l'altruismo conviene



dal manifesto di domenica 23 dicembre 2001

L'altruismo conviene 
Il comportamento egoistico si tramuta davvero in un vantaggio collettivo?
Studi recenti confutano il teorema fondante il capitalismo 
FRANCO CARLINI 

Linus Torvalds (il fondatore della comunità Linux) e Tim Berners-Lee
l'inventore del World Wide Web rappresentano solo le figure più note di un
movimento ampio detto di Free Software e, nella versione più recente di
Open Source, che ha acquistato enorme popolarità e anche successo di
mercato grazie ai prodotti aperti come Linux, Apache, Perl, Php eccetera.
Ma l'interesse di queste esperienze va al di là di una idealistica
contestazione del modo classico di fare software e di stare in rete.
Si può invece sostenere che: 1. il comportamento altruista e cooperativo
non è solo un residuo di società arcaiche e preindustriali; 2. che esso non
è solo l'altra faccia dell'egoismo umano; 3. ma invece è un elemento
modernissimo e essenziale del nuovo mondo che si va plasmando e che, in
quanto tale, dovrebbe semmai risultare interessante anche per i più
lungimiranti tra i capitalisti - la qual cosa del resto si va già verificando.
Eugenio Scalfari continua a sostenere che l'uomo è intrinsecamente
aggressivo e che chi sostiene il contrario rispolvera il logoro mito del
Buon Selvaggio; e tuttavia molte ricerche recenti indagano le origini
dell'altruismo, facendo delle scoperte interessanti. Per parte loro i casi
del software aperto e della cooperazione Internet le ripropongono,
mettendole in nuova luce.
Una spiegazione possibile è di tipo biologico-deterministico, figlia delle
teorie sociobiologiche in voga negli anni '70 e poi riemerse nei '90 sotto
l'etichetta di "psicologia evolutiva". L'ottica è di questo tipo: ogni
comportamento umano ha una determinante genetica; l'evoluzione infatti ha
plasmato piante e animali (e noi tra questi) selezionando i più adatti a
ogni ambiente. Se l'aquila ha una vista così acuta (un occhio d'aquila,
appunto) è perché dovendo scovare le sue prede da grande altezza, sono
risultati favoriti quegli esemplari che, casualmente, avevano una vista
migliore: hanno potuto nutrirsi meglio, e dunque vivere più a lungo e
dunque fare più figli, ai quali hanno trasmesso i geni che sovraintendono
alla costruzione di un apparato visivo con maggiore acuità. E così,
generazione dopo generazione, sono emerse le aquile più adatte.
Anche con i comportamenti le cose andrebbero allo stesso modo e dunque ogni
scelta umana, o almeno quelle più istintuali, deve avere un senso
evolutivo, deve essere il frutto di una selezione che porta qualche
vantaggio. Dunque, ci si chiede, quale vantaggio porta l'essere altruisti?
Tanto più che la specie umana sembra capace di gesti davvero grandi, fino
al sacrificio della propria vita?
In questa ottica si invoca, per gli uomini, ma anche per diversi animali,
una sorta di altruismo verso i consanguinei (kin selection, selezione
parentale), constatando empiricamente che più frequentemente un umano è
altruista verso figli, nipoti e cugini. La spiegazione deterministica
afferma che le cose vanno in tal modo perché l'altruista, così facendo,
aumenta le probabilità di sopravvivenza dei suoi geni, o se non dei suoi
geni in senso stretto, quantomeno di un pool genetico che contiene molto
del suo Dna. Questa teoria, inizialmente avanzata da Hamilton nel 1964, è
stata arricchita e rafforzata dal Gene Egoista di Richard Dawkins: in
ultima analisi le scelte di comportamento, anche quelle prese in base
all'apparenza di una libera volizione sono guidate (talora persino
determinate), da un sottofondo genetico, anzi dal bisogno programmato dei
geni di perpetuare se stessi, in un quadro in cui il fenotipo (nel caso
specifico il corpo umano) è solo un mezzo al fine, il contenitore fisico
attraverso il quale i geni raggiungono il loro scopo di eternalizzarsi.
Dunque una madre che si butta nel fuoco per salvare un figlio in pericolo,
lo fa credendo di volergli bene, ma in realtà perché in lei tutto è
programmato e costruito per propagare i propri geni e salvare il figlio è
esattamente un modo di proteggere quel Dna e di assicurargli una discendenza.
Un altro livello di spiegazione suona così: non siamo mai davvero altruisti
perché (magari inconsciamente) quando facciamo un'azione buona ci
attendiamo sempre una ricompensa. E' la teoria dell'altruismo reciproco. In
buona sostanza: se faccio un regalo a un amico, è anche perché mi aspetto
di riceverne uno a mia volta, prima o poi, per esempio in occasione del mio
compleanno. Questo comportamento generoso non si applica solo tra
consanguinei o parenti, ma si esercita anche verso estranei, e sottintende
una posta utilitaristica in gioco: certo si corrono dei rischi (quello che
l'altro si riveli un ingrato), ma se le cose vanno bene, se ne ricava un
beneficio. Se il premio del comportamento altruistico è superiore al suo
costo, allora esso si rafforza e si diffonde. Questo modello cerca di
ricondurre a motivazioni razionali la generosità umana, dove per razionale
si deve intendere una scelta che pesi i costi e i benefici delle diverse
opzioni e ne ottimizzi il rapporto. Sono evidenti in questo caso le
