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brevetti in tribunale
- Subject: brevetti in tribunale
- From: Andrea Agostini <lonanoda at tin.it>
- Date: Wed, 13 Feb 2002 06:45:41 +0100
dal manifesto 10 Febbraio 2002 I brevetti in tribunale Nelle aule dei tribunali le aziende della vecchia e della nuova economia cercano di estendere i loro diritti di proprietà intellettuale FRANCO CARLINI Una causa legale dietro l'altra, anche così va avanti la Nuova Tecnologia. Molte sono assurde, altre sono pure azioni anticoncorrenziali, diverse sono di tipo parassitario. Ma di una cosa non si può dubitare: gli studi legali, agguerritissimi e specializzati, guadagnano molto in questi processi; quanto ai consumatori, quello è un altro discorso. Ma sarebbe sbagliato, al tempo stesso, considerare queste "follie" come delle "follie", appunto: esse fanno parte costitutiva di un settore sempre più competitivo dove i beni immateriali - le idee - spesso contano più dei prodotti. Qui di seguito una carrellata di casi che testimoniano della crescente aggressività con cui le aziende della vecchia e della nuova economia cercano di estendere i loro diritti di proprietà intellettuale al di là di ogni ragionevole equilibrio. Il primo caso vede come protagonista l'operatore telefonico inglese, ex monopolista, British Telecom. Gigante addormentato certo, e pieno di debiti, ma evidentemente dotato di archivisti di valore: uno di loro, scavando negli armadi, scoprì che nel lontano 1976 la società aveva depositato e ottenuto un brevetto per un "Sistema di trattamento dell'informazione e relativo apparato terminale". E' il brevetto americano numero 4.873.662. Secondo la società, quel brevetto descrive esattamente il sistema di collegare un testo con un altro, i link del World Wide Web. E perciò chiunque utilizzi un sistema ipertestuale dovrebbe ottenere una licenza da Bt e pagare una debita royalty. Nel giugno del 2000 British Telecom aprì le ostilità legali e domani, lunedì 13 febbraio, la causa verrà discussa presso il tribunale di White Plains, New York. Infatti l'azienda citata in giudizio per violazione del copyright è la Prodigy, che fu uno dei primi operatori di rete americani. La scelta dei legali di Bt è stata di cominciare con un primo procedimento tipo, per vedere come va: se l'esito fosse per lei favorevole, allora potrebbe denunciare tutto il mondo, in astratto pretendendo un risarcimento da ognuno dei 125 milioni di host computer della rete Internet. Un portavoce della società ha dichiarato: "Crediamo di avere il dovere di difendere la nostra proprietà intellettuale e ci aspettiamo che le aziende paghino una ragionevole royalty, basata sui ricavi che hanno goduto attraverso l'uso della nostra proprietà intellettuale". In questa storia orribile, che cerca di incassare a posteriori i frutti di una innovazione tecnica e sociale di fatto promossa e diffusa da altri, ci sono due altri protagonisti che dovrebbero dire la loro. Uno è il leggendario Ted Nelson, l'informatico sognatore che per primo, negli anni `60 immaginò un sistema di ipertesti, che collegasse tutta l'umana conoscenza. Il suo libro "Literary Machine" è del 1965. Esiste poi un filmato storico, conservato all'università di Stanford e visibile sul suo sito: in esso Douglas Engelbart, l'inventore del mouse, mostra come spostando il cursore su di una parola, e ciccando, compaia un altro testo collegato al primo. Cade dunque uno dei requisiti della brevettabilità: il trattarsi di un'invenzione originale. Una seconda causa legale connessa ai temi della è arrivata in appello rete nei giorni scorsi e di nuovo il presunto proprietario di una parola, è stato sconfitto. Ha vinto invece Terri Welles, che nel lontano 1981 fu una ragazza PlayBoy, venendo anche proclamata Playmate dell'anno. Nel 1997, ormai donna matura, decise di diventare imprenditrice web, capitalizzando un po' della sua gloria di un tempo. Aprì dunque un suo sito (www.terriwelles.com) e per meglio farlo conoscere inserì nei Meta Tags della Home page la parola "Playmate". I Meta Tags fanno parte dell'intestazione delle pagine Html e non compaiono nella visualizzazione; contengono delle informazioni meta-testuali relative a quella pagina come la data, l'autore e una serie di parole chiave che i motori di ricerca utilizzano per meglio classificarle. Inserendo la parola "Playmate", Terri aumentava la probabilità che battendo quel tema in un motore di ricerca, al navigatore venisse segnalato anche il suo sito. Ma la casa editrice di Playboy la citò in giudizio per violazione del marchio, chiedendo un risarcimento di 5 milioni di dollari. Sostenne in particolare che l'inserimento del termine tra i Meta Tags poteva avere l'effetto indebito di trarre in inganno i navigatori che battendo la parola "Playmate" intendono cercare il sito di Playboy. Il 20 giugno 1998 il giudice Judith N. Keep assolse Terri perché la parola in questione descrive ragionevolmente un risultato importante della sua carriera di modella. Il giudice aggiunse anche che il fair use del marchio non poteva creare confusione e lo fece appoggiandosi a una famosa sentenza del giudice Holmes, del lontano 1924, secondo il quale "quanto un marchio è usato in modo da non trarre in inganno il pubblico, non c'è alcuna santità nella parola tale da impedire su usarla. Non è un taboo". La settimana scorsa la Corte d'Appello ha confermato la sentenza di primo grado. Sempre in questa settimana è stata aperta una causa di segno opposto. E' l'avvocato generale dello stato di New York a chiamare in giudizio una società di software, la Network Associates, che vende programmi per la sicurezza informatica, tra cui quelli, molto diffusi chiamati McAfee antivirus. Questa società aveva inserito nelle confezioni e anche sul suo sito web un obbligo di questo tipo: "Il cliente non pubblicherà alcuna recensione di questo prodotto senza il consenso preventivo della Network Associates". Una bella pretesa, non c'è dubbio, la quale, secondo lo stato di New York, viola il Primo Emendamento della costituzione che tutela la libertà di espressione. La McAfee si difende sostenendo che la clausola fa parte di un contratto di tipo civilistico e che la libertà di parola non c'entra per niente. Le associazioni dei consumatori sono schierate ovviamente a favore della libera recensione in libero stato. E ci mancherebbe altro. Questa causa riporta alla mente quella che vide come imputati lo svedese Eddy Jansson e il canadese Matthew Skala. Nel 1999 essi realizzarono un software chiamato CPHack che agiva come antidoto nei confronti di uno dei più diffusi programmi di filtro, il Cyber Patrol. Grazie a CPHack un impiegato che si trovasse con la navigazione bloccata dalla "pattuglia cibernetica", poteva sboccarla e vedere quali siti erano considerati pericolosi. Immediata fu la causa legale per violazione del copyright. Causa anomala peraltro, giacché il software Cyber Patrol non era stato copiato né alterato, ma piuttosto, attraverso una tecnica di "reverse engineering" era stato realizzato un altro software (il CPHack) che ne rivelava l'elenco. Il tutto per scopi di critica, attività pienamente permessa da ogni norma sul copyright. La causa finì nel nulla perché Cyber Patrol, per tagliar corto con il groviglio legale in cui si era infilata, acquistò il CPHack dai due creatori (garantendo che avrebbe cessato ogni attività legale contro di loro) e ne bloccò l'ulteriore diffusione. Ma intanto, come spesso succede sull'Internet, il software era già volato via, propagandato e diffuso da una moltitudine di siti che ne avevano fatto una bandiera libertaria.
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