi, una "fine
del lavoro", in questo senso, non è nemmeno ipotizzabile, giacché finirebbe
la vita stessa ("Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo
per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è cosa che ogni bambino
sa", scrisse Marx in una celebre lettera a Kugelmann). Piuttosto, in
considerazione del fatto che, fin da quando ha avuto termine la produzione
per l'autosussistenza, il lavoro umano, oltre ad una forma materiale, ha
sempre avuto bisogno di acquisire anche una forma sociale (che si manifesta
nel modo in cui si rendono disponibili per la società i mezzi e i prodotti
del lavoro, onde distinguiamo diversi modi di produzione), la "fine del
lavoro astratto" di cui parla Antunes reca con sé la necessità di risolvere
il quesito circa la nuova e superiore forma attraverso cui tornare a
connettere i bisogni sociali e l'attività lavorativa volta a soddisfarli.
Con la conseguenza - aggiungo io - che l'incapacità di elaborare le
risposte adeguate può implicare una sorta di "coazione a ripetere", tale
per cui, contro ogni evidenza, ci si ostina a credere nella persistente
validità di rapporti di produzione ormai palesemente inidonei a consentire
alla società di esprimere tutte le sue potenzialità creative.
Un errore del genere, però, si paga caro. Quando certi rapporti di
produzione non sono più in grado di mediare efficacemente lo sviluppo delle
forze produttive sociali, ogni pretesa della società di costringere queste
ultime entro il vecchio involucro non può che comportare un impoverimento
generalizzato: questa è una verità talmente palese che fu enunciata sia da
Marx che da Keynes, benché il secondo non potesse soffrire il primo (che,
dal canto suo, non poté conoscerlo).
La durezza di questa verità è la realtà che stiamo sperimentando sulla
nostra pelle da quando, manifestatasi la prima "crisi di crescita" del
Welfare State, abbiamo ritenuto di affidare nuovamente all'impresa privata
- cioè ai rapporti di produzione capitalistici - il compito di trarci fuori
dall'impasse: la crescita della disoccupazione, la precarizzazione del
lavoro, la compressione salariale e l'attacco ai diritti sociali ne
costituiscono l'evidenza migliore.
Sotto questo profilo, il rilievo (corrente anche a sinistra) per cui il
lavoro salariato "aumenta", nel senso che aumenta complessivamente il
numero dei salariati, può "mostrare" soltanto la perdurante necessità del
lavoro "concreto", cioè della necessità di soddisfare, in una qualsiasi
forma, certi bisogni sociali, ma certo non "dimostra" l'idoneità allo scopo
dei rapporti di produzione capitalistici. Caso mai, dà conto della nostra
impotenza a risolvere adeguatamente i problemi riproduttivi emersi a metà
degli anni Settanta, quando la strategia di impiegare (direttamente o
indirettamente) alle pubbliche dipendenze i lavoratori eccedentari rispetto
ai bisogni della macchina capitalistica mostrò la corda, a causa dello
scollamento intervenuto fra le attività messe in moto dallo Stato (scuola,
sanità, previdenza, trasporti, ecc.) e i bisogni che, in ipotesi, queste
avrebbero dovuto soddisfare.

Qui, però, il discorso di Antunes si fa più sfumato. Egli, da un lato,
ritiene giustamente che occorra tornare ad appropriarsi del tempo reso
disponibile dallo sviluppo della produttività sociale del lavoro - e che
per ora si spreca in forma di disoccupazione di massa - mediante la
riduzione generalizzata dell'orario di lavoro. Ma, cogliendo il valore di
mero presupposto di questa strategia (alcuni anni fa, Giovanni Mazzetti la
paragonò efficacemente all'acquisto di un paio d'occhiali per chi è miope:
gli risolve il problema di vedere, ma non quello di scegliere cosa vedere),
sostiene, dall'altro lato, che occorrerebbe reimpiegare questo tempo in una
produzione orientata al valore d'uso, nel senso di "cose veramente utili".
Così facendo, però, egli dimentica che anche le merci sono valori d'uso
(anzi, possono porsi come valore di scambio solo in quanto riescano a
essere valori d'uso) e finisce con l'eludere il problema cruciale, che è
quello della nuova veste sociale che questo valore d'uso dovrebbe assumere
in conseguenza della negazione della forma di merce.

Di più: nonostante anche in America Latina comincino a fare capolino teorie
che sostengono che il finanziamento pubblico del Welfare State ha operato
una "rivoluzione copernicana", detronizzando il valore di scambio dal ruolo
di "nervo centrale" della costituzione sociale (Francisco de Oliveira, ad
esempio, ha parlato espressamente di un "modo socialdemocratico della
produzione"), Antunes sembra non distinguere - conformemente a molta
tradizione marxista europea e americana degli anni Settanta e Ottanta - fra
capitalismo e Stato, precludendosi così la possibilità di scorgere il
progresso costituito dall'altra forma sociale che, proprio grazie allo
Stato, il valore d'uso ha assunto nella modernità: la forma di "diritto"
(allo studio, alla salute, all'assistenza in caso di disoccupazione,
vecchiaia, infermità ecc.).
Intendiamoci: che il capitalismo e lo Stato vadano accomunati in quanto
trasposizioni della forza produttiva sociale, mi pare indiscutibile. Purché
non si dimentichi quel fondamentale insegnamento marxiano della Questione
ebraica, secondo cui lo Stato, per quanto strumento indiretto, rappresenta
comunque un progresso nella storia del riconoscimento delle forze
produttive sociali come forces propres degli individui. In quest'ottica,
innalzare la bandiera del "terzo settore" contro lo Stato, offrendo con ciò
ai nostri avversari un insperato aiuto nella privatizzazione della sfera
pubblica in atto da anni, sarebbe, oltre che politicamente dissennato,
anche palesemente contraddittorio con la crescente rivendicazione di
"diritti" cui assistiamo ai nostri giorni. Un diritto, spiegava Kelsen, si
può rivendicare solo se dall'altra parte c'è un simmetrico obbligo: e chi
vorreste chiamare a garante del vostro diritto alla salute o allo studio o
all'ambiente salubre, un imprenditore?