influenze culturali delle teorie sull'operatore razionale che sono la
passione degli economisti. Riecheggiano in tale versione le formulazioni di
Adam Smith (La ricchezza delle nazioni), laddove sostiene che non è sulla
"benevolenza del macellaio" che si può contare, ma piuttosto sul fatto che
egli, curando al meglio i propri interessi, indirettamente soddisfi al
meglio anche i nostri. Dunque una cooperazione tra egoisti, un altruismo
interessato.
Si innesta qui un altro filone che ha animato le ricerche degli ultimi anni
e che intende affinare le spiegazioni di tipo razionale-individualistico
mettendo all'opera la teoria matematica dei giochi. Questo quadro
concettuale si basa essenzialmente su delle matrici di pagamento che
associano un punteggio positivo o negativo ai diversi comportamenti. Si
tratta dunque di trovare le strategie ottimali, in uno spazio
multidimensionale di scelte e (più interessante ancora) gli algoritmi con
cui far trovare le strategie vincenti. Si chiama teoria dei giochi perché
ben si applica a quei micromondi che sono i giochi: per esempio filetto,
dama, giochi di carte. In qualche caso fortunato (perché particolarmente
semplice) è relativamente facile trovare le mosse giuste per vincere.
Un apparato concettuale del genere è stato applicato ai comportamenti
cooperativi o egoistici, specialmente a partire dalla simulazioni al
computer pubblicate da Robert Axelrod nel 1984. Queste ricerche adottavano
come "campo di gara" e di prova dei comportamenti il cosiddetto Dilemma del
Prigioniero dove due giocatori possono scegliere, a ogni mossa, se
cooperare l'uno con l'altro oppure se tradire (abbandonando il
comportamento collaborativo con una defezione). La matrice del gioco premia
con un punteggio alto la situazione in cui l'uno defezioni mentre l'altro
collabora; dunque quella di tradire sembra la scelta più razionale, ma se
entrambi lo fanno, entrambi sono puniti abbastanza pesantemente. Allora
qual è la scelta migliore?
Le cose si complicano ulteriormente in una situazione più astratta in cui
il gioco (la scelta tra le diverse opzioni) viene iterato, cioè ripetuto
più e più volte. Non esiste una soluzione matematica fissa, l'unica
possibilità è di simulare diverse strategie di comportamernto al computer e
farle giocare l'una contro l'altra in una sorta di torneo. E' quanto fece
Axelrod nel suo lavoro iniziale, ottenendo un risultato interessante: la
strategia migliore tra tutte quelle scese in gara era molto semplice e
relativamente poco egoista; si chiama "Tit for Tat" che si potrebbe
tradurre "Colpo su colpo" e consiste nel cooperare in linea di principio,
ma nel defezionare (restituire il tradimento) se nella giocata precedente
l'altro ha tradito; si riprende poi a collaborare fino a nuovo tradimento.
Da allora le ricerche sono proseguite intensamente per opera soprattutto di
Martin A. Nowak, biologo e matematico viennese che lavora tra Oxford in
Inghilterra e Princeton negli Stati Uniti. E si sono fatte più
interessanti, prima spostando l'attenzione dal breve al lungo termine (nei
giochi iterati) e poi esaminando l'interesse (i costi e i benefici delle
diverse strategie) per intere popolazioni di soggetti (persone, animali,
automi cellulari).
In estrema sintesi ne risultano due risultati che dovrebbero far pensare:
il primo dice che cooperare è meglio. Il secondo che, per effetto delle
iterazioni ripetute su molte popolazioni e generazioni, "emerge" la
cooperazione umana. Ovviamente si tratta di sistemi matematici che tengono
d'occhio solo alcune delle variabili del fenomeno e in ogni caso i
risultati sono di tipo statistico, ma restano comunque significativi perché
possono gettare qualche luce su una caratteristica tipica solo degli umani,
ovvero sulla ricchezza della socialità e sulla complessità delle azioni
umane che non è possibile piegare ai modelli deterministici più stretti.
Secondo alcuni tali comportamenti si possono classificare in un'altra
categoria di altruismo, quella della reciprocità indiretta: non mi aspetto
di essere ricambiato direttamente dal destinatario del dono, ma
dall'insieme dell'ambiente in cui l'atto altruistico si genera. Se si vuole
anche la frase evangelica "Date e vi sarà dato" (Luca 6, 38) corrisponde
all'idea che la ricompensa non necessariamente sarà diretta, ma possa
venire da altri (o dal Signore).
E' chiaro che a questo punto entrano in gioco ben altri fattori che non la
semplice genetica o il calcolo economico-razionale attuato dal singolo
individuo. L'uomo, animale eminentemente sociale, interagisce, risente
dell'ambiente in cui vive e al tempo stesso lo influenza. Capita dunque che
in una comunità si sviluppino forme di altruismo - per esempio il dono - e
che queste vengano ritualizzate e diventino un valore, mentre il
comportamento egoistico è giudicato male. Questo insegna per esempio la
storia dei Commons (i beni comuni come legname, pascoli, pesce del fiume)
che le comunità per secoli hanno gestito in comune, appunto. Ma che
rischiano continuamente di essere deteriorati e sprecati se non esistono
valori condivisi e regole a tutela del bane comune: vale per i pesci del
fiume, ma sta diventando sempre più vero anche per l'Internet. Come si
vedrà meglio nella prossima puntata.