teoria e pratica del modello emiliano



dal manifesto

     
    
 
    
 

31 Gennaio 2002 
  
 
 
RICORDO DI SEBASTIANO BRUSCO
Teoria e pratica del modello emiliano 

Chi entra nello studio di Sebastiano Brusco in facoltà - ora che è stato
fatto un po' di ordine e una mano pietosa ha deposto qualche fiore - è
colpito da una fotografia che da anni giaceva lì, semisommersa da libri e
carte. In essa si vede l'allora governatore dell'Arkansas, Bill Clinton,
che prende appunti su un blocco appoggiato sulle ginocchia, altre due
persone che, come lui, ascoltano e Sebastiano che racconta. Il luogo
dell'incontro è Modena. Il tema, non si può sbagliare, i distretti
industriali.
Sebastiano era arrivato a Modena nel '68 (la facoltà nacque in quell'anno),
dopo un lungo periodo trascorso a Cambridge, e aveva cominciato a guardarsi
intorno. Per uno studioso di economia industriale la città, con il suo
ricco tessuto produttivo, il suo articolato sistema di governo delle
relazioni sociali e la sua stretta integrazione fra industria e
agricoltura, era una miniera a cielo aperto. Ma per vedere bisogna saper
guardare. In questo Sebastiano era aiutato dal fatto di provenire da una
realtà sociale completamente diversa. "Perché questo non succede a
Sassari?", mi ha chiesto infinite volte, mentre io mi smarrivo fra Marx e
Sraffa. Questa domanda era il segreto della distanza critica che gli
consentiva di vedere l'Emilia e che attraverso lo studio dell'Emilia gli
avrebbe consentito di raggiungere importanti risultati anche in campo
teorico e di contribuire a dare vita a un filone di studi.
Il processo non fu, tuttavia, lineare. Alcune strade dovettero essere
abbandonate, altre portarono in direzioni diverse da quelle inizialmente
previste. Le lavoranti a domicilio del quartiere "La Madonnina" gli fecero
capire che quel modo di lavorare, accanto a evidenti svantaggi, presentava
anche vantaggi, particolarmente se qualcun altro in famiglia aveva un
lavoro regolare; le delegate di fabbrica gli spiegarono che "in certi
periodi della vita l'orario completo non avrebbero potuto farlo". Che in
una spiegazione "dal lato dell'offerta" ci fosse qualche elemento di verità
di cui tener conto era per lui fonte di sorpresa, se non di scandalo. Ma
forniva anche uno stimolo alla riflessione. Dovette concluderne, lo
scriverà più tardi, che "in situazioni di piena occupazione forse accadono
cose diverse da ciò che accade in Sardegna". Così, accumulava pietre e
calcina per la casa che avrebbe costruito.
Analogamente andarono le cose nello studio delle piccole imprese. Che per
Sebastiano iniziò da un'indagine sul settore metalmeccanico bolognese,
promossa nel 1971 dalla Fiom di Claudio Sabattini e Francesco Garibaldo.
L'ipotesi di partenza era quella della "subordinazione" della piccola
impresa alla grande. La piccola, tipicamente, non produceva per il mercato,
ma per la grade, della quale costituiva spesso un "reparto staccato", che
lavorava a costi molto inferiori grazie alla sua "capacità di non pagare",
ossia di imporre ai lavoratori paghe e condizioni di lavoro impensabili
nella grande impresa. Piccola impresa, grande sfruttamento s'intitolava,
significativamente, un volumetto che dava conto di una ricerca condotta a
Verona (e qui mi piace ricordare un altro amico scomparso, Federico
Bozzini, che di quella ricerca fu l'animatore). Fra la Mondadori e le
imprese che lavoravano per la Mondadori le differenze di paga, a parità di
mansioni, potevano superare il 50%.
Senza in alcun modo negare questo, Sebastiano cominciò a vedere che c'era
anche dell'altro. Parecchio altro. Molte piccole imprese lavoravano per il
mercato. Molte di quelle che lavoravano per altre imprese non avevano
necessariamente un solo committente, ma passavano dall'uno all'altro
secondo il mutare delle esigenze (ciò che garantiva loro una sostanziale
assenza di subordinazione, e conferiva all'intera struttura produttiva una
straordinaria flessibilità). Paghe e condizioni di lavoro erano certamente
disastrose, ma non era questa l'unica fonte della competitività delle
piccole imprese. I macchinari impiegati, in particolare, erano spesso gli
stessi nelle grandi e piccole imprese.
Quest'ultimo aspetto poneva un rilevante problema teorico. Perché ci
avevano insegnato che il mondo è governato dalle economie di scala:
maggiore è la scala produttiva, minori i costi. Certi modi di produrre
divengono convenienti solo al di sopra di un certo livello di produzione.
Insomma. se si producono venti automobili all'anno, non è conveniente
installare una catena di montaggio. Ovvio, no? Ma se la maggiore scala
produttiva è ottenuta installando cento torni uno vicino all'altro, le cose
prendono un aspetto diverso. Ciascuno di quei torni sarebbe altrettanto
efficiente se venisse installato in una cantina. Ovvio anche questo. Ma la
ragione per cui alcune cose paiono ovvie è che qualcuno ce le ha spiegate.
Le economie di scala rappresentano un pezzo decisivo della visione di Marx.
E con Marx Sebastiano si trovò ben presto costretto a fare i conti. Dove
stava, per Marx, la fonte delle economie di scala? Io, che ero considerato
un esperto di Marx, non l'avevo mai capito. Stava, lui ci spiegò, nella
forza motrice. Un motore centrale che mette in movimento cento torni, o
cento telai: sono queste le fabbriche di Marx, con i loro bracci mostruosi
che trasmettono il movimento. Ma se basta inserire una spina per avere la
corrente elettrica necessaria, la tecnologia è altrettanto avanzata se i
cento torni, o telai, stanno tutti insieme o in posti diversi. Che poi
tecnologia avanzata e bassi salari possano convivere felicemente è un
risultato difficilmente spiegabile alla luce della teoria economica
dominante. Un punto che Sebastiano amava ricordare come prova del fatto che
la sua giovanile frequentazione di Sraffa e dei dibattiti sulla teoria del
capitale non erano passati per lui come l'acqua sui sassi.
Nello studio delle piccole imprese (ma anche dell'agricoltura "ricca", e
dei nessi fra attività agricola e attività industriale) sta il nucleo
originario delle riflessioni che hanno condotto Sebastiano agli aspetti più
noti della sua produzione scientifica: lo studio dei distretti industriali,
dove ha trovato significativi punti d'incontro con un altro studioso,
Giacomo Becattini; e quello delle interazioni fra struttura produttiva,
mercato del lavoro e forme della mediazione e del controllo sociale.
Eloquente appare qui il titolo di un saggio che ha esercitato una forte
influenza e che gli è valso i primi estesi riconoscimenti internazionali:
Il "Modello Emilia": disintegrazione produttiva e integrazione sociale.
Ho parlato più delle cose lontane che di quelle vicine. Spero non mi venga
rimproverato. Questo è il momento della commozione e del ricordo. Per un
apprezzamento completo del suo lavoro scientifico ci sarà tempo in seguito.
Se il lettore si è incuriosito, vada a vedere, per prima cosa, le note di
presentazione ai saggi raccolti nel volume Piccole imprese e distretti
industriali (Rosenberg & Sellier, 1989). In tali note, cui ho liberamente
attinto, l'autore non fa quel che ogni scrittore accademico farebbe:
sistemare retrospettivamente la materia, colmare (o nascondere) le lacune,
integrare e aggiornare i riferimenti alla letteratura. Fa una cosa diversa
e del tutto inconsueta. Racconta come gli è venuta l'idea, o come gli si è
presentata l'occasione, di occuparsi di un argomento; rievoca le
discussioni con i colleghi e i rapporti con il sindacato; parla degli
allievi che hanno collaborato con lui: tantissimi, perché era uno
straordinario plasmatore di intelligenze e suscitatore di energie. Egli
giustifica così questo modo di procedere: "Mi sono convinto che alla mia
età - e in tempi in cui la distinzione fra pubblico e privato si fa,
finalmente, meno netta - potevo consentirmi di raccontare il dove, il come,
il perché e il quando di ogni pezzo, evitando di tenere un discorso
rigorosamente impersonale e analitico. E mi sono accorto, nel farlo, che in
questo violare le regole vi erano talvolta dei pericoli, ma anche, in più
di un caso, occasioni di riflessioni e di sorriso". Chi lo ha conosciuto
rivedrà il suo sorriso: un sorriso speciale, appena accennato, che
indugiava a lungo a mezz'aria, come trattenuto da un improvviso ritegno, o
da un pensiero malinconico